Nel prossimo futuro vi sarà ancora una presenza cristiana significativa in Medio Oriente, oppure, a causa delle guerre incombenti e delle violenze (dell’Isis/Daesh, ma non solo), la culla del cristianesimo sarà praticamente svuotata di una comunità bimillenaria? Questa, nella sua crudezza, la domanda inquietante che da qualche anno si fanno i leader delle Chiese, e che serpeggiava anche tra i partecipanti alla XI Assemblea del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente riunitosi ad Amman, in Giordania, dal 6 all’8 settembre.
Storicamente minoranza
Che vi sia un’emorragia dei cristiani autoctoni in quella cruciale regione è un dato di fatto. Per capire il presente, occorre tuttavia paragonare l’attualità con il recente passato. L’Oeuvre de l’Orient e l’International Religious Freedom Report riportavano, per il 2011, le seguenti percentuali di presenza cristiana, rispetto alla popolazione, in vari paesi mediorientali: Libano 36%, Egitto 7-10%, Siria 4%, Iraq 2%, Israele 2%, Territori palestinesi 1,2%, Iran 0,2%, Turchia 0,1% [cf. Irénikon 1/2016]. Sono cifre, ovviamente, da variare oggi al ribasso, e comunque da non assolutizzare; d’altronde, prima del 2011 (nel marzo di quell’anno iniziò la guerra civile in Siria, con le conseguenze spaventose che tutti conosciamo), a Damasco vari responsabili valutavano i cristiani nel paese tra l’8 e il 10%. Aggiungo – altro quadro – che fonti cristiane, da me interpellate in aprile a Teheran, mi hanno detto che, in Iran, gli armeni – la seconda religione della Repubblica islamica, a invalicabile distanza dalla prima, la soverchiante musulmana – erano sui 150mila, e i cattolici alcune poche migliaia; sarebbero poi in crescita gruppi protestanti, soprattutto evangelical (difficili da quantificare, non essendo formalmente riconosciuti).
Si deve però notare che, in questi ultimissimi anni, in alcuni paesi mediorientali la presenza cristiana è molto aumentata. Non però per un’ondata di conversioni di musulmani al cristianesimo – scelta proibitissima, dalla legge e/o dal costume sociale, e che può essere punita perfino con la morte – ma per l’arrivo di molti lavoratori cristiani, donne e uomini, le une impegnate nel lavoro domestico o come badanti, e gli altri nell’agricoltura e nell’edilizia. Sono presenze corpose, ma stagionali, e quasi delle “isole”, perché non possono fare opera di evangelizzazione. Anche il loro status è assai differente, a seconda del paese in cui vivono; prendiamo, ad esempio, Arabia saudita ed Oman.
Situazioni locali
Nel primo paese oggi lavorano circa due milioni e mezzo di donne e uomini cristiani, provenienti soprattutto da Medio Oriente, Pakistan, India, Vietnam, Indonesia, Etiopia. Non hanno però diritto ad avere, ufficialmente, nemmeno una chiesa (una flagrante violazione della libertà religiosa che l’Occidente, bisognoso del petrolio saudita, ipocritamente tollera): il regime di Riyadh, da parte sua, sostiene che nella terra del profeta Muhammad non possano essere ammessi culti non musulmani. Varie testimonianze attestano però che nel paese vi è un certo numero (sessantamila?) di sauditi convertitisi al cristianesimo; ma è una presenza-ombra, perché quelle persone non possono proclamare la loro nuova fede: essendo considerate “apostate”, rischierebbero moltissimo.
Ben diversa la situazione in Oman. Qui gli autoctoni sono 2,3 milioni di abitanti, formalmente tutti musulmani, e i lavoratori stranieri, uomini e donne, 1,7 milioni. Anche nel sultanato è vietatissimo a un musulmano farsi cristiano; tuttavia, agli stranieri cristiani – beninteso: sempre che non facciano proselitismo – è concessa libertà di culto. Per favorirla, il sultano Sayed Qabus ibn Said ha regalato un’ampia collina, al centro della capitale, Masqat, ove, anche con il contributo dello Stato, tutte le maggiori Chiese cristiane – la cattolica, l’ortodossa, la copta, l’anglicana, una comunità indiana – hanno potuto costruire, l’uno vicino all’altro, il loro tempio. La notte di Pasqua del 2014 settemila cristiani convennero in quella “cittadella cristiana”: ben ricordo l’impressione che fece a me, e al gruppo che era con me, vedere quella folla variopinta, e sentire cantare, in varie lingue, «Cristo è risorto». Purtroppo, però, in ciascuna chiesa ogni Chiesa celebrò per conto suo la risurrezione di Cristo, senza riuscire a farlo con le altre. Là, sotto un cielo blu-cobalto, e con il deserto poco lontano, ci rendemmo conto di una stridente contro-testimonianza cristiana in terra islamica.
L’effetto guerra
Se le presenze “straniere” non fanno realmente crescere, e in modo duraturo, la presenza dei cristiani, a farla diminuire irreparabilmente, negli ultimissimi anni, sono state e sono le guerre in atto e le violenze efferate, in particolare quelle compiute dal cosiddetto “Califfato” legato all’Isis/Daesh nei territori da lui controllati, il Nord della Siria e dell’Iraq: le vittime più numerose sono musulmani sciiti, o sunniti “non allineati”; ma sono state tante, e in percentuale più devastanti rispetto all’esiguo numero delle loro comunità, le vittime cristiane e yazide. Inoltre, la guerra civile in Siria, e i sanguinosi scontri tra sciiti e sunniti in Iraq, direttamente o indirettamente hanno dissolto molte comunità. Quanti hanno salvato la vita, rifugiandosi in alcune poche zone (relativamente) sicure, nella piana di Ninive in Iraq, o trovando scampo in Turchia e in Libano, o anche in Europa occidentale, forse non torneranno più a casa.
Comunità millenarie sono state sfasciate, villaggi cristiani (ma anche yazidi) rasi al suolo, templi antichissimi demoliti. Si calcola che in Iraq fino a quattro-cinque anni fa vi fossero, nell’insieme, 1,6 milioni di cristiani; ora, ne sono rimasti tre o quattrocentomila. E – altro quadro – nei Territori palestinesi, la pur già piccola presenza cristiana si riduce sempre più (si veda a Betlemme!) perché l’irrisolto conflitto israelo-palestinese rende aspra la vita, e difficile trovare lavoro: perciò molte famiglie cristiane palestinesi, se possono, emigrano, cercando fortuna in Qatar, nel Kuwait e in Occidente. Nella Striscia di Gaza vivono 1,7 milioni di palestinesi, massicciamente musulmani sunniti; vi è però anche una piccola comunità cristiana, formata in prevalenza da ortodossi legati al Patriarcato di Gerusalemme. I cattolici sono duecento; ma, mi diceva ancora quattro anni fa il loro parroco, «ogni settimana va via una famiglia, e nessuno la sostituirà».
Anche il Libano, il paese più “cristiano” del Medio Oriente, rischia di essere travolto dalle conseguenza della guerra civile in Siria. Infatti, grande poco più dell’Umbria, e con 4,2 milioni di abitanti, esso si è visto arrivare 1,2 milioni di profughi siriani: un aumento che altera le componenti politico-religiose della sua società, innescando pericolose conseguenze. Il paese – nato nel contesto della seconda guerra mondiale – è infatti retto da un “patto nazionale” che prevede una spartizione del potere su base religiosa: il presidente della repubblica deve essere maronita (cattolici di rito antiocheno), il premier un musulmano sunnita, il presidente del parlamento uno sciita. Ma il mondo politico maronita è diviso, al suo interno, sulla candidatura da proporre, e divisi sono i musulmani. Conseguenza: da trenta mesi la repubblica è senza il suo capo; sono caduti nel vuoto anche gli appelli del patriarca maronita, cardinale Boutros Béchara Rai, a trovare un accordo, prima che il Libano precipiti nel caos.
E in Siria? A Maalula, vicino al confine con il Libano, la gente parlava ancora l’aramaico: ed ascoltare là, in un’antichissima chiesa, ragazzi recitare il Padre nostro nella lingua di Gesù era un’emozione indicibile. Ora la guerra fratricida (ma con mandanti “esterni”) che sta devastando la Siria ha scardinato le comunità cristiane della cittadina, e distrutto molti loro edifici. A Damasco, poi, risiedono il patriarca ortodosso di Antiochia, Johannes X, e il patriarca melkita (greco-cattolico), Gregorios III. Più volte ho visitato le loro residenze che, sembra, stanno ancora in piedi: ma che ne è delle loro comunità sparse in villaggi cancellati dalla guerra?
Il 10 settembre scorso il Segretario di Stato, John Kerry, e il ministro degli esteri russo, Serghei Lavrov, hanno raggiuto un accordo per favorire in Siria una tregua almeno tra le contrapposte parti combattenti legate a Washington o al Cremlino: andata in vigore due giorni dopo, reggerà? Molte sono le speranze, ma tanti anche i dubbi, data l’estrema complessità dei problemi da dipanare, e le divergenti prospettive strategiche di Barack Obama e di Vladimir Putin sul futuro del regime degli Assad.
Il summit di Amman
Il summit cristiano di Amman era ben consapevole di un dato: il giorno che sia debellato l’Isis/Daesh, tacciano le armi e si avvii una risistemazione di Siria ed Iraq (mutatis mutandis, la questione riguarda tutti i paesi mediorientali!), l’avvenire dei cristiani dipenderà, infine, da governi sostanzialmente in mano – Israele a parte – a musulmani. Perciò, nel comunicato finale dei lavori ha affermato: le Chiese e le comunità cristiane del Medio Oriente apprezzano e seguono con ottimismo le iniziative di istituzioni e leader musulmani della regione «che si sono impegnati nel rifiuto dell’estremismo e della violenza, hanno affermato il rispetto della diversità e hanno riconosciuto il ruolo della componente cristiana come fattore originale e fondamentale della civiltà araba e dell’intera regione, invocando che tale fattore sia preservato».
La voce delle Chiese
La sorte tragica dei cristiani in Medio Oriente, e le persecuzioni da essi subite, sono state più volte gridate dalle Chiese al mondo. Si è distinto, nell’alzare vigorosa la voce, il Patriarcato di Mosca; lo ha fatto, in giugno, a Creta, anche il Santo e grande concilio ortodosso. Lo ha fatto più volte la Santa Sede. Benedetto XVI nel 2010 convocò un sinodo dedicato alla Chiesa in Medio Oriente e, nel settembre di due anni dopo, andò a Beirut per firmare, là, l’esortazione apostolica post-sinodale sull’argomento. Da parte sua, papa Francesco nell’ottobre (2-4) del 2014 ha convocato tutti i nunzi apostolici dei paesi mediorientali per riflettere, con i capi della Curia romana responsabili, a vario titolo, di quella regione, su «La situazione dei cristiani in Medio Oriente».
L’esito dell’incontro era così riassunto: «Grave preoccupazione desta l’operato di alcuni gruppi estremisti, in particolare del cosiddetto “Stato islamico”, le cui violenze e abusi non possono lasciare indifferenti. Non si può tacere, né la comunità internazionale può rimanere inerte, di fronte al massacro di persone soltanto a causa della loro appartenenza religiosa ed etnica, di fronte alla decapitazione e crocifissione di essere umani nelle piazze pubbliche, di fronte all’esodo di migliaia di persone, alla distruzione dei luoghi di culto. I partecipanti all’incontro hanno ribadito che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, sempre nel rispetto del diritto internazionale. Tuttavia… il problema va affrontato a partire dalle cause che ne sono all’origine e vengono sfruttate dall’ideologia fondamentalista».
E, sull’esodo forzato dei cristiani: «Non ci si può rassegnare a pensare il Medio Oriente senza i cristiani, che da duemila anni vi confessano il nome di Gesù. Essi vogliono continuare a contribuire al bene della società, inseriti quali cittadini a pieno titolo nella vita sociale, culturale e religiosa delle nazioni a cui appartengono. In esse svolgono un ruolo fondamentale come artefici di pace, di riconciliazione e di sviluppo».
Poi, il 20 dello stesso mese di ottobre, Bergoglio convocava un concistoro ordinario pubblico per approfondire lo stesso tema. Il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, allora, ribadendo le conclusioni del vertice di inizio ottobre, si diceva estremamente preoccupato «per le atrocità inaudite perpetrate da più parti nella regione, ma in particolare dai fondamentalisti del gruppo denominatosi “Stato Islamico”». Come superare questa situazione, e altre ancora? «La pace in Medio Oriente – proseguiva il porporato – va cercata non con scelte unilaterali imposte con la forza, ma tramite il dialogo che porti ad una soluzione “regionale” e comprensiva, la quale non deve trascurare gli interessi di nessuna delle parti. In particolare, è stata rilevata la necessità e l’urgenza di favorire una soluzione politica, giusta e duratura, al conflitto israelo-palestinese come un contributo decisivo per la pace nella Regione e per la stabilizzazione dell’area intera».
Infine, «per quanto riguarda la situazione in generale nei paesi a maggioranza musulmana, c’è un problema di fondo che è il rapporto e il nesso inscindibile tra religione e politica, cioè la mancanza di separazione tra religione e Stato, tra l’ambito religioso e quello civile, legame che rende difficile la vita delle minoranze non musulmane e in particolare quella cristiana. Sarebbe importante perciò contribuire a far maturare l’idea della distinzione tra questi due ambiti nel mondo musulmano».
E torna la domanda: nel prossimo futuro vi sarà una significativa presenza cristiana in Medio Oriente?