Gli eventi delle ultime settimane, nella loro tragica evidenza, hanno sollecitato due generi di reazioni: la ricerca, da un lato, delle risposte immediate sulla scia delle emozioni più acute e, dall’altro, l’interrogazione sulle cause, sul come mai certe cose accadano. Il primo è campo dell’esercitazione politica, l’altro è ambito propriamente storico-culturale.
Vi sono però dei momenti in cui sentimento e ragione si congiungono e danno luogo a intuizioni-sintesi altrimenti non immaginabili.
Sono le sorprese della storia o – se si vuole – le invenzioni della Provvidenza. Così la barbara uccisione di padre Hamel, il prete francese sgozzato sull’altare da un fanatico islamico, ha suggerito ai correligionari dell’assassino di infrangere molte barriere e di unirsi al lutto e al compianto dei cristiani; e di farlo precisamente nei luoghi segnati dalla croce, altrimenti considerata simbolo ostile. Una reazione spontanea, immediata ma non improvvida. Che ha dato trasparenza all’affermazione di papa Francesco per cui nessuna religione vuole la guerra.
E come parlare ancora di guerre di religione mentre coloro che, secondo il copione dovrebbero combattersi, si fanno sorprendere a pregare insieme?
Pregare insieme: conversione senza ritorno
Giustamente – lo ha fatto Alberto Melloni – la memoria è andata a circostanze trascorse in cui l’eventualità di un’implorazione interreligiosa, come quella convocata da Giovanni Paolo II ad Assisi, venne circondata da una tale quantità di cautele – fino all’artificio postumo del pregare simultaneamente come surrogato del pregare insieme – che, a malapena, si poté salvare lo spirito di quell’episodio, oltre il ricordo di una memorabile giornata.
Allora si fecero valere i canoni di un antagonismo storico insito in una consuetudine che non accettava, malgrado il Concilio, un rapporto degli uomini con Dio che fosse articolato su vie plurime ma convergenti. E ciò in nome di una supremazia legittimata dal possesso di una “verità” da preservare da ogni contaminazione.
Oggi tutto questo sembra travolto dalla forza degli eventi ed è giusto chiedersi se sarà soltanto un bagliore nella notte oppure un segno profondo nella vita e negli atteggiamenti degli abitanti di questo secolo. E produrrà frutti nella direzione e nella dimensione della pace tra tutti gli appartenenti al genere umano. E lo farà se tutti i protagonisti avranno consapevolezza del fatto che, pregando insieme, ci si converte in una scelta senza ritorno.
Guerre “clericali” e fermento in retrovia
È prevedibile, tuttavia, che una sintesi così appena abbozzata non si affermerà facilmente nei rispettivi campi. Le resistenze sono molte e potenti.
C’è, in primo luogo il costume di contrastare la forza con la forza, indipendentemente dalle circostanze. Per cui si combatte il terrorismo come se fosse una guerra tradizionale e spesso, in tal modo, si ottiene il risultato di renderlo più aggressivo e insidioso. Questa posizione si sente menomata ogni volta che sul terreno compare l’ipotesi di una condotta diversa, si chiami diplomazia o intelligence o dialogo culturale. La motivazione “religiosa” serve a coprire un altro modo di giustificare la guerra, con un approccio “clericale”, anche se retto da motivazioni “laiche”.
Ma c’è anche un altro aspetto del confronto, ed è quello che si combatte nell’area del dominio degli intellettuali, una sorta di retrovia dove tanti cercano munizioni per i combattimenti di prima linea. Qui la stessa possibilità di un cambio di orientamento rispetto al dilemma tra guerra e pace viene contestata in nome del fatto che la civiltà occidentale non ha – non ha più – le risorse necessarie per sostenere la prova. Come per l’impero romano, così per l’Occidente, ad una fase di ascesa sarebbe seguita quella della decadenza e del declino con un esito finale di impotenza.
Il “destino di decadenza”
Bisogna essere grati a Ernesto Galli della Loggia per aver esposto sul Corriere della Sera (25 luglio 2016) l’inventario delle ragioni a sostegno di tale tesi, riassumibile nella constatazione del deperimento dei valori che hanno guidato il lungo periodo di prosperità e di supremazia dell’Occidente.
A dire il vero, non si comprende da quale data si dovrebbe far partire una simile età dell’oro, se dal Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale o dalla caduta del comunismo nel 1989 o addirittura dal… Congresso di Vienna del 1815.
Il senso della diagnosi si rischiara, peraltro, quando si accenna ai fattori per i quali si sarebbe compiuto il “destino di decadenza”. Negli ultimi decenni, infatti, sarebbero stati «messi più o meno del tutto fuori giuoco» entità come «l’impiego della forza, la dimensione dello stato, il Cristianesimo». Di qui la classificazione del periodo considerato come «un’epoca di sconfitte» evidentemente destinata a continuare…
Lo stesso autore deve essersi reso conto della sommarietà dell’analisi proposta scrivendo un altro articolo concentrato, stavolta, su un “che fare?” molto pratico e semplificato nei confronti dei pericoli incombenti.
Ma quelle considerazioni non possono essere ignorate e, anzi, suggeriscono un diverso modo di rappresentare la più recente storia dell’Occidente. Non come scansione fatalistica delle tappe di una inesorabile obsolescenza ma come rassegna di occasioni mancate.
Idee per una diversa narrazione
Si pensi – per fare un esempio – alla presa di coscienza della responsabilità dei popoli nei confronti del “flagello della guerra”, avvenuta dopo la seconda guerra mondiale e sfociata nella costituzione delle Nazioni Unite attorno all’idea di prevenire i conflitti mettendo l’uso della forza sotto controllo internazionale anche con appositi strumenti e procedure.
Quanto, quando e come hanno funzionato le Nazioni Unite rispetto a questo loro fine primario?
Altro esempio: la fine del colonialismo alla metà del secolo scorso. Quale l’atteggiamento verso di esso? Apertura di un vero dialogo con i popoli emancipati anche ai fini di un’integrazione degli statuti della comunità internazionale, alla cui redazione le vecchie colonie non avevano partecipato? Oppure tentativo delle potenze dominanti di mantenere su di esse un qualche controllo?
Ancora: la prima guerra del Golfo (anni 90), avvenuta dopo la fine della guerra fredda, poteva essere condotta direttamente dall’ONU con una propria forza militare. Ma non si volle esplorare a fondo tale percorso.
Perché non chiedersi se buona parte della successiva moltiplicazione delle tragedie non sia riconducibile a tale originaria omissione?
Né fanatismo né fatalismo
Sono solo alcuni interrogativi sui quali sarebbe interessante intrattenersi anche in sede storica (e non solo per certificare la consistenza dei… trucchi con cui a inizio secolo si giunse a giustificare l’intervento occidentale in Iraq), fosse solo per equilibrare il pessimismo radicale delle analisi richiamate con gli esiti di un’onesta ammissione di responsabilità.
Non si tratta – cosa impossibile – di cambiare il passato, ma di considerare quanto, nelle scelte compiute, sia da attribuire al peso delle strutture e quanto alla condotta degli uomini.
Ed è in una visione della pace come dono di Dio affidato alla responsabilità degli uomini che possono congiungersi tutti gli sforzi autentici, sia in campo religioso che in campo politico, per contrastare tanto il fanatismo identitario quanto il fatalismo storicistico. E per dimostrare che nella esperienza dei popoli non c’è nulla di ineluttabile, ma tutto, per diverse vie, può essere ricondotto ad una piena dimensione umana.