Abbiamo intervistato il prof. Alessandro Ferrari, docente ordinario di diritto all’Università dell’Insubria (Como) ed esperto nel rapporto fra islam e stato. Il volume «La legge che non c’è» (Il Mulino, Bologna 2019), che raccoglie una ventina di contributi e di cui Ferrari è uno dei curatori, riguarda una proposta legislativa sulla libertà religiosa in Italia.
- Prof. Ferrari, per quale ragione in Italia non sono ancora avvenuti gravi attentati legati al fondamentalismo islamico? In particolare, per quale ragione non sono state colpite chiese e personaggi di Chiesa, come invece accaduto in Francia, considerato che da noi il peso e la presenza ecclesiale sono molto maggiori?
Direi, anzitutto, che il contesto italiano è diverso da quello francese. In Italia abbiamo un insediamento musulmano più ridotto numericamente e qualitativamente molto diverso. Sia in termini anagrafici (è più recente), sia in termini demografici interni (è molto più vario), sia come distribuzione sul territorio nazionale. In Italia non abbiamo avuto fenomeni massicci di ricongiungimento familiare nelle periferie delle città, dove erano ammassati operai stranieri, che hanno fatto crescere contesti urbani non previsti. In Francia si sono sviluppate infatti zone periferiche molto popolose e povere che condizionano un giovane che vi cresce dentro, tanto più se il contesto politico all’intorno afferma l’uguaglianza come uno dei valori fondanti.
Noi abbiamo un islam più ridotto numericamente, più giovane e diversamente distribuito. La posizione geografica dell’Italia la rende inoltre un luogo di passaggio, più facilmente concepito come base di partenza per altri progetti, piuttosto che un luogo in cui insediarsi e agire. Poi, l’attività di polizia investigativa da noi è di certo molto efficace, sia per l’allenamento negli anni del terrorismo, sia per la presenza ancora oggi della criminalità organizzata sul territorio. Infine, c’è stata una attività di coordinamento e di dialogo tra comunità musulmane e istituzioni molto efficace e trasparente, con un buon coinvolgimento delle rappresentanze islamiche.
La Chiesa italiana è più riconoscibile
Inoltre, nel panorama italiano, non senza un certo paradosso se si mantiene il confronto con l’esperienza francese, l’attività pubblica della Chiesa, più legittimata e più visibile, ha forse una maggiore capacità di essere distinta e riconosciuta come voce propria e autonoma rispetto allo stato e alle sue istituzioni. Anche l’attività di assistenza verso gli stranieri viene più facilmente percepita come proveniente da una realtà distinta, aperta e accogliente verso la tradizione musulmana.
In Francia la voce pubblica (dello stato) è più forte, tendenzialmente monopolistica con la vocazione a subordinare tutte le altre, compresa quella ecclesiale. Un musulmano in Francia fatica maggiormente a distinguere la Chiesa dalle istituzioni pubbliche. Poi, a livello simbolico, è probabile che la Chiesa (meno visibile di quella italiana) paghi una maggiore identificazione con il colonialismo francese. Storicamente la Francia ha utilizzato due pesi e due misure, ovvero laicità (separazione e pluralismo) in patria e non laicità all’estero, dove il cristianesimo è stato utilizzato come strumento di omologazione e dominazione in Paesi a maggioranza musulmana (un caso per tutti l’Algeria dove la legge di separazione non fu mai effettivamente applicata).
In Italia l’esperienza coloniale non è stata altrettanto forte. Mi pare che, per queste ragioni, la distinzione tra Chiesa e stato sia percepita da un musulmano molto più chiaramente qui da noi. Lo stesso vale per le figure religiose rispetto a un funzionario pubblico. Sarebbe da approfondire certamente ma, in un certo senso si potrebbe dire: i vantaggi della visibilità pubblica, anche istituzionale, della distinzione degli ordini.
Il pio credente nella globalizzazione
- Quale consenso ha il fondamentalismo nelle comunità islamiche italiane?
La mia percezione è che il quadro generale sia cambiato, anche in Francia e anche nei Paesi a maggioranza musulmana. Mi pare che si segnali una più diffusa capacità, anche delle correnti islamiche più radicali, di articolare in forme non violente l’opposizione o l’alterità rispetto ai modelli di vita occidentali. Da un lato, c’è un consenso maggiore verso il rifiuto della reazione violenta. Dall’altro, dopo la sconfitta militare dell’Isis, il fondamentalismo sta proponendo una sfida nuova e diversa che l’esperienza francese ci mostra e che pone interrogativi sul ruolo dello stato: è ancora così importante la centralità delle istituzioni politiche?
Ho l’impressione che il fondamentalismo si stia spostando da una forma che potremmo definire “politica”, volta alla conquista del potere, verso una di tipo “societario”, che propaga ideali di purezza, di vita pia e credente nella società civile, fuori dallo stato, non più necessariamente accompagnata da una finalità di conquista del potere statale. Lo spostamento delle dinamiche fondamentaliste verso la società civile non è una novità assoluta: storicamente questa situazione si può ad esempio collegare alla alternativa tra la conquista dal basso (attraverso la società) o dall’alto (attraverso le istituzioni) della guida della comunità che distingueva due personalità centrali nella vita del Fratelli musulmani, come Hassan al Banna e Sayyd Qutb.
Ma oggi questo “fondamentalismo societario” corre il rischio di creare vite parallele, persone che lavorano otto ore in ufficio o in fabbrica adeguandosi alle richieste del contesto e poi si “trasformano” in pii musulmani nella loro vita privata, secondo forme anche molto aliene rispetto all’ambiente generale circostante. Si rischia, così, di creare delle sacche di un “comunitarismo” da cogliere non tanto nei suoi profili di resistenza all’integrazione in una società plurale ma, direi soprattutto, nella sua indifferenza rispetto ai vincoli di solidarietà con una comunità politica concepita nella sua interezza: quello che in Italia individueremmo come il mandato dell’art. 2 della Costituzione.
In Francia, dove la centralità delle istituzioni statali è forte, la perdita di peso dello stato e l’acquisizione di peso della società civile è senza dubbio sfidante così come l’idea di sacche indifferenti al destino comune e prive di tensione unitaria attraverso i meccanismi e i vincoli politici è drammatica: sarà capace lo stato di articolarsi diversamente e di incoraggiare forme di partecipazione politica diverse della società civile, più rappresentative e plurali? Il rischio è che la risposta francese, in realtà ancora tutta da valutare nel suo dispiegamento effettivo, non colga l’obiettivo più profondo e alimenti piuttosto le ragioni di quanti ritengono impossibile il “vivere insieme”.
L’Italia, ancora non senza un certo paradosso, è forse più attrezzata dalla sua storia a ospitare anche un fondamentalismo di questo genere, perché più abituata della Francia al decentramento, alla sussidiarietà, alla valorizzazione delle rappresentanze sociali e, soprattutto, a non scandalizzarsi delle manifestazioni pubbliche del religioso, che non vengono immediatamente considerate espressioni di un “fondamentalismo radicale”. È bene però evitare di stereotipizzare l’esperienza francese (in cui l’islam gode di un’integrazione per certi versi invidiabile dall’islam italiano) ed essere avvertiti di questo mutamento in atto delle forme del fondamentalismo, anche in ordine a una riflessione più vasta sulla questione della rappresentanza politica.
L’islam italiano: plurale e recente
- Quali sono le conseguenze che si possono immaginare sul piano della rappresentanza politica?
Dovremo considerare che c’è già oggi una parte del mondo islamico che non cerca più la rappresentanza politica, perché non ne ha bisogno. Ha assunto una dimensione più sociale e privata, una concezione della vita islamica più quotidiana, più orientata alla società civile che alle istituzioni. Mentre Olivier Roy afferma che è finito l’islam politico, altri ritengono che sia più corretto dire che è finito quell’islam politico che guardava allo stato e alle sue istituzioni come orizzonte di conquista; ma la politica va ben oltre le istituzioni statali e tocca l’intera società civile.
Questa forma di “comunitarismo” è anzitutto frutto di disillusione verso la politica, anche negli stessi Paesi islamici, dove la gente vede che la politica non riesce a cambiare le cose. Tale disillusione può essere vissuta – soprattutto nelle classi più alte – in maniera un po’ “volontaristica”, cercando forme di interazione accettabili con i costumi della globalizzazione. Nelle classi più povere – come accade,ad esempio,nelle periferie delle grandi città islamiche – vanno invece creandosi spazi privati di esercizio di una vita credente pia, rassicurante, che agisce all’interno della società civile, rimanendo all’ombra delle istituzioni.
Tenendo conto di quanto sia difficile intendersi sulla definizione di fondamentalismo, in Italia abbiamo un islam molto plurale dove è ancora significativo l’intreccio con declinazioni dell’esperienza religiosa più folkloristiche che “fondamentaliste”. Correnti più radicali esistono, ma mi sembra senza il peso e il ruolo che hanno altrove.
I tavoli del dialogo
In questi anni sono stati aperti tanti tavoli con organizzazioni islamiche sul territorio nazionale. Alcuni gruppi sono andati più avanti nel loro riconoscimento pubblico. Altri sono rimasti più indietro. Occorre puntare a una forma di riconoscimento plurale molto più ampia e generalizzata di questo ventaglio di attori coinvolti. Questo premierebbe l’impegno a farsi coinvolgere nei dialoghi istituzionali e potrebbe sbloccare tante piccole situazioni a livello locale dando più dignità, libertà e uguaglianza ai fedeli musulmani. Negli ultimi anni è stato soprattutto il Ministero dell’Interno a farsi carico di questi rapporti. Certamente in ragione di alcune sue proprie e specifiche competenze ma anche colmando, in qualche misura, con una sorta di “dialogo compensativo”, la carenza di sintesi politica che sarebbe dovuta provenire dalla Presidenza del Consiglio e dal Parlamento stesso da cui non sembra provenire una regia chiara su queste tematiche.
In relazione alla Presidenza del Consiglio e al dialogo con l’islam merita di essere segnalata la parentesi di Andrea Riccardi, che mi sembra poco conosciuta. Durante il suo incarico come Ministro per la cooperazione internazionale e l’Integrazione nel governo tecnico di Mario Monti (2011-2013), Riccardi ha tenuto aperto un tavolo comune a tutte le religioni. Nonostante in questo caso mancasse forse un raccordo più strutturato con gli Interni, il Tavolo ha avuto due grandi meriti. Uno di ordine generale: togliere eccezionalità alla questione islamica inserendola in un quadro più ampio di pluralismo religioso; e uno più specifico: recuperare al dialogo istituzionale l’UCOII, rimasta tagliata fuori dopo le vicende un poco convulse della cosiddetta mancata firma della “carta dei valori”. Riccardi è riuscito nell’importante intento di recuperare la Carta dei valori facendola diventare uno strumento consensuale e nei tavoli successivi l’UCOII è sempre stata presente.
- Questi tavoli istituzionali funzionano?
Dipende dal criterio di valutazione. Aiutano senz’altro a una maggiore conoscenza dei singoli interlocutori; aiutano a fare in modo che gli interlocutori capiscano meglio le esigenze e le richieste delle istituzioni pubbliche e viceversa. Il discorso è del tutto aperto, invece, se l’orizzonte che ci poniamo è quello del raggiungimento di una intesa. Potremmo dire che questi tavoli “funzionano” quando arriveremo al riconoscimento di nuovi enti di culto da parte dello stato (dopo il 1974 non è più avvenuto), o ancora alla firma di un’intesa con uno o più di questi enti di culto. Al momento, le Commissioni presso la Presidenza del Consiglio sono in attesa di rinnovo e questo scarica tutto il “peso” sulle spalle del Ministro dell’interno. Il quale, però, anche in ordine ai riconoscimenti degli enti di culto non può fare da solo: alla fine è il Consiglio dei Ministri che deve votarli. Per l’intesa poi, mentre per prassi si è fino ad oggi negoziato solo con enti di culto riconosciuti (e dunque il ruolo del Ministero dell’Interno è centrale), la palla dell’apertura delle trattative con nuovi enti di culto è tutta nel campo della Presidenza.
Una legge sarebbe opportuna
- Veniamo alla questione della legge sulla libertà religiosa in Italia
Si tratta purtroppo di una legge che ancora non c’è. E che se ci fosse sarebbe meglio. Grazie alla Fondazione Astrid un gruppo di lavoro ha lavorato sul tema pubblicando gli esiti di questo percorso in un volume (La legge che non c’è. Proposta di una legge sulla libertà religiosa in Italia, Il Mulino, Bologna 2019), che riporta una bella introduzione di Giuliano Amato e propone un testo di una proposta di legge in materia di libertà religiosa – appunto la legge che non c’è – aperta al dibattito pubblico e all’interesse delle forze politiche e del Parlamento.
Perché sarebbe importante che questa legge ci fosse? Perché è vero che gli articoli della Costituzione sono immediatamente precettivi e dunque che in Italia la libertà religiosa c’è già e che grazie anche ai trattati internazionali di cui l’Italia è parte, essa non ha, in assoluto, bisogno di una legge per essere garantita. Ma molti aspetti particolari e specifici della libertà religiosa hanno bisogno di una regolamentazione più puntuale.
Un esempio molto evidente è quello dell’associazionismo religioso. In Italia, ancora oggi, anche in virtù di una discutibile interpretazione del Consiglio di Stato, un gruppo religioso che non riesca ad ottenere lo status di ente di culto secondo la legislazione sui “culti ammessi” del 1929-1930 non può organizzarsi se non nella forma di associazione “non riconosciuta” risultando ad esso preclusa la via del riconoscimento della personalità giuridica in forma semplificata prevista per le associazioni riconosciute. Ma così il gruppo religioso non potrà, ad esempio, dividere il patrimonio dei soci da quello dell’ente né godere dei trattamenti fiscali più vantaggiosi garantiti agli enti di culto o anche all’associazionismo dedito a finalità diverse da quelle religiose. Che cosa fanno allora i musulmani, dal momento in cui l’ottenimento dello status di ente di culto non è semplice né automatico? Si organizzano nascondendo la finalità religiosa dietro a diverse finalità sociali, organizzandosi in ONLUS, associazioni di promozione sociale, oggi diremmo in Enti del Terzo Settore, per poter fruire di quelle garanzie di cui non potrebbero fruire facilmente se manifestassero la loro natura “religiosa”.
Questa situazione non mi pare molto in linea con l’impianto della laicità costituzionale e, in particolare, con gli articoli 3 e 20, perché il fine di religione e di culto risulta discriminato rispetto ad altre finalità. Inoltre, la legge del 1929, che ricordiamo, resta ancora centrale in materia, ha molti spazi di discrezionalità sebbene il riconoscimento della personalità giuridica di un gruppo religioso non dovrebbe essere reso troppo discrezionale: il poter costituirsi in una identità associativa religiosa organizzata è infatti parte integrante e costitutiva del diritto alla libertà religiosa e non può dipendere da una “concessione amministrativa”. Abbiamo dunque bisogno di una legge generale che realizzi quella “uguale libertà” che dia a tutti condizioni standard di libertà religiosa.
A tutela di tutte le persone
Se raggiungessimo un tale obiettivo si abbasserebbe la carica emotiva simbolica che riveste, per i gruppi religiosi, il dialogo con le istituzioni. Infatti, è vero che i tavoli ministeriali hanno attualmente anche una (importante) funzione compensativa della mancanza di un diritto di base: sedersi al tavolo significa per un gruppo poter affermare la propria esistenza e poter difendere, anche in sede locale, i propri diritti. Ma dei diritti fondamentali si è titolari a prescindere dal fatto di sedere a quei tavoli ai quali, caso mai, si siede con l’intento di sviluppare progetti comuni o nella ricerca di specifiche intese nel caso di bisogni specifici e tipici di ciascuna confessione religiosa.
Di una legge sulla libertà religiosa se ne parla dagli inizi degli anni Novanta. Avrebbe oggi di fatto un buono spirito bipartisan a suo sostegno (ma è di interesse di un numero troppo ridotto di rappresentanti politici). Tra i più sensibili in materia citerei Malan (FI) e Ceccanti (PD). Confrontata alle precedenti proposte di legge sulla libertà religiosa (da ultima quella che vide come relatore Roberto Zaccaria) la Chiesa cattolica ha sempre guardato ad una legge generale con un certo sospetto, come ad una possibile minaccia alla posizione delle religioni pattizie. Ma il Concordato e le intese viaggiano su binari differenti.
Questa legge sarebbe invece una tipica legge ordinaria volta a fornire categorie generali senza nulla togliere alle religioni pattizie. Anzi, aggiungerebbe ad esse qualcosa, perché offrirebbe una riconoscibilità e una legittimazione politica al diritto alla libertà religiosa che in una società secolarizzata non va da sé. Una legge farebbe assumere a tutti l’idea che il diritto alla libertà religiosa è un diritto complesso, articolato, che non tutela solo le Chiese e le istituzioni religiose, ma prima di tutto le persone e le istanze delle coscienze religiosamente motivate, siano esse sviluppate secondo le forme delle cosiddette religioni positive siano esse invece declinate secondo forme di convinzioni atee e/o agnostiche.