«Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione…».
Questo articolo 10 della Carta europea dei diritti fondamentali mi torna in mente leggendo il punto 6 del Documento dei principi per una vita condivisa, emesso nel 2015 dal Consiglio europeo della fatwa e della ricerca, un’organizzazione islamica privata ma di grande autorevolezza tra i musulmani/e del Vecchio Continente.
Eccone la mia traduzione dall’arabo: «Affermiamo il pluralismo e la libertà di fede e di culto; ciò fa parte del riconoscimento del diritto alla diversità, che consente ai vari soggetti di vivere in pace e sicurezza in quanto da essi gradito riguardo alla loro vita. Dio eccelso ha detto (Cor 256): “Non c’è costrizione nella religione”».
L’affermazione dei sapienti musulmani è bella, ma lascia a mio avviso in sospeso una domanda cruciale: la loro visione della libertà religiosa include la libertà di cambiare religione? E, se per loro è pacifica la libertà di aderire all’islam, si sentono in grado di affermare anche la libertà di lasciare l’islam?
Per toccare con mano quanto il problema sia scottante, si prenda il manuale di religione in uso in Giordania fino al 2016: accanto al riconoscimento dell’assoluta libertà religiosa per i non-musulmani, si metteva in guardia i musulmani «dall’apostatare all’islam dopo avervi aderito, prevedendo in tale evenienza una sanzione punitiva come difesa della sicurezza e della stabilità sociale e tutela del sistema generale» (classe XII, p. 172).
La questione dolorosa del diritto dei musulmani di cambiare, se lo vogliono e come lo vogliono, rimane un argomento eluso, non soltanto nella comunità islamica ma anche nel contesto sociale più ampio.
I musulmani che cambiano devono abituarsi a vivere, tranne casi eccezionali, in una sorta di clandestinità. Persino nei nostri incontri interreligiosi, dove ormai siamo abituati a fare intervenire in modo assolutamente naturale persone convertite all’islam (cosa giustissima), è quasi impossibile presentare un convertito dall’islam, affinché racconti la propria esperienza e le proprie libere scelte. Metterebbe tutti in imbarazzo, a partire dagli organizzatori.
Dunque, l’autorevole Consiglio europeo della fatwa apre una breccia in questa direzione? Ho provato a interrogare uno degli shaykh che hanno contribuito a elaborare il documento, uomo di grande cultura e pietà, oltre che fraterno amico. Mi ha detto con franchezza che quel punto 6 non afferma esplicitamente, riguardo ai musulmani, il “diritto di cambiare” come parte essenziale della loro libertà religiosa, ma neppure lo esclude. Insomma, su un punto così cruciale ci si arresta a “un non detto”.
Ma per una reale integrazione nella realtà europea il dubbio va sciolto, e il non detto va detto. Teniamo bene a mente che la libertà religiosa, nel senso della piena incondizionata libertà di coscienza, è stata storicamente la pietra di fondazione di tutte le nostre successive conquiste di civiltà. Essere europei significa anche questo…
PS: per il testo arabo qui citato cfr. al-Qarārāt wa-l-fatāwā al-sādira ʿan al-Majlis al-urūbbī li-l-iftāʾ wa-l-buhūth, p. 167. Disponibile online.