«Non si potrà più discutere su matrimonio e famiglia se non a partire da AL» dice padre Martin Maria Lintner, teologo morale sudtirolese docente allo Studio teologico di Bressanone/Brixen e a Innsbruck in Austria.
– Padre Lintner, da più parti si afferma che l’AL è «un punto di non ritorno» e questo è stato anche il tema di un convegno che si è tenuto in Belgio, presso l’università di Leuven, cui lei è stato relatore: ci potrebbe spiegare in quali termini?
Direi che AL è da considerare “un punto di non ritorno” per tre dimensioni. Da una parte, la Chiesa attraverso questo documento, frutto di un processo sinodale che non ha solo visto riuniti in ben due Sinodi vescovi provenienti da tutte le parti del mondo, ma che ha coinvolto dappertutto anche tantissimi laici attraverso due questionari, ha voluto riaffermare, se non addirittura inaugurare, quello stile che papa Francesco intende applicare alla vita della Chiesa tutta. Si tratta in definitiva di uno stile che corrisponde in pieno all’ecclesiologia del Concilio Vaticano II volto a superare la distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente per cercare “insieme” le soluzioni.
Da questo deriva che non possiamo continuare come se i due Sinodi non ci fossero mai stati. Perché, di fatto, AL è frutto di questo lungo processo di riflessione e discussione.
Inoltre, il documento fa parte della dottrina del magistero ordinario e come tale non può non essere preso in considerazione seriamente. Non si può più discutere riguardo al matrimonio e alla famiglia se non a partire da AL.
Infine, dal punto di vista della teologia morale, si deve riconoscere che il papa ha aperto una strada per i divorziati risposati: non possiamo più affermare che oggi ci sia un’esclusione categorica ad accostarsi ai sacramenti dell’eucaristia e della riconciliazione per quanti, nella nuova unione, non si astengono dai rapporti sessuali. Su questo non c’è alcun dubbio, proprio a partire dal testo stesso dell’AL.
– Potrebbe spiegarci il perché?
Il discorso e l’argomentazione in AL sono molto lineari. Una volta si diceva che il divorziato/risposato è una contraddizione oggettiva perché viene meno la condizione di fedeltà promessa solennemente al momento del matrimonio. Ma non veniva presa in considerazione la situazione del soggetto. È proprio a partire dal Catechismo della Chiesa Cattolica che AL distingue tra la situazione oggettiva, da una parte, e colpevolezza e responsabilità del soggetto, dall’altra: se il soggetto non è in peccato personale, almeno non in peccato personale grave, allora l’esclusione dai sacramenti diventa priva di una base teologica e pastorale. Già papa Giovanni Paolo II al n. 84 della Familiaris consortio diceva con grande chiarezza che si devono distinguere le singole situazioni e AL, in coerenza, afferma che questa distinzione deve essere fatta anche a livello delle conseguenze per i singoli soggetti. Infatti, AL entra nel campo della giustizia nel senso che cerca di rendere giustizia alla situazione personale e, di fatto, richiede di cercare in ogni situazione l’accompagnamento dei singoli.
– Nei mesi scorsi Lei e una sua collega teologa svizzera, Eva-Maria Faber, avevate avanzato la proposta di un cambiamento del CCC proprio per eliminare il rischio di fraintendimenti: avete avuto riscontri di una condivisione dell’idea?
Il problema è che un peccato oggettivo non può mai essere sganciato dalla persona che lo compie. Il peccato è sempre quello di un soggetto che liberamente, volutamente, coscientemente cerca il male ossia omette il bene. AL riconosce che questo non può essere detto di tutti coloro che vivono in situazioni complesse o cosiddette «irregolari». Afferma perfino che alcune persone in queste situazioni non possono agire diversamente proprio per non rendersi colpevoli di peccato: per esempio, non abbandonano il partner perché questo sarebbe un atto di mancanza grave di responsabilità nei suoi confronti, oppure non rinunciano all’intimità sessuale per poter esprimere l’amore e l’affetto che provano l’uno per l’altra e per non mettere in pericolo la loro fedeltà o il bene dei figli. Per questo sarebbe da rivedere la formulazione nel CCC 2384, là dove si afferma che, in qualunque situazione, il divorziato/risposato si colloca in «una condizione di adulterio pubblico e permanente».
Anche nel convegno di Leuven si è avuta un’animata discussione su questo tema, soprattutto anche sul bisogno di una revisione di alcuni paragrafi del diritto canonico. C’è stata ampia condivisione sul fatto che il diritto canonico è “al servizio” della teologia e del magistero, non li precede perché è chiaro che non può precederli.
– Dal momento della pubblicazione di AL, ma anche ben prima, l’accento è stato spostato al capitolo 8. Qualcuno parla di un riduzionismo, lei cosa ne pensa?
Sì, il rischio c’è indubbiamente. Il testo integrale è molto ampio e bello e in più si rivolge proprio a tutti, ai coniugi, a quanti vivono all’interno di una relazione affettiva a qualunque età, dai giovani agli anziani, ai consacrati e ai preti che, pur dall’esterno, condividono gioie e sofferenza dei loro fratelli e sorelle laici. Per questo io veramente vorrei incoraggiare tutti a leggere l’AL, con calma, capitolo per capitolo, a partire proprio da quelle parti che toccano di più anche la propria situazione esistenziale.
Tuttavia ritengo che molte discussioni abbiano finito per gravitare attorno alle questioni del capitolo 8 essenzialmente per due motivi: non dobbiamo dimenticare che nel mondo di oggi sempre più persone vivono in situazioni che vengono ancora chiamate “irregolari”, in modo particolare anche quella dei divorziati/risposati, e poi che le situazioni difficili e complesse rappresentano una specie di “campo di prova” per la dottrina della Chiesa sulla famiglia. Per questo è quanto mai necessario che ci si attivi proprio per ricercare degli sviluppi della dottrina per individuare delle soluzioni. Se si manifestano nuove realtà, nuove sfide e nuove questioni vengono messe sul tappeto, non possiamo ignorarle e continuare come se non ci fossero. Dobbiamo sempre ricordarci della parola di Gesù: «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!»
È fin troppo facile esprimere belle parole sulla ricchezza e la santità del matrimonio – del resto, quando in un rapporto a due tutto va bene, sono le persone stesse a riconoscere la loro felicità, non occorre ricordarglielo – ma è quando si presentano le situazioni complicate che, come Chiesa, dobbiamo esserci e metterci a fianco di coloro che le vivono nella propria carne.
– C’è chi parte dalla dottrina immutabile punto fermo evocando fantasmi di relativismo e AL che chiede di guardare alle singole persone: come si potrà sanare la frattura?
Il passo in avanti, anche dal punto di vista metodologico, è quello di non partire da una dottrina morale per implementarla nella vita concreta, ma di guardare alle singole persone e chiedere come possiamo aiutare loro a riconoscere la propria situazione di fronte a Dio, a ricercare sinceramente la volontà di Dio e giungere ad una risposta più perfetta ad essa. Questo non si può assolutamente definire relativismo. Occorre guardare alla responsabilità personale per andare verso il bene, con gradualità, secondo ciò che è possibile a ciascuno.
Del resto, la Chiesa non può comportarsi diversamente: se vogliamo seguire davvero il Vangelo – e non considerazioni personali – dobbiamo incontrare le persone con lo stesso sguardo e atteggiamento che, secondo le testimonianze evangeliche, furono quelli di Gesù stesso: è la dottrina della misericordia che forse in passato avevamo dimenticato e quasi lasciato in disparte, ma che deve toccarci in ogni momento perché è parte integrante dell’annuncio cristiano. Papa Francesco la chiama il «cuore pulsante del Vangelo», e in questo si trova in perfetta sintonia con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
– Come mai allora ancora molti oppongono resistenze?
Per dirlo con il papa stesso, perché alcuni fanno difficoltà di riconoscere che il vissuto concreto non è solo bianco o solo nero, ma la vita normalmente presenta molte sfumature tra chiaro e scuro. Io penso che il cambiamento di prospettiva, di cui abbiamo parlato prima e che può essere caratterizzato come primato di attenzione nei confronti della singola persona considerando attentamente la singola situazione, come primato di attenzione a ciò che sono i bisogni esistenziali e spirituali di questa persona, e non un primato di dottrina o di norme… bisogna riconoscere che per alcuni questo cambiamento non è facile. Esso richiede davvero la capacità e anche la disponibilità di capire, discernere, provare compassione, empatia, anche lasciarsi coinvolgere emotivamente… proprio come dice la parola misericordia stessa: aprire il proprio cuore all’altro.
Questo può essere molto impegnativo. Tuttavia la volontà del Vangelo è quella di riuscire a includere le persone e Gesù ce ne ha fornito diversi esempi: Zaccheo, l’adultera, il buon ladrone… Lui si è comportato così, senza mai escludere nessuno, inducendo nell’altro un cammino di conversione. Lo sguardo di Gesù è sempre uno sguardo di amore e misericordia, mai di esclusione o condanna.
– Si può affermare che le resistenze alla base siano meno numerose, come se la base dei fedeli avesse compreso meglio?
È vero: le resistenze più forti sembrano proprio manifestarsi in alcuni membri della gerarchia, quella che avrebbe il compito di annunciare il Vangelo e porsi, fedelmente e lealmente, a fianco del Santo Padre… I fedeli, salvo qualche eccezione, sembrano aver compreso il discorso della misericordia e l’Anno giubilare ha aiutato molto in questa direzione. Tra l’altro, papa Francesco non è il primo a parlare di misericordia, pensiamo solo a Giovanni Paolo II. Al giorno d’oggi, forse, si è più disposti a capire: penso a tutti quei gesti compiuti dal papa nei venerdì della misericordia.
– Qual è la paura che indurrebbe le resistenze?
Credo che il timore sia da ascrivere alle numerose differenze delle infinite situazioni cui dobbiamo far fronte e alle quali, occorre riconoscerlo, non siamo (ma non potremmo esserlo a priori, proprio perché nuove) preparati. Così, è vero, fa paura il discernimento, ma ai vescovi viene affidato il compito di formare delle persone, anche laiche, appositamente preparate. E questo è un compito loro affidato, un compito che non possono rifiutare perché fa parte della missione pastorale.
– Ritiene che ci sia speranza che nei prossimi mesi si possa lavorare con maggior serenità?
Sono fiducioso che sempre più persone riusciranno a comprendere prima di tutto che la dottrina di AL corrisponde al Vangelo, che promuove atteggiamenti e azioni che corrispondono ai gesti e alle parole di Gesù. Poi credo che sempre di più sarà evidente che AL non si colloca in nessun modo in contrasto o in tensione con la tradizione, ma che vi entri perfettamente nell’ottica di un quadro largo del necessario sviluppo lungo i secoli sia della dottrina della Chiesa sia della teologia morale.
Intervista a cura di Maria Teresa Pontara Pederiva
In tutto ciò, la grande assente è la Parola. La dimensione in cui si muove il Teologo è puramente – quella sì – legalistica, esaurendosi nella necessità di superare un CCC non conforme agli “atteggiamenti e azioni che corrispondono ai gesti e alle parole di Gesù”. Una versione modernista della legge di Mosè sull’adulterio, anch’essa fondata sulla presa d’atto della imperitura sclerocardia umana e della necessità di conformare la Legge (rectius: legge) agli sclerocardici. Se poi uno legge il Vangelo scopre che Gesù si pone apertamente contro la mentalità di allora, fornendo ai legalisti farisei – difensori della sclerocardia umana – una risposta che va ben oltre la (angusta e pettegola) domanda per abbracciare l’intero patto nuziale. Una risposta cosmica, universale, che stabilisce le nozze come modello teologico e (di riflesso) antropologico di Relazione fondata su ciò che era “In principio”. A me pare che, dopo lo “Spirito del Concilio” per superare le parole del Magistero, si voglia introdurre lo “Spirito di Gesù” (“atteggiamenti e gesti”) per superare la Parola. Ovviamente non si tratta di allontanare i divorziati risposati. Al contrario, il Papa pone un vero problema. Ma solo una malintesa idea di pastorale può finire per trattare al medesimo modo persone che vivono situazioni diverse, che è poi il laicissimo fronte (viene in mente l’art. 3 Cost.) su cui si muoveva FC. Papa Francesco fonda una pastorale sulla famiglia a partire da evidenze sociologiche (in AL 2 esordisce “ricordando” che “il tempo è superiore allo spazio”, che è uno dei “principi” che lui ritiene in EG governerebbero i “processi socio-politici”). Attendo una pastorale sulla famiglia che parta da evidenze teologiche. Fino a ora, più che il pastore di tutte e cento le pecore, sembra il pastore sbadato che per andare a recuperare la centesima provoca la dispersione delle altre 99. Vogliamo dare alla centesima anche questa colpa?