Massimo Folador si occupa di formazione e consulenza delle imprese. È autore dei volumi L’organizzazione perfetta (2006) e Verso un’economia integrale (2020), rispettivamente il primo e l’ultimo di una serie dedicata all’eticità dell’impresa. Entrambi i volumi sono editi da Guerini.
- Caro Massimo, vuoi introdurre gli argomenti dei tuoi libri con una breve nota autobiografica?
Volentieri. Ho sempre cercato di vivere la mia vita professionale in maniera intellettualmente onesta. Ho operato per tanti anni nel marketing commerciale, ambito nel quale il risultato economico regnava sovrano secondo i canoni. Trent’anni fa, specie a Milano, fare impresa voleva dire principalmente farla nella maniera che è stata insegnata anche a me, ossia per il massimo profitto.
Col tempo mi sono reso conto, però, che ciò non stava producendo risultati. È sopraggiunto allora, come un dono, il mio incontro col monachesimo benedettino: mi ha dischiuso un mondo che mi ha spinto a ricercare, sia nell’intimo di me stesso, sia professionalmente. Ero probabilmente alla ricerca di chiavi di lettura e di verità.
Ho dunque intrapreso un cammino di fede accanto ai monaci benedettini e, parallelamente, ho iniziato a studiare il loro modello d’impresa, nel suo significato etimologico. Impresa vuol dire infatti realizzare qualcosa di importante con ampi margini di rischio. Ho studiato le abbazie, i monasteri e quindi gli ospedali e le mille cose che i monaci hanno fatto. Ho pensato che i monaci avessero realizzato delle vere e proprie imprese. Ho capito che dentro tale mondo potevo trovare quelle chiavi di lettura che stavo cercando. Queste mi hanno portato a rivedere le mie idee sui modelli economici e a scrivere il mio primo libro, L’organizzazione perfetta.
- Come è possibile accostare i monasteri alle imprese contemporanee?
Può apparire poco appropriato usare il termine impresa applicato alla abbazia. Ma dobbiamo togliere dal termine impresa, appunto, la patina economicista che vi è stata sovrapposta. L’impresa è la volontà di intraprendere, di perseguire e di raggiungere certe positive finalità. Lo stesso termine “profitto” esprime la volontà di “fare qualcosa per”.
I monaci hanno dunque fatto impresa nel senso che hanno saputo generare un bene comune. Il loro obiettivo non era dar luogo semplicemente ad opere e ricchezze, bensì produrre quel bene comune che la Regola di Benedetto ha posto di fatto al centro del vivere: il vero bene è la fraternità, il bene sta in una buona comunità. Per realizzare quel bene san Benedetto, nella Regola, più volte ci fa capire che ci sono tante relazioni umane da curare: quella fondamentale con noi stessi, quella con gli altri e naturalmente con Dio. L’insieme di queste relazioni fornisce il sostrato su cui si costruisce la comunità che produce il bene comune.
Nei monasteri accadeva dunque che il lavoro dei singoli andava a realizzare un bene condiviso tra tutti. Ovviamente ciò non è sempre avvenuto in maniera perfetta neppure nei monasteri. Si tratta pur sempre di una storia umana. Ma l’impresa storica realizzata dai monaci è davvero grandiosa. Nel mentre – negli ultimi due secoli circa –, si è detto e insegnato che l’impresa aveva come unica finalità la massimizzazione del profitto. Di conseguenza, si è inteso che il bene comune coincidesse con il profitto delle stesse imprese e la crescita illimitata del PIL: dentro tutto questo è maturata un’infinità di guasti e di diseguaglianze ora ben chiaramente visibili e non più sostenibili. Da una parte, è stato saccheggiato l’ambiente, dall’altra, è stata rotta la relazione comunitaria.
Nell’ultimo mio libro – Verso un’economia integrale – uso volutamente l’esempio americano, perché l’America rappresenta il modello dell’economia classica. Per modello si intende qualcosa verso cui tendere. Ma, da tempo, non è più certamente quello americano il modello a cui tendere.
Riporto nel libro recenti dati impressionanti, sia di carattere ambientale che sociale: i dati americani descrivono ad esempio aumenti nei tassi di suicidio e di diminuzione della longevità; il 90% degli americani sostiene di essere in una condizione peggiore di 25 anni fa; si registra un incremento deciso delle malattie mentali, dell’obesità, delle malattie cardiovascolari. Con ciò intendo mostrare che un certo modello di impresa che massimizza uno dei valori del suo fare, ossia il profitto, azzera tutti gli altri, spaccando i veri valori dell’economia.
I monaci hanno evitato un tale disastro. C’è un passo della Regola in cui Benedetto mette in guardia dicendo (vado a memoria): «facendo attività economiche, svilupperete del reddito, ma fate attenzione che sia commisurato». Il senso è chiaro: «non tenete la ricchezza per voi, ma distribuitela», come è proprio della buona impresa.
- La figura dell’abate e quella dell’imprenditore sono dunque, secondo te, assimilabili?
Con i miei collaboratori, mi occupo di formazione, il che vuol dire che mi occupo di tutto ciò che sta prima di un’eventuale azione dell’impresa, nel tentativo di dare forma previa all’azione. Ho ben chiaro che il vero cambiamento, il vero miglioramento dell’impresa transita attraverso la quotidianità. Nel formare persone accenno a ciò che serve fare, ma poi il cambiamento avviene (se avviene) nella quotidianità.
Quando accade una trasformazione positiva? Benedetto aveva idee molto chiare in proposito: quando a capo di un monastero – oggi di un’impresa – esistono persone che si pongono al servizio del bene comune. Il cambiamento positivo viene infatti dalla profondità delle persone, da ogni persona e dal loro insieme, quindi dalla comunità che fa l’impresa.
Il tratto saliente dell’abate, così come di chi sta a capo di un’impresa, è dunque la cura della comunità. La figura deve possedere una personalità poliedrica. Deve avere cura di tutte le relazioni: con ogni singola persona e con la comunità nel suo insieme, oltre che con ciò che sta sempre oltre. È un padre dotato di una spiritualità capace di calarsi nella concretezza delle relazioni quotidiane. Ci sono capitoli della Regola che impressionano da questo punto di vista: Benedetto è entrato nel vivo delle relazioni personali, perché questo è proprio del carisma dell’abate e – aggiungo io – del buon imprenditore.
Faccio esempi. Benedetto raccomanda all’abate di essere guida di anime umane prima che di specialisti dei vari saperi e abilità. Di queste anime l’abate deve sentirsi responsabile, perché di questo deve rendere conto alla comunità e a Dio. In un altro passo raccomanda di usare moderazione «perché i monaci forti abbiano di che desiderare e i deboli non si sgomentino» di fronte alla comune impresa. In un altro ancora chiede il rispetto dei processi decisionali: «quando c’è qualcosa di importante da decidere, convoca tutta l’assemblea; parla con accortezza di che cosa si tratta, ascolta tutti e in cuor tuo decidi ciò che è meglio, ma prima di decidere ascolta anche l’ultimo arrivato, il più giovane». Mi sta particolarmente a cuore citare a quest’ultima raccomandazione: «io ti ho dato delle regole, ma ricorda di essere amato più che temuto».
Potrebbe apparire a questo punto che l’approccio di Benedetto sia per persone troppo buone, fuori dal tempo, oggi. Non si tratta affatto di un approccio buonista, al punto tale che, in un passo – ove parla degli scomunicati – dice, più o meno: «se c’è qualcuno che è contrario a ciò che la comunità fa e ai suoi valori, mi raccomando, agisci, adopera azioni dure e prega; se del caso, usa il ferro da taglio perché la pecora infetta non propaghi il morbo a tutto il gregge». Il bene comune presuppone dunque una comunità coesa. L’abate è la persona che deve salvaguardare la bontà della comunità, sino al punto di dover allontanare una persona, ma non certamente per arrecare male a quella persona (che forse può trovare il suo bene altrove, al di fuori del monastero).
- Cosa intendi per sostenibilità dell’impresa?
La sostenibilità è sempre più chiaramente posta in una buona relazione con l’ambiente e con la comunità più ampia, interna ed esterna all’impresa, che è fatta da collaboratori, clienti e fornitori. Ciò che si pensava in un orizzonte strettamente cristiano cattolico, sta diventando oggi un modo indispensabile all’impresa, semplicemente per poter essere.
L’imprenditore del passato, magari a suo modo bravo, ma che non si occupa del benessere dei suoi lavoratori, perché incapace di creare comunità e bene comune, non ha futuro.
La cosa riguarda anche i fornitori e i clienti: il bene comune si ingenera tra l’impresa, i suoi fornitori e i suoi clienti ed è fondato, sempre più, su sentimenti di fiducia e di stima.
Analogo è il rapporto dell’impresa con l’ambiente. Là dove si incrina profondamente il rapporto con l’ambiente circostante, si incrina profondamente il valore stesso dell’impresa: nella collettività non ci sarà più fiducia, non ci sarà più stima. Abbiamo esempi eclatanti in Italia. L’azione lesiva dell’ambiente – ormai è evidente – ritorna sull’impresa con una negatività raddoppiata, triplicata, centuplicata. Le imprese sono costrette a cambiare e io incontro sempre maggiore attenzione per questi aspetti. Nessuna impresa può concepirsi più come un orto concluso in sé stesso, come un tempo.
Ci sono molte realtà italiane che si stanno rapidamente trasformando. E ci sono imprenditori innovativi perché portano istintivamente in sé i valori di comunità e di fraternità tipici della tradizione e della cultura italiana cristiano cattolica che io semplicemente evoco.
- Quel che dici funziona anche nella grande impresa di dimensioni multinazionali?
Sicuramente nelle mie riflessioni è presente il tema delle dimensioni dell’impresa. Penso infatti che il monachesimo italiano abbia conosciuto il suo tipico sviluppo nelle dimensioni minori. Le piccole comunità – guidate da abati all’altezza – sono state in grado di realizzare i valori della Regola più rapidamente di altre. Pure le esperienze dei grandi monasteri tedeschi, svizzeri e francesi, come Cluny, testimoniano la capacità – con una buona organizzazione – di realizzare gli stessi grandi valori. È chiaro che le difficoltà organizzative aumentano con le dimensioni.
Trasponendo il discorso alle imprese, posso dire che in Italia abbiamo una lunga tradizione di matrice familiare, ossia fatta da imprese di piccole dimensioni: secondo me, questa tradizione non è affatto obsoleta. Anche l’America si sta risolvendo a studiare il nostro modello dopo averlo a lungo snobbato. Ci sono ricerche importanti in atto sul sistema dei distretti e delle aziende familiari. Ci si sta finalmente rendendo conto che questo è un sistema che facilita la sostenibilità, perché la conduzione familiare ha in genere maggior cura del proprio patrimonio e del contesto in cui è radicata l’impresa, perché ritiene i collaboratori la risorsa più preziosa, perché tradizionalmente si preoccupa delle famiglie e dei figli dei lavoratori e della loro formazione scolastica, perché si sente parte di una comunità locale più ampia da cui riceve e a cui apporta benefici.
La mia non è ovviamente un’affermazione a priori: ci sono piccole imprese guidate da persone poco capaci, così come ci sono imprese di enormi dimensioni, anche in Italia, guidate da persone capaci e in grado di indicare a tutto il mondo modelli innovativi. Di contro, ci sono aziende multinazionali che, per quanto abbiano al proprio interno manager preparati, non riescono a sviluppare un positivo cambiamento, ad esempio perché le loro proprietà sono impersonali. Sostengo dunque che la struttura italiana dell’impresa tendenzialmente facilita la trasformazione, mentre la struttura delle grandi multinazionali complica enormemente le cose.
Nei miei libri ho scritto di 48 imprese italiane che conosco personalmente per serietà e capacità di innovazione: tra queste solo una è una multinazionale; non ne ho conosciute altre da poter indicare. Ho individuato quella multinazionale e non altre perché a capo c’era una persona di grandissimo valore, diciamo una sorta di abate per i nostri tempi.
- A che punto è dunque la trasformazione delle imprese nel verso della sostenibilità?
Con la Pontificia Università Antoniana Francescana sto conducendo uno studio sulla realtà di Taranto. Ci siamo facilmente accorti che a Taranto è accaduto, non foss’altro per le dimensioni dell’azienda e quindi per le dimensioni dei problemi, ciò che non vorremmo accadesse mai: il criterio della massimizzazione del profitto, protratto per decenni, ha portato a una situazione ambientale tragica che solo la magistratura ha potuto arginare. Ora i profitti sono congelati e la situazione occupazionale e sociale è parimenti drammatica. È un esempio.
Non ci rendiamo ancora ben conto, a mio avviso, di quante imprese stiano continuando a fare quel che è stato fatto a Taranto. Ma questo basta e avanza per dire che l’equilibrio è rotto e così non si può continuare. Papa Francesco sta dando a questo cambiamento una spinta impressionante: la Laudato si’ sta divenendo, dopo 5 anni, il testo di economia più letto al mondo.
Solo ora ci si sta rendendo conto che l’economia – come giustamente dice Francesco – è una casa comune. L’impresa non può essere solo di chi la detiene: l’impresa è della comunità che si colloca in un comune, in una provincia e in un paese intero, nel nostro caso, l’Italia. L’impresa è di una comunità vasta che vive in un ambiente.
La definizione “economia integrale” esprime dunque la necessità urgente delle imprese di migliorare e di sviluppare relazioni corrette con l’ambiente e con la comunità. Secondo me, questa consapevolezza è in crescita, anche se stiamo scontando enormi ritardi. Se i primi segnali di urgenza sono giunti senz’altro dall’ambiente, ora stanno arrivando segnali sempre più allarmanti dal sociale: la riduzione della longevità e la realtà dei giovani che non lavorano e non studiano sono segnali molto preoccupanti. Ci sono tante persone come me che stanno scrivendo, tenendo convegni e incontri ovunque, per dire: «cari amici, non è forse vero che abbiamo preso lucciole per lanterne?». Il tema dei nostri discorsi non può essere più la massimizzazione del profitto che azzera gli altri valori!
- E riguardo ai rapporti umani nell’impresa cosa puoi dire?
Perché la longevità sta diminuendo? Perché peggiora la qualità della vita. Un certo tipo di economia e un certo tipo di lavoro ledono la qualità della vita. In altri paesi questo ormai si nota con evidenza. In Italia ci troviamo in un equilibrio precario. Quando si lede la qualità della vita delle persone, qualcuno comincia a interrogarsi e giustamente a protestare.
Penso ai giovani. Oggi i giovani chiedono – più di noi che abbiamo una certa età – qualità di vita e di lavoro. Se la qualità non viene tenuta in debita considerazione, i giovani sono capaci di lasciare l’impresa sui due piedi, anche perché sanno di poter contare ancora sulle protezioni familiari.
C’è poi il tema del cliente: anche il cliente chiede all’impresa una migliore qualità delle relazioni: sempre più compra solo ciò che ritiene sostenibile rispetto all’ambiente e rispetto alla comunità in cui vive. Le relazioni umane all’interno e all’esterno dell’impresa stanno insieme. Non solo sta aumentando dunque una certa consapevolezza etica, ma sta incrementando la consapevolezza della necessità economica della trasformazione delle imprese. Mi pare che la crisi determinata dal virus stia accelerando i processi, ed è bene che questo avvenga.
Per rispondere infine alla tua domanda considero una ricerca svolta dall’Università Cattolica due o tre anni fa: diceva che attorno al modello valoriale si raggruppa circa il 20% delle imprese italiane di medie dimensioni. Forse è un dato eccessivo rispetto alla realtà, ma è senz’altro rappresentativo di una sensibilità in crescita, posta sul terreno di una cultura valoriale che l’Italia continua a coltivare, nonostante tutto.
- Quali sono i fattori economici che spingono nel verso della trasformazione?
L’impresa ha a disposizione due leve fondamentali: la leva dei ricavi e la leva dei costi. Una relazione migliore con i propri collaboratori, fornitori e clienti incide sulla leva dei ricavi, di cui è componente significativa. Ma certamente il profitto si ottiene anche agendo sulla leva dei costi, comprimendoli. Cito a questo proposito un importante imprenditore, un amico, che mi ha detto: «Massimo, quest’anno ho chiuso con un profitto troppo alto, vuol dire che ho distribuito male il mio valore. Vuol dire che io non ho incentivato quanto potevo i miei collaboratori, non ho lavorato per abbassare il prezzo del prodotto a miei clienti, non ho fatto contratti adeguati ai miei fornitori, cioè ho tenuto troppo per me».
Ecco, questo evidentemente è un ottimo imprenditore, perché non crede alla logica della massimizzazione del profitto, per il bene della sua stessa impresa. Il concetto di sostenibilità si gioca sull’equilibro etico delle due leve.
Un altro aspetto è quello degli investimenti e dei finanziamenti. Ci sono ormai fondi che non finanziano più realtà che producono prodotti ritenuti non etici: Banca Etica, ma non solo.
C’è, inoltre, il discorso sul genere dei prodotti: ogni prodotto è diverso dall’altro per qualità e appunto per genere. Evidentemente produrre armi è ben diverso da produrre alimentari. L’aspetto etico diventa a questo punto ancora più complesso e, per me, interessante. Io senz’altro chiedo agli imprenditori: «Cosa produci? Come lo produci? Se non lo producessi tu, lo produrrebbero altri e come?». Invito a riflettere. Oggi chi produce un certo tipo di prodotto è danneggiato – ad esempio dalle forme di investimento – quando, giustamente, non viene riconosciuta l’eticità e quindi la sostenibilità dell’impresa.
- Imprese private, di terzo settore e imprese pubbliche: quali sono le differenze?
È chiaro che l’impresa pubblica è caratterizzata da dinamiche ulteriori rispetto a quella privata. Io stesso ho fatto parte del consiglio di amministrazione di una realtà pubblica e so cosa vuol dire: la metà del tempo va spesa nella redazione di documenti che hanno a che fare più con la giurisprudenza che col contenuto del lavoro, ma capisco che ciò sia necessario nei confronti dei cittadini e della spesa pubblica.
Detto questo, ci sono imprese pubbliche che sono gioielli, perché dentro ci sono persone che agiscono come se le cose dell’impresa fossero loro. Le persone non sono private o pubbliche: è il loro valore che fa la differenza. La competenza umana e professionale nel pubblico vale persino di più che nell’impresa privata o di terzo settore. Il bene comune è innanzitutto pubblico e poi privato. C’è molto da migliorare, ma io colgo avvisaglie positive anche dall’ambito pubblico.
- Agli imprenditori parli dei benedettini (e del vangelo) apertis verbis?
Il mio discorso formativo inizia necessariamente dal marketing e dall’impresa, non dal vangelo. Ricordo, a questo proposito, un abate che era con me un giorno prima che iniziassi una presentazione e che mi disse: «Massimo, grazie per quello che lei sta facendo. Ho apprezzato molto il suo libro e le cose che lei dice, però lei non cita mai Gesù Cristo… in nessuna pagina». Gli ho risposto: «Padre, lei ha certamente ragione, grazie di avermelo fatto notare: semplicemente non me ne sono reso ben conto». Fatta la presentazione ad un gruppo di imprenditori, al termine, con l’onestà tipica dei monaci, mi ha parlato di nuovo dicendo: «Massimo, comincio a capire perché lei non cita Gesù Cristo: forse, nel breve, è meglio così».
Questo è successo una quindicina di anni fa. Oggi scrivo esplicitamente che l’economia italiana è frutto dei valori cristiani-cattolici e quindi del loro connubio con i valori laici e laico-socialisti. Non ho esitazioni a consigliare agli imprenditori un testo quale la Laudato si’. Mi capita di citare il vangelo, anche in maniera aperta: ovviamente più ad alcuni e meno ad altri. Sono molto rispettoso della libertà di pensiero di tutti. Il mio lavoro sta nel confronto, nella ricerca delle cose buone che ci sono ovunque.
Sono convinto che sotto tanta cenere ci siano braci ardenti. Penso che il vangelo e i valori della tradizione cristiana esistano sotto forma di braci. A volte alcuni laici molto laici ardono più dei cattolici molto cattolici. Confido nel fatto che, se c’è la capacità di togliere la cenere, si scoprono le braci. Mi capita a volte di scoprirle subito. Altre volte ci vuole tanto tempo.
Per il mio lavoro papa Francesco è di esempio: perché nel parlare è capace di passare da momenti di alta teologia a momenti di semplicissima quotidianità. Sa muoversi dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto.
- Anche gli enti ecclesiastici e gli istituti religiosi si possono definire imprese: hanno bisogno di formazione?
Ho lavorato e lavoro anche con realtà ecclesiastiche e affini. Vi sono entrato spesso con la gioia di poter esclamare: «Finalmente sono in un ambiente in cui posso parlare apertamente!». In realtà non ho fatto meno fatica. Ho trovato ambienti e persone ambivalenti: da una parte, persone splendide, cattolici di grandissima profondità a cui avevano insegnato che il denaro è solo merce del diavolo e a cui, perciò, risultava e risulta quasi impossibile parlare di un conto economico; dall’altra parte, ho incontrato persone per cui lavorare in un ente di natura ecclesiale o in una qualsiasi altra impresa era ed è la stessa cosa. Raramente ho trovato coincidenza: due in uno. Anzi, a volte ho trovato uno in due: ossia le stesse persone dissociate in loro stesse nelle due vesti.
Nei miei libri cito i grandi santi sociali ottocenteschi. Prendo don Bosco, ad esempio. Si dice che sia stato un santo imprenditore. Era una persona sicuramente animata da un grande carisma evangelico: sapeva usare il suo carisma e farlo diventare concretezza. Ecco, in figure come quelle si è realizzata la sintesi per cui lavoro. Gli imprenditori, anche nelle realtà ecclesiali, dovrebbero essere dunque dotati di carisma evangelico e nel mentre dovrebbero saper fare i conti nel migliore dei modi.
A differenza di una quindicina di anni fa – quando ancora osservavo una dicotomia netta delle competenze e dei saperi nella Chiesa – mi sembra di notare una maggior capacità di dialogo, una maggior apertura e quindi una maggior capacità di integrazione delle competenze. Come si evince da quel che dico e da quel che scrivo, io sono fiducioso. E se sono arrivato a questo è grazie ad uno spirito che soffia nel verso della novità, col contributo congiunto di economisti, sociologi, tecnici ambientali, filosofi… e teologi: uomini e donne ovviamente! Sono convinto che il futuro debba vedere una profonda integrazione delle competenze e dei saperi, anche nella Chiesa.