Il supremo tribunale amministrativo turco dovrà decidere il 2 luglio se la basilica di Hagia Sophia (Santa Sofia) di Istanbul potrà o meno ridiventare moschea. L’appiglio giuridico è il discusso valore del decreto del 1934 che l’ha trasformata in museo, senza essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. La rivendicazione del nazional-islamismo, dopo molti decenni di proteste, potrebbe realizzarsi. Molti segnali convergono su una decisione di scarso rilievo pratico, ma di altissimo valore simbolico e all’incrocio di molti interessi internazionali.
Il 29 maggio scorso, in occasione del 567° anniversario della conquista ottomana di Costantinopoli (1453) per la prima volta, dopo 87 anni, nella basilica è stata recitata una sura del Corano. Trasmessa dalla TV è stata così commentata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan: «È molto importante celebrare il 567° anniversario… attraverso la preghiera». Nel marzo 2019 aveva detto all’agenzia di Stato: «Hagia Sophia non deve più essere solo un museo. Il suo statuto cambierà. Ridiventerà una moschea». Promessa già fatta nel 2017 e nel 2016. Alle proteste più recenti il ministro della giustizia, Abdulahmit Gül, ha detto il 15 giugno che si tratta di «una questione di sovranità nazionale», approvata dal «senso comune».
Mehmet II e Atatürk
La cattedrale fu costruita fra il 532 e il 537 su ordine dell’imperatore Giustiniano. Per la sua unicità architettonica è considerata una chiesa senza modelli e senza imitazione (cf. SettimanaNews, «Hagia Sophia: non una moschea»). Gli architetti Isidoro di Mileto e Anthemios di Tralles si sono spinti fino ai limiti di possibilità tecniche allora percorribili dando vita al centro religioso maggiore dell’impero e poi del mondo ortodosso. Quando gli ottomani del sultano Mehmet II conquistarono la città nel 1453 il primo gesto del sultano fu quello di pregare nella basilica. Gesto che nella tradizione islamica ha trasformato ipso facto la chiesa cristiana in moschea. E come tale ha continuato a vivere fino al 1934 quando il laico Mustafa Kemal Atatürk la trasformò in museo.
Puntuali e prevedibili le reazioni. Il santo sinodo della Chiesa ortodossa greca ha dichiarato il 12 giugno che la basilica «è un capolavoro del genio architettonico riconosciuto come uno dei monumenti maggiori della civilizzazione cristiana» e ha ammonito che «ogni cambiamento provocherà una viva protesta e frustrazione fra i cristiani del mondo intero, nuocendo alla stessa Turchia». Invita gli amministratori turchi alla «saggezza» e al «rispetto», riconoscendo «lo statuto museale di Hagia Sophia».
L’arcivescovo armeno, Sahak Masalyan, ha suggerito di aprire al culto l’edificio sia ai musulmani sia ai cristiani: «Apparteniamo a religioni diverse, ma serviamo un solo Dio», «Non possiamo permetterci un nuovo scontro fra croce e mezzaluna».
Il metropolita russo Hilarion, responsabile del dipartimento delle relazioni ecclesiastiche internazionali del Patriarcato di Mosca, ha sottolineato: «Ogni tentativo di cambiare lo statuto museale di Hagia Sophia produrrà una modifica e una violazione per i fragili equilibri interconfessionali esistenti». «La chiesa è il simbolo di Bisanzio, il simbolo per la fede di milioni di credenti nel mondo, in particolare per gli ortodossi».
La Conferenza delle Chiese d’Europa (KEK) il 18 giugno ha protestato per la manipolazione politica della lettura coranica trasmessa. I vescovi cattolici più prudentemente hanno auspicato che «Hagia Sophia conservi il suo carattere di museo, ma non è compito nostro intervenire e dare un parere su una decisione che concerne unicamente la Repubblica turca», essendo la Chiesa cattolica locale priva di statuto giuridico e quindi non legittimata «a dare consigli su questioni interne del Paese».
Sul versante politico ha stigmatizzato la volontà dei turchi il vice-ministro degli esteri greco, Miltiadis Varvutsuitus, denunciando una «provocazione anticristiana» e ha sottolineato il crescente isolamento nel Consiglio d’Europa della Turchia. L’Unesco ha chiesto in merito una consultazione internazionale.
Islamismo e minoranze
Secondo un sondaggio di Areda Survey il 73% dei turchi è favorevole alla trasformazione in moschea. I contrari sono il 22,4%, gli incerti 4,3%. Gli esponenti nazional-islamici, in occasione della memoria della conquista ottomana, protestano in centinaia davanti alla cattedrale da metà degli anni ’50. Essi ricordano che il passaggio a moschea è già avvenuto molte volte, come per la chiesa di Akdamar e il monastero di Sümela e che altri monumenti, finora interdetti al culto, sono stati usati per la preghiera degli armeni (Surp Giragos), degli ebrei (sinagoga di Edirne) e dei cristiani (monastero di Aho). Rare, ma presenti, anche le voci che suggeriscono la riconsegna alla Chiesa ortodossa della cattedrale (deputata kemalista armena Selina Őzuzun Doga).
Assai più pericolose le denunce alle minoranze religiose di aver sostenuto il fallito golpe del 2016, affiancando le supposte mire di Fethullah Gülen. Se n’è fatto portavoce il giornale islamista Gerçek Hayat. Il patriarca Bartolomeo, il gran rabbino I. Kahleva, l’ex patriarca armeno S. Kaloustian, assieme a CIA, Nato, Clinton e Giovanni Paolo II (peraltro nel 2016 già morto) avrebbero appoggiato il golpe in funzione anti-Erdogan e anti-islamica. Accuse che nel contesto turco possono diventare assai minacciose. Il patriarca Bartolomeo le ha denunciate come «totalmente false e di parte», «motivo di angoscia per cristiani, ebrei e musulmani e particolarmente gravi e irresponsabili perché attentano all’unità del nostro popolo». Si avverte il pericolo di aggressioni violente come quelle contro la minoranza greca nel 1955.
Politica internazionale
Se la politica interna è tutta favorevole per il cambiamento di statuto della cattedrale, è meno prevedibile il consenso internazionale. Difficilmente potrebbe tacere l’Unione Europea. La Russia, che è stata alleata e competitrice nella guerra siriana e si riconosce il ruolo di difesa delle minoranze cristiane in Medio Oriente, non potrebbe certo condividere la scelta. Gli Stati Uniti, che pure guardano alla Turchia come alleato anticinese in ragione della difesa delle minoranze musulmane uigure, di ceppo turco, e partner tollerato in funzione anti-russa nella Libia, non tradiranno l’alleanza con il Patriarcato ortodosso, pedina importante nel contesto ucraino, e il loro elettorato cristiano. Succede che i simboli religiosi abbiano talora una rilevanza politica imprevista. Erdogan, come ha fatto altre volte, potrebbe ricondurre la sua affermazione a una semplice promessa.