La storia dei rapporti tra Cina e Africa è antica e tortuosa. Tutto cominciò nel XV secolo con i viaggi a occidente del celebre ammiraglio musulmano Zheng He. Egli arrivò sicuramente sulla costa orientale dell’Africa, in quella che oggi sta tra la Tanzania e il Mozambico.
I viaggi però si interruppero pochi decenni prima nella circumnavigazione dell’Africa da parte dei portoghesi alla fine dello stesso secolo. Quindi le grandi spedizioni dei cinesi vennero sostituite dalle piccole missioni commerciali degli occidentali.
L’Africa oltre Mosca
Per secoli i rapporti si interruppero e ripresero, in sostanza, solo con le nuove ambizioni geopolitiche di Mao Zedong. Durante la guerra fredda, dopo il 1960, quando maturò la spaccatura di Pechino con Mosca, Mao cercò di sviluppare rapporti indipendenti con alcuni paesi africani.
In primo luogo, c’era la Tanzania, dopo che il Ghana, guidato da ‘Nkruma, aveva avuto una fiammata di entusiasmo filocinese. Oltre alla Tanzania la Cina cominciò a tessere rapporti con l’Egitto. Poi, dopo il ritiro del Portogallo dalle sue colonie agli inizi degli anni 70, Mosca cominciò a costruire rapporti anche con il Mozambico.
Tali relazioni erano però essenzialmente politiche. La Cina forniva aiuti tecnici a tassi di interesse bassi e certo l’economia cinese non aveva le dimensioni nella forza di impostare un nuovo rapporto strutturalmente diverso con l’Africa.
Il cambio di passo e di qualità del rapporto tra Cina ed Africa cominciò nella seconda metà degli anni ‘90, quando la crescita industriale cinese cominciava ad avere un impatto significativo, con il conseguente aumento del bisogno di materie prime per alimentare l’esplosione della crescita urbanistica nel paese.
Riforma imprenditoriale in Cina
Allo stesso tempo, era iniziata la riforma delle imprese di stato cinesi. Esse erano state trasformate da strumenti per sostanzialmente gestire la pace sociale, cioè procurare posti di lavoro, a strumenti di impresa molto autonomi che funzionavano per creare profitto per sé stesse e per lo stato.
Questi due motori, la ricerca dei profitti delle imprese di stato, i bisogni di materie prime di industrializzazione e urbanizzazione, misero in moto la Cina verso tutto il mondo – e in particolare verso l’Africa, ricca di materie prime necessarie al paese e anche opportunità di crescita per le imprese di stato.
La Cina però non aveva risorse finanziarie in grado di pagare in breve i conti africani. Né essa aveva la forza politica e militare per imporre all’Africa un nuovo periodo coloniale o neocoloniale, come avevano fatto i paesi occidentali fino al giorno prima in quel continente.
Penetrazione cinese nel continente africano
La Cina allora costruì un piano per la penetrazione e la cooperazione con l’Africa basato su tre punti di forza. La prima cosa che fece fu quella di offrire all’Africa la possibilità di costruire ferrovie, una infrastruttura a costi molto competitivi rispetto a quelli richiesti dai paesi occidentali.
Inoltre, a differenza di paesi occidentali, la Cina non insisteva su norme di trasparenza e anticorruzione. Anzi, le aziende cinesi che operavano in Africa si aggiudicavano i contratti di infrastrutture regalando soldi a destra e sinistra a politici corrotti.
Il terzo elemento, che si rafforzò all’inizio del secolo, fu il trasferimento in Africa di vecchi impianti industriali cinesi che erano stati rimpiazzati da nuove strutture di produzione. Ossia, come i paesi occidentali avevano trasferito in Cina negli anni ‘80 e ‘90 impianti di produzione desueti, così i cinesi trasferivano in Africa i loro impianti desueti.
Una relazione di baratto
Mentre però la Cina, grande e comunque forte potere politico, aveva una capacità di contrattazione verso i paesi occidentali, gli stati africani, molto più piccoli e divisi, avevano scarsa capacità di contrattazione con la Cina. La sete di materie prime africane da parte della Cina, in questo senso, creava di fatto una specie di baratto tra Cina e Africa: gli africani davano materie prime, la Cina dava infrastrutture e impianti industriali lubrificati da generose mazzette.
La struttura di scambio era estremamente efficiente e, infatti, ha portato crescite molto importanti in tanti paesi africani negli ultimi vent’anni. I punti di debolezza di questo sistema sono noti: hanno diffuso maggiore corruzione; non hanno portato benefici a tutta la popolazione africana, anche perché spesso i cinesi hanno portato in Africa propri operai, non fidandosi dei lavoratori africani.
Le imprese africane non hanno avuto tutti i vantaggi possibili di una piena cooperazione con i cinesi, però sono rimasti comunque benefici diffusi. Negli ultimi vent’anni è nata una piccola classe media africana.
Ricadute: migrazione e competizione
Il flusso di immigrazione degli ultimi tempi dall’Africa verso l’Europa nasce anche da questo. Spostarsi dal proprio paese attraversare il deserto del Sahara pagare le guide, l’acqua, i trasporti è diventato possibile perché le famiglie si impegnano con dei fondi frutto in generale del miglioramento della vita degli ultimi due decenni.
Un altro effetto importante dell’arrivo della Cina in Africa è stato quello della creazione di una competizione e concorrenza fra vari paesi per l’ingresso nei singoli stati nel continente. Cioè prima dell’arrivo dei cinesi i paesi occidentali si erano divisi il continente in zone di influenza e si erano creati di fatto vedi e propri monopoli. Dove venivano imposti ai locali le condizioni più convenienti secondo Parigi o Londra.
L’arrivo dei cinesi naturalmente ha cambiato l’equazione dei rapporti. I paesi occidentali potevano vedersi rifiutare le loro offerte di cooperazione perché i cinesi offrivano condizioni migliori. Inoltre, nell’ultimo decennio l’arrivo della Cina ha creato una nuova corsa all’Africa.
In maniera e misura diversa, tanti paesi con una presenza prima trascurabile nel continente stanno entrando con più forza. La Russia ha aumentato la sua cooperazione, forte di una rete di trasporti stabiliti durante la guerra fredda.
La stessa cosa ha fatto anche la Turchia, questa volta sfruttando l’eredità della fratellanza musulmana legata ancora ai tempi dell’impero e del califfato. Forte della grande comunità trasferita in Africa ai tempi della colonizzazione del continente, cosa favorita da parte dell’Inghilterra, sta cercando nuove strade di penetrazione.
Anche il Giappone ha moltiplicato gli sforzi per entrare in contatto più stretto con il continente africano. In questa competizione quindi i paesi africani in teoria possono ottenere da ciascun paese condizioni migliori per investimenti e commercio.
All’Africa cosa ne viene?
Naturalmente, la maggiore attenzione verso l’Africa, l’aumento di concorrenza, l’inizio di un vero processo di industrializzazione del continente, non sono la panacea per tutti i mali. Piuttosto possono diventare anche acceleratore delle profonde distorsioni dei vari paesi africani.
Il beneficio di questi nuovi arrivi, di questa nuova attenzione, come verrà distribuito? Sarà concentrato solo ai vertici delle vecchie leadership corrotte nel continente, oppure arriverà a cambiare il tessuto sociale dei vari paesi?
Le risposte a queste domande non possono arrivare dall’esterno. L’imposizione di modelli istituzionali occidentali non risolvono automaticamente i mille problemi di corruzione profonda. Né in passato l’applicazione di sistemi più autoritari, come quelli proposti dalla vecchia Unione Sovietica, hanno sortito esiti migliori.
Il problema della debolezza culturale, sociale, prima ancora che istituzionale, dell’Africa resta il peso più grande. Ma la creazione di questa nuova competizione positiva, e non connotata dalla violenza del passato coloniale, sta aiutando a creare nuovo benessere.