Da Rabat, con tre lunghe ore di treno, sono sbarcato finalmente a Fès. Antica capitale, città sacra dell’islam, un milione e mezzo di abitanti, tanto fredda d’inverno quanto bollente d’estate con i suoi abituali 45 gradi.
All’uscita mi imbatto in don Matteo, che mi attendeva da poco. Ha i tratti del famoso sosia della serie TV: biondo, gentile e deciso quanto basta. Senza giri di parole, mi imbarca per un’altra avventura: il quartiere IRAQ.
Il quartiere è povero, popoloso, non però indecoroso, con stabili piuttosto antiquati. È qui che incontro Willy, un intraprendente africano. Ha il compito di preparare una quarantina di colazioni calde, in stile africano, per gli emigranti subsahariani dei dintorni.
Poi ci si porta in un’altra parte del quartiere, dove Daniel e Monique, ormai a fine mattinata, hanno imbastito il pranzo per chi passerà a metà pomeriggio. Sarà una quarantina di pasti caldi take away per migranti, al ritorno dal loro “lavoro”.
Un enorme pentolone annerito, infatti, con pollo, carote e patate, viaggia da tempo a fuoco lento. Per questi subsahariani è una vera provvidenza. Il loro “lavoro”, infatti, consiste nel restare per ore a imbottirsi di freddo ai semafori, attendendo un’eventuale elemosina dalle auto che passano. Un lavoro di resistenza e di pazienza. Non sarà, pertanto, necessario spostarsi alla parrocchia, complicato anche per i controlli di polizia dei sans-papiers.
Daniel mi mostra la lunga lista di coloro di cui ci si prende cura, annotando anche le nazionalità: Guinea, Mali, Liberia… In fondo, eccolo il volto di una Chiesa samaritana e dei suoi attori: sostiene e si prende cura in maniera originale e quotidiana degli ultimi nel loro stesso habitat.
Nella parrocchia di Saint François, dove è parroco don Matteo, incontro Aisha, senegalese, musulmana, studi universitari in diritto. Brillante, comunicativa, dinamica è impegnata anche lei nella realtà migratoria di Fès. Dappertutto dove si trova è incollata al telefono. Accoglie appelli, messaggi, urgenze per coperte, vestiario, cibo, medicinali o eventuali ospedalizzazioni. Inoltre, essere efficaci con una risposta concreta nelle quarantott’ore!«Per me servire chi è nel bisogno è come essere a servizio di Dio» vi dirà apertamente.
Mi porta a fare un marode cioè una visita in vari punti strategici della città, ai semafori: ecco un gruppetto di cinque-sei maliani, poi un’équipe di camerunesi, poi ancora altri sparsi un po’ di qua, un po’ di là… Fanno la guardia ai semafori. Al rosso scattano veloci, passando rapidamente in rassegna tutte le auto, qualche raro finestrino si apre: una speranza. Tremando, esposti per ore a un freddo che non li trova protetti sufficientemente, guadagnano a fine giornata quaranta/cinquanta dirhams (4/5 euro).
Altri, invece, più coraggiosi, i balayeurs, attrezzati di una lunga scopa, passano pulendo i marciapiedi o le entrate di condomini. Da qualche Cafè arriva qualche spicciolo, oppure lo raccolgono con la scopa, gettato dalle finestre. Riconoscenza discreta per la buona volontà dei migranti, in un servizio di utilità pubblica.
Con Aisha e altri volontari come Sheila del Kenia e Charles del Burkina si arriva, poi, nei pressi del Café Nation, soprannominato Café des clochards, luogo di ritrovo di migranti, con due enormi contenitori di pasti. Sono provvidenziali dosi di risotto caldo. Indispensabile qui per i migranti che affronteranno una notte gelida, dormendo su cartoni, sotto un porticato aperto ai quattro venti. Sono “migranti di strada”: senza casa, senza bagagli, hanno solo le gambe per camminare. E sono qui da vari mesi.
Quanti dormono qui? chiedo. «Una quarantina, solo qui» mi risponde qualcuno, con pietà. «Il dolore, come tutte le sensazioni, è una porta per entrare nell’anima». Sì, di questi poveri giovani dalla pelle nera. A loro si danno ogni tanto anche dei ticket da usufruire in un hammam per lavarsi.
Nel pomeriggio, poi, vedi arrivare alla parrocchia, come ogni settimana, un plotone di donne subsahariane e bambini. Saranno distribuiti quasi una cinquantina di kit di igiene, per loro necessari quanto il pane (pannoloni, shampoo…). «Alla fine, mi basta il loro sorriso per sentirmi appagata, più di un grazie!» commenta Aisha.
È domenica. Le porte della chiesa sono spalancate, nonostante il gran freddo di 4 gradi, tanto non esiste riscaldamento. Arrivano a frotte, a decine, giovani subsahariani incappottati.
In poco tempo la chiesa St. François è quasi colma: qualche europeo, circa quattrocento studenti universitari africani, e non sono tutti. Vengono da un altro mondo. Vivono qui per anni, con tutte le fragilità di studenti stranieri cristiani in mezzo a musulmani.
«La scuola è amore per il futuro» afferma don Milani. E loro preparano il futuro delle loro nazioni, diventandone, inchallah, leaders di domani. Ed è ancora un’altra realtà che la parrocchia sostiene, accompagna e fa vivere.
Don Matteo si investe con passione ed essi con l’entusiasmo di giovani ricambiano. Hanno messo su una corale entusiasta e potente, che fa tremare le pareti della chiesa e… il cuore dei fedeli. Hanno, infatti, il gusto naturale del canto e della polifonia. Si spendono in varie iniziative parrocchiali. Ora, è un presepio originale sotto la responsabilità di Arnaud, studente in architettura, o piccole iniziative di solidarietà.
Passano i loro vestiti ai giovani migranti subsahariani, organizzano collette oppure, prossimamente, un incontro per le mamme migranti e i loro bambini, con un regalino per ognuno. Sarà una festa per tutti! «Esperienze gradite rendono piacevole la vita, esperienze dolorose la fanno crescere» scrive De Mello. Essi conoscono entrambe.
A ritmo regolare don Matteo, poi, visita le prigioni locali: una presenza che dà conforto, sana profonde ferite interiori, sostiene solitudini.
Così, rileggendo la solidarietà di varie attività della parrocchia di Fès, sembra di sentire le parole di un altro Matteo: «Ero straniero, ammalato, prigioniero… e mi avete incontrato!». Elhamdullilah! (Lode a Dio !)