Nel romanzo breve La linea d’ombra Joseph Conrad descrive quello stato di crisi che si può attraversare quando si è giovani e si avverte imminente il passaggio che ci porterà a essere, lo si voglia o meno, gli adulti di domani. Quando, in sostanza, abitiamo una pelle che sentiamo nostra ma sentiamo contemporaneamente il prurito provocato dall’intuizione che ci sia altro, oltre quello che ci hanno insegnato ad amare e conoscere.
Per attraversare la linea d’ombra è necessario mettersi in discussione – scrive Conrad –, rivedere quelle pratiche tanto rassicuranti quanto potenzialmente limitanti nelle quali siamo vissuti e cresciuti fino ad adesso.
Lo stesso autore, in un altro romanzo, illustrava anche il possibile esito inverso. Al limite estremo racconta, infatti, le vicende di un vecchio capitano che non vuole rinunciare alla navigazione e che, nel momento in cui dovrebbe farsi ragionevolmente da parte, accetta invece un nuovo incarico. Tutto sembra procedere per il meglio, finché il vecchio protagonista non scopre con orrore che la vista lo sta abbandonando lasciandolo cieco a governare la nave.
Sono queste due immagini che si sono accese immediatamente nella mia mente durante la visione de I nostri e che ci torneranno utili alla fine dell’articolo.
Protagonisti i giovani
I nostri è un docu-film girato dal romano Marco Santarelli, documentarista sociale, e distribuito dall’Istituto Luce.1
Il film ripercorre l’esperienza di otto studenti universitari – sei italiani e di formazione cattolica, due ragazze di origine marocchina e di religione musulmana – alla scoperta delle diverse presenze religiose, etniche e nazionali ospitate dalla città di Bologna. La città accoglie circa 60.000 residenti di nazionalità straniera appartenenti a diverse fedi religiose: cattolici allofoni, cristiani di varie confessioni, musulmani e aderenti a diverse fedi orientali.
Il progetto è nato su iniziativa di alcuni responsabili per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso a Bologna, con il sostegno della CEI, ed è stato coordinato da Fabrizio Mandreoli e di Giulia Cella. Sotto la loro guida il gruppo si è riunito settimanalmente per un anno a partire dal dicembre 2017 nei locali della chiesa universitaria di San Sigismondo, per pianificare un viaggio alla scoperta di esperienze di fede, poco o per nulla conosciute all’interno della stessa città.
Ad ogni comunità visitata, dopo aver osservato le modalità di preghiera partecipando ai riti, sono state poste domande preparate dai ragazzi stessi, attraverso le quali si è cercato di mettere in luce «il nesso tra esperienza credente e identità personale, comunitaria e di popolo».2
Motore del progetto, così come indicato dagli stessi coordinatori, è stata la persuasione che «la disomogeneità socio-culturale nella quale oggi siamo immersi pone alla coscienza di ciascuno problemi inediti che non possono essere liquidati in maniera semplicistica».3
A questo proposito, il coinvolgimento di giovani ricercatori è risultato fondamentale, non perché essi fossero particolarmente competenti in materie teologiche, ma piuttosto per lo sguardo privilegiato che solo una giovane generazione può avere su se stessa e che uno studio teorico per quanto approfondito non può mai afferrare completamente.
Fede e cittadinanza
Oltre al documentario girato da Santarelli il lavoro si è concretizzato anche nella pubblicazione del libro Viaggio intorno al mondo ad opera delle edizioni Zikkaron di Bologna, casa editrice che molto si sta spendendo sulle questioni del dialogo e dell’integrazione. Oltre a riportare l’esperienza di dialogo e di incontro fatta dai ragazzi, il libro si configura come un vero e proprio manuale estremamente ricco, che unisce bene il dato esperienziale a quello strumentale, proponendosi come un testo di riferimento per le questioni trattate.
A differenza del libro, il film ha però il vantaggio di farci percepire immediatamente alcune delle questioni che stanno al centro dell’esperienza. Lo sguardo attento di Santarelli, che unisce perfettamente chiarezza documentativa e sensibilità estetica, ci rende subito protagonisti del complicato ma fruttuoso rapporto tra fede e cittadinanza, spazio pubblico e spazio privato. Partecipando alle liturgie della comunità copta così come di quella ortodossa, cogliamo subito che l’identità religiosa di una persona non può non influire sul suo essere cittadino. Che sia presente o assente, l’esperienza di fede pone sempre la questione su cosa sia veramente fondamentale per la persona.
Dal film risulta chiara la necessità di leggere in modo finalmente maturo la relazione tra il religioso e il politico, perché entrambe le dimensioni aspirano in fondo ad una medesima vocazione, e cioè all’esigenza d’ordine, nella prospettiva della libertà dell’individuo nei suoi rapporti con la comunità.
Un altro aspetto molto importante che la pellicola evidenzia, cogliendo anche le tensioni e i silenzi che si vengono a creare talvolta nei protagonisti, è che il rapporto tra le diverse religioni è un problema non risolvibile e che tuttavia il dialogo può sussistere solo se le fedi permangono nella loro diversità. Il film aiuta a cogliere il lato positivo della questione.
L’insolubilità delle problematicità messe in campo dalle diverse fedi vanno colte come occasioni per intraprendere un reciproco sforzo nel conoscersi e nel conoscere gli altri. La fatica è un dato ineliminabile nelle questioni relative al dialogo. Spesso, infatti, le incomprensioni sono provocate proprio dalla presunta conoscenza che un fedele ha del proprio credo o dall’immagine che in noi è stata veicolata da un certo tipo di tradizione.
La Chiesa ascolti i giovani
Un’ultima considerazione – almeno secondo noi – è l’interesse ecclesiale che deve suscitare questo viaggio intorno al mondo. È infatti auspicabile che l’esperienza di questo gruppo non rimanga un caso isolato ma che possa segnare invece una preziosa esperienza apripista.
D’altra parte la Chiesa (in questo caso la diocesi di Bologna), con l’ausilio della riflessione teologica, non può non sentire come propria la missione che vede nella città il luogo ultimo della pace operata da Dio: la Bibbia inizia con un giardino e finisce con una città. Pur non volendo teorizzare la coincidenza tra città di Dio e città degli uomini – essa è infatti sempre una mescolanza inestricabile di Gerusalemme e Babilonia –, tuttavia questa immagine può essere utile per tracciare una via, forse utopica, verso una città in cui incontro il mio prossimo, invece di nascondermi da lui. La città è lo spazio pubblico in cui noi stiamo con i nostri, che sono propriamente tutti gli altri,4 coloro che, nella loro diversità, mi permettono di abitare, di stare insieme, di avere e prendere forma.
Inoltre, la modalità di lavoro adottata da Mandreoli e Cella mostra come oggi, di fronte ai problemi generati da una società complessa, la Chiesa e la teologia non possano essere sole e autoreferenziali ma si debbano sempre più avvalere di giovani collaboratori esterni che le aiutino a vedere oltre la linea d’ombra, per evitare il rischio di rimanere con troppa saccente sicurezza alla guida della nave e scoprire a un tratto di aver perso la vista.
[1] Santarelli è già noto a Bologna per il film Dustur (2016), girato nel carcere Dozza.
[2] Aa. Vv, Viaggio intorno al mondo. Un’esperienza di ricerca tra fedi, appartenenze e identità in trasformazione, F. Mandreoli, G. Cella (a cura di), Zikkaron, Bologna 2019, 8.
[3] Ivi.
[4] Il titolo del film I nostri è infatti un’espressione usata da una donna della comunità ortodossa russa in riferimento alle famiglie italiane presso le quali prestava servizio.