Padova, novembre 2019-febbraio 2020. Le voci dell’ebraismo, dell’islam, del cristianesimo, dell’induismo e del buddismo hanno dato corpo al dialogo nella 6ª edizione del ciclo di incontri Dove va la morale? mettendo a tema la questione: Vivere assieme nella città plurale. Etiche e religioni, per la convivenza (i file audio, qui).
Ebrei e cristiani uniti nella fedeltà all’identità dell’altro; la carità come segno di alleanza fraterna fra credenti cristiani e musulmani; l’armonia come elemento caratterizzante il mondo orientale induista e buddista; il fondamento sull’umano come cifra universale per l’etica, le religioni, le culture. Sono numerose le sfaccettature del vivere assieme nella città plurale.
Cristiani ed ebrei, riconoscere e rispettare il volto dell’altro
La ricerca de Il volto dell’altro: tra ebraismo e cristianesimo è stata la prima tappa del percorso, avviato con un tuffo nella tradizione talmudica guidati dalle storie raccontate da Miriam Camerini (regista teatrale e studiosa di ebraismo), che si è soffermata sull’“altro per eccellenza”, l’eretico (aher) della tradizione ebraica.
«È l’uomo – ha spiegato – che “strappa i rami”, che rompe con la tradizione e diventa eretico; egli perde addirittura il nome proprio, diventa appunto “l’altro”. Quando però un suo allievo, desideroso di seguirlo nonostante le sue trasgressioni, rischia di violare lo shabbat, l’eretico è fermo nell’evitare che il giovane osservante si perda: in qualche modo si scinde fra la sua scelta eretica e il rispetto dell’altro. Qui sta la capacità di comprendere chi è l’altro e di rispettarlo. Anche l’eretico, insomma, fa i conti con la fedeltà all’identità dell’altro».
«La presenza dell’altro che mi interpella e mi chiama a responsabilità conduce alla fondamentale esperienza etica del “prendersi cura”, come bene esprime la parabola del buon samaritano» ha esordito Simone Morandini (Fondazione Lanza; Istituto studi ecumenici San Bernardino).
Il volto dell’altro, però, non è un solitario, ma richiama un plurale, il volto degli altri, e di conseguenza «la relazionalità come dimensione qualificante del nostro essere umani».
Di fronte ai volti degli altri che si presentano come pluralità religiosa e culturale, nasce poi l’esigenza del riconoscimento e del rispetto dell’alterità: «L’altro va accolto e valorizzato nella sua specificità. Il dialogo interculturale e interreligioso diviene la dimensione essenziale per costruire la vita civile e per crescere insieme nella capacità di convivere e comprendere la verità. Un passaggio ulteriore – ha concluso Morandini – è nel far vivere le pluralità anche nella capacità di collaborare per una corresponsabilità vissuta».
Cristiani e musulmani, fratelli nel segno della carità
Sul dialogo, e sulla possibilità di una rinnovata fratellanza fra cristianesimo e islam, l’imam Yahya Zanolo (Coreis-Comunità religiosa islamica italiana, Vicenza) ha richiamato due documenti che sintetizzano i concetti della dottrina islamica, entrambi prodotti da Coreis: Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, come commento al Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb (febbraio 2019); e Ricchezze e difficoltà del dialogo fra musulmani e cristiani, che fa il punto dopo trent’anni di attività di dialogo interreligioso.
«I livelli di dialogo tra le fedi sono tre: di convenienza, di realtà, di principio – ha spiegato Yahya Zanolo –. Il primo in realtà è un falso dialogo, perché promuove diritti umani a buon mercato. Il secondo è necessario, in quanto porta a un’intesa, a livello istituzionale, sulla base di valori comuni quali la famiglia, la pace, l’economia etica; esso però non si sostituisce alla salvezza dell’anima. Il dialogo di principio è il più elevato, in quanto fa prevalere una tensione spirituale nel riconoscere l’azione della conoscenza che scopre l’unica verità al di là del velo: è un dialogo metafisico-spirituale che richiede lo studio delle teologie e la ricerca di una comune sensibilità spirituale».
Infine, tra i molti spunti forniti dall’imam Zanolo, va sottolineata la dimensione della “carità” come terzo pilastro dell’islam, che equivale – ha spiegato – all’atto di donare una parte dei propri beni, in precisi momenti dell’anno, ai poveri.
In ambito cristiano, don Gianluca Padovan (Istituto superiore di Scienze religiose di Vicenza; Commissione CEI per il dialogo con l’islam) ha richiamato il concetto di fratellanza attorno all’opera della carità: «Cristiani e musulmani – ha affermato – sono fratelli quando assieme si occupano dei bisogni dell’umanità, così come è sottolineato anche nel documento di Abu Dhabi».
Richiamando in particolare la figura di san Francesco d’Assisi e la sua «teologia della fraternità universale fondata sulla contemplazione di Dio come creatore», don Padovan ha affermato l’importanza del dialogo «come parte necessaria dell’identità cattolica», declinato oggi dalla Chiesa come fratellanza secondo tre stili: secondo la stessa fede, secondo la stessa carità e secondo la stessa origine dall’unico creatore.
«Una corretta impostazione teologica della scelta etica della fratellanza universale – ha concluso – permette al cristiano di maturare come cristiano e al musulmano di maturare come musulmano. L’intera famiglia umana beneficia concretamente dell’alleanza fraterna fra i credenti, poiché essa li chiama necessariamente a operare per la carità verso i bisognosi e per la cura ecologica della casa comune».
Induisti e buddisti: per l’armonia, la fraternità e il discernimento etico
Il concetto di armonia è fondamentale nel mondo orientale e ogni cosa ha un respiro spirituale.
Nell’induismo – ha affermato Swamini Hamsanananda Giri (Unione induista italiana; monastero Altare di Savona) – uomo e mondo sono inglobati nell’unica verità, in un rapporto di relazione e armonia, gioia e rispetto fra tutti gli elementi. Di qui la preoccupazione per l’ecologia, con il riconoscimento della responsabilità anche umana nel determinare gli squilibri dell’ambiente e l’identificazione di una causa morale nella genesi delle azioni sbagliate.
«L’origine della corruzione dell’aria e degli altri elementi naturali è l’adharma, il comportamento ingiusto o violazione della legge naturale – ha spiegato citando un testo di medicina tradizionale indiana ayurvedica del III secolo avanti Cristo, estremamente attuale –. La cura per la protezione della vita prevede, tra l’altro, veridicità, compassione per le creature viventi, carità e osservanza del codice di buona condotta».
Principio fondamentale del dharma (il fulcro del pensiero indiano che indica l’unità di tutti gli esseri) è il “non nuocere”: tutto deve sottostare alla non-violenza, al rispetto dell’altro e di ogni parte del cosmo in quanto, proprio per il concetto di unità, riflette il microcosmo che siamo noi stessi. «Se ci riconosciamo nell’altro (ecco un’assonanza con l’amore paolino e il concetto di fratellanza) – ha concluso – non possiamo danneggiarlo, perché danneggeremmo noi stessi».
Nel buddismo – ha spiegato Massimo Raveri (Università di Venezia; Istituto di studi ecumenici San Bernardino) – tutti gli esseri senzienti (uomini e donne, animali, piante) sono accomunati in una realtà ontologica che li imprigiona; materia e coscienza sono un tutt’uno: tutto è infuso di coscienza e portato verso una dimensione spirituale; di qui nasce il rispetto, perché siamo della stessa natura.
«Nel buddismo c’è la consapevolezza che tutto è effimero, che l’esistenza è dolore – ha affermato – e la risposta di salvezza elaborata è diversa da quella delle tradizioni monoteiste. È una risposta soggettiva, è lo svuotamento dell’io, che invece vorrebbe dominare sul mondo e sugli altri. Solo vedendo il male, conoscendo il dolore, entrando nelle zone più aspre e desertiche della mente, si può emergere veramente liberi e dare speranza agli altri, essere fratello degli altri».
La virtù che porta l’uomo alla liberazione ultima è la sapienza, ma non c’è vera sapienza senza karuna, cioè senza la compassione, l’empatia che impone umiltà, disciplina ad ascoltare, a immedesimarsi nell’altro senza dominarlo. Nei confronti del mondo è l’assoluto a essere compassionevole, a cercare tutti gli esseri per salvarli.
«La verità assoluta è “plurima”, si adatta alle menti degli uomini, a seconda delle diverse culture, epoche e linguaggi. L’esperienza spirituale buddista – ha concluso – è un processo, difficile ed esigente, di abbandono e di svuotamento di sé: perdere se stessi è la condizione per vedere/capire finalmente la realtà ultima».
L’etica nella città plurale: sottolineature etiche e teologiche
Lo scenario contrastato della città, paradigma interpretativo della contemporaneità, è segnato da urbanizzazione, globalizzazione, secolarismo, meticciato, indifferentismo… Ciò genera – nella sottolineatura di Pier Davide Guenzi (presidente Atism-Associazione teologica italiana per lo studio della morale) – un impulso a una nuova e creativa dinamica di responsabilizzazione di soggetti differenti. Il punto è «individuare e fare abitare spazi altri e tempi altri»; e, nell’introdurre altre dinamiche e altre logiche per un’etica nella città plurale, le religioni sono in prima fila: ad esempio, nel valorizzare forme di solidarietà e di coesione sociale (bene comune), nell’inventare nuove ritualità a misura d’uomo (spazi pubblici di preghiera), nel sostenere relazioni significative di tipo fraterno (una fraternità “eccedente”).
Anche il bisogno di spiritualità, che si innesta nel vivere, si può orientare in chiave etica se fa perno sull’autenticità, sulla vita che accomuna, sulla resistenza all’egoismo, all’indifferenza, all’ingiustizia e sulla prossimità. «Prendere sul serio le narrazioni emergenti nelle culture urbane e partecipare, come credenti, ai movimenti sociali e cooperativi che sono presenti nella città – ha concluso – comporta definire una riflessione teologica ed etica. Essa non può solo guardare alla città come destinataria di una proposta pre-confezionata. Neppure può muovere dalla città lasciandosi provocare dai suoi ambivalenti vissuti. Ma deve essere un’operazione creativa fatta “con” la città».
La libertà religiosa si fonda sulla dignità della persona e si esercita nella coscienza individuale. È partita da Dignitatis humanae la riflessione di Giulio Osto (docente di teologia fondamentale alla Facoltà teologica del Triveneto) che, attraverso due documenti (La libertà religiosa per il bene di tutti della Commissione teologica internazionale e il Documento sulla fratellanza umana firmato da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb) e due termini (eleutheria e philadelphia), ha messo in luce come la dignità dica l’universalità dell’umano: «L’umano è la cifra universale ed è il linguaggio che Dio ha scelto per essere di tutti: è la grammatica e la sintassi comune». La fratellanza – ha proseguito – «è ciò che consente agli uguali di essere persone diverse».
Un’etica nella città plurale si costruisce allora a partire da ciò che è comune, da quei «punti di universalità» che fanno perno sull’umano, che sono di tutti e per tutti, per la promozione della cultura della tolleranza, per la custodia della famiglia e del senso religioso, del povero e dell’innocente. «Custodire e promuovere la libertà religiosa, seminare fratellanza e riconoscere ciò che ci accomuna – ha concluso – è la via per vivere assieme nella città plurale».