Simona Guarini, giovane laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche, con magistrale in Human Rights and Multi-Level Governance, è attualmente nei Corpi Civili di Pace, progetto sperimentale del Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale. Con Caritas Italiana, si trova «lungo le rotte dei migranti», ad Amman, in Giordania. Giordano Cavallari ha raccolto sue risposte alle nostre domande.
- Simona, come è il clima in Giordania dopo il 7 ottobre? Cosa è cambiato?
Essendo arrivata in Giordania il 29 ottobre, non saprei esattamente fare un paragone tra prima e dopo. Ma mi è risultato immediatamente percepibile il clima generale e l’attitudine della popolazione giordana – comprensiva delle tante nazionalità che di fatto la compongono – verso ciò che è successo.
Il sostegno alla causa palestinese – da sempre presente nella società giordana per ovvie ragioni geografiche e demografiche – mi è sembrato essere totale. Tale vicinanza ha assunto, nel corso dei mesi – e assume ancora oggi – diverse forme: Amman è tappezzata di stickers, fogli, graffiti e scritte riportanti frasi e simboli di pieno supporto alla causa palestinese; in quasi ogni negozio, caffè, ristorante o taxi è appesa una keffiyeh, copricapo simbolo della resistenza del popolo palestinese sin dagli anni ’40; le celebrazioni pubbliche – tra cui anche il Natale non festeggiato in segno di lutto – e i concerti sono stati sospesi quale forma di solidarietà con Gaza; le manifestazioni pubbliche e le proteste – che hanno visto e vedono una massiccia e attiva partecipazione – sono a tutt’oggi organizzate ogni venerdì nel centro della città di Amman, ed in svariate aree e città del Paese; una larga e molto partecipata campagna di boicottaggio ha coinvolto prodotti di ogni brand avente relazioni con Israele.
Insomma, diciamo che la popolazione ha fatto ben sentire la propria voce a supporto del popolo palestinese, invocando a più riprese non solo un cessate il fuoco a Gaza, ma anche una netta presa di posizione politica da parte del governo. La posizione della Giordania, cuscinetto tra Israele e il mondo arabo, è una posizione quanto mai complessa e caratterizzata da due necessità: da un lato, di carattere internazionale, quella di mantenere il Paese lontano da un coinvolgimento bellico e in ruolo di mediazione nel complesso dialogo per la pace; d’altro lato, l’estrema necessità, a livello nazionale, di mantenere l’ordine e l’equilibrio. Siamo, quindi, in un clima controverso: abbastanza tranquillo dal punto di vista di un coinvolgimento bellico diretto, ma piuttosto infiammato a livello interno.
- Quanti sono, come vivevano e come vivono i palestinesi in Giordania? Te ne stai occupando nei progetti che segui?
Stando ai dati UNRWA, i Palestinesi ufficialmente registrati come rifugiati in Giordania sono circa 2,3 milioni, nonostante si stimi che il numero effettivo si aggiri intorno ai 3 milioni. Tuttavia, considerando anche tutti i palestinesi che hanno ottenuto la cittadinanza giordana – e dunque non più e solo rifugiati, si stima che circa il 60% della popolazione giordana sia di origine palestinese.
Per rispondere alla domanda circa il modo in cui vivono, a mia volta pongo una domanda: quando parliamo di palestinesi, parliamo dei palestinesi di Gaza o dei palestinesi della Cisgiordania? A chi pensiamo? Questo perché essere palestinesi in Giordania – vivere in un certo modo e godere di certi diritti – dipende, purtroppo, anche da quando si è arrivati in questo Paese e da dove, dal rapporto con un elemento essenziale per la vita: la cittadinanza in Giordania.
Per questioni di carattere politico e geopolitico, ai palestinesi arrivati in Giordania a partire dal 1948 – giunti in Cisgiordania – è stata subito concessa la cittadinanza giordana, col godimento, quindi, degli stessi diritti e con l’accesso ai medesimi servizi, alle medesime condizioni dei cosiddetti “autoctoni”; d’altra parte, invece, i palestinesi arrivati dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 – arrivati prevalentemente da Gaza, oltre che da Cisgiordania – sono considerati praticamente palestinesi apolidi, poiché non è mai stata loro concessa la cittadinanza e, di conseguenza, l’accesso a istruzione, assistenza sanitaria, mercato del lavoro, banalmente il possesso di una casa o di un negozio o l’apertura di un conto corrente bancario, hanno rappresentato e rappresentano ulteriori sfide da affrontare.
In generale, la maggior parte dei palestinesi vive in aree urbane, mentre circa il 18% – stando ai dati UNRWA – vive all’interno dei 10 campi ufficiali per rifugiati palestinesi. Questi campi – Amman New Camp, Baqa’s Camp, Husn Camp, Irbid Camp, Jabal el-Hussein Camp, Jerash Camp, Marka Camp, Souf Camp, Talbieh Camp e Zarqa Camp – sono distribuiti sul territorio giordano e, lontani dall’immaginario comune dei campi profughi fatti di tende e/o containers, sono a tutti gli effetti dei quartieri dentro le città: sorta di meta-città. A questi si aggiungono gli inserimenti informali aggiuntisi nel tempo. Parliamo comunque di moltissimi palestinesi arrivati a partire dalla cosiddetta Nakba del 1948, e dopo il 1967, e, di conseguenza, di intere generazioni di palestinesi nati e cresciuti in Giordania.
Non sono in grado di fornire una panoramica delle condizioni di vita nei campi, non essendoci entrata direttamente. Tuttavia, stante le informazioni reperibili da report ufficiali (e non), si tratta di condizioni di vita piuttosto precarie, considerate le difficoltà di accesso ai servizi di base. UNRWA si occupa, precisamente, di colmare parte dei gaps esistenti, offrendo servizi di istruzione, assistenza sanitaria, shelter, supporto psico-sociale e progetti di microcredito.
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- Mentre i profughi siriani quanti sono, come vivono, cosa pensano? Quali progetti di aiuto per loro?
Faccio ancora riferimento a dati forniti dalle Nazioni Uniti: stando ai dati UNHCR, sarebbero 643.199 i rifugiati siriani ufficialmente registrati in Giordania. A questi, però, si aggiungono quelli non registrati che sarebbero quasi il doppio, per un totale di circa 1.3 milioni: parliamo del secondo Paese al mondo per numero di rifugiati in rapporto alla popolazione locale.
Anche in questo caso, il come vivono si articola su tre livelli: la maggior parte vive in aree urbane, soprattutto nella città e periferia di Amman, quindi fuori dai campi profughi, con tutte le difficoltà di vivere al di fuori dal regime di assistenza garantito all’interno dei campi, ma con maggiore libertà di movimento e più opportunità lavorative; un’altra larga parta vive, invece, all’interno dei campi: la Giordania «ospita» due dei più grandi e densamente popolati campi profughi – Zaatari e Azraq – rispettivamente con 78.000 e 41.000 persone. Vivere dentro ai campi pone, indubbiamente, i rifugiati sotto un regime di assistenza totalizzante più puntuale, ma con grandissimi limiti alle libertà individuali ed ai diritti dell’essere umano in quanto tale.
Il terzo livello è costituito da coloro che vivono negli insediamenti informali, in aree periferiche delle città, isolati dal resto della popolazione, e molto spesso esclusi da qualsivoglia forma di assistenza e cura. Mi capita quasi settimanalmente di visitarne uno in particolare – Abu Ali Camp – che prende il nome da uno dei capifamiglia che regolarmente ci accoglie per il tè e per la definizione degli interventi e le attività di aiuto nella periferia della città di Mafraq, nel nord-ovest del Paese, a circa 40 km dal confine con la Siria.
Nel campo – che è costituito oggigiorno da piccole abitazioni in mattoni che nel corso del tempo hanno sostituito le iniziali tende plastificate – risiedono attualmente 27 famiglie, arrivate tutte dal Ghouta tra il 2013 e il 2015, per un totale di 127 persone, per la maggior parte minori. Il campo si colloca in un’area prevalentemente desertica, circondato da terra arida, isolato rispetto al centro cittadino. L’accesso ai servizi – acqua ed elettricità – è stato garantito, nel corso del tempo, grazie al supporto di associazioni e ONG che hanno reso possibile l’installazione di pannelli fotovoltaici, unica fonte di energia elettrica, e alla definizione di un accordo per il quale, a cadenza mensile, i contenitori di ogni abitazione vengono riforniti di acqua potabile, presumendo, quindi, la totale mancanza d’acqua corrente e riscaldata.
Le abitazioni in mattoni si compongono di una/due stanze, nelle quali vivono, in media, 6 persone. Non tutti i minori frequentano la scuola, vista la distanza dal centro cittadino e l’impossibilità economica di alcune famiglie di pagare taxi che li accompagnino e riportino; l’assistenza sanitaria è loro offerta da un volontario che, una volta al mese, porta un medico di base che accerta le condizioni di salute di tutti. Una condizione, quindi, quanto mai precaria, poiché, fondamentalmente, le famiglie dipendono dall’assistenzialismo puro delle associazioni e delle ONG, il quale, a mio parere, non soddisfa il 100% dei bisogni, neppure quelli primari.
Ciò detto, è bene però sottolineare che in Giordania sono attivi molti progetti a sostegno dei rifugiati siriani, sia a livello governativo che da parte delle organizzazioni non governative nazionali e internazionali presenti e attive sul territorio, come la Caritas. Basti pensare, per esempio, che a partire dal Jordan Compact del 2016 – un pacchetto di misure volte a fronteggiare la crisi siriana in Giordania col sostegno economico della UE – i siriani hanno un accesso agevolato ai permessi di lavoro, il che li rende di fatto gli unici a poter lavorare legalmente nel Paese, visto che il costo proibitivo e/o la mancata concessione esclude in maniera quasi totalizzante altre nazionalità di rifugiati dalla opportunità.
Per quanto riguarda i progetti delle ONG, faccio riferimento, appunto, a quelli implementati da Caritas Jordan. Partendo dal presupposto che CJ serve chiunque, indipendentemente dalla nazionalità, le progettualità attive che coinvolgono anche i siriani si articolano prevalentemente in programmi a tema salute fisica e salute mentale – e dunque d’assistenza medica primaria tramite le cliniche e i centri che Caritas gestisce, con proprio personale, in quasi tutti i governatorati del Paese -, programmi di counseling individuale e di gruppo, di cash assistance (cash for health, cash for education, cash for training) e programmi di sensibilizzazione e partecipazione a workshops tematici, oltre che di supporto psico-sociale in toto.
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- Sussistono scambi tra la Giordania e la Cisgiordania?
Prima del 7 ottobre vi erano normali e quotidiani scambi e passaggi da Giordania a Cisgiordania, attraverso il King Hussein Bridge, il valico sul fiume Giordano che unisce i due territori. Considerando anche che molti palestinesi e giordano-palestinesi che vivono qui hanno parenti rimasti in Cisgiordania, la mobilità era appunto la normalità, ammesso che Israele garantisse i permessi d’ingresso a chi non abbia mantenuto il documento palestinese.
Ad oggi, il valico è chiuso. Non si sono verificati ingressi di palestinesi dalla Cisgiordania; anzi, ricordo che lo scorso novembre la Giordania stessa aveva dichiarato che qualsiasi spinta esercitata da Israele che avesse portato ad un nuovo flusso di palestinesi entro i confini giordani, sarebbe stata interpretata da Amman come una violazione degli accordi di pace del 1994 e, dunque, come una dichiarazione di guerra da parte del governo israeliano.
Tuttavia, in termini di intervento umanitario a sostegno della popolazione gazawi, il valico è aperto per il passaggio di camion che, dalla Giordania, attraverso la Cisgiordania, sono – o sarebbero – diretti a Gaza. Caritas Jordan, per esempio, in collaborazione con la Catholic Relief Services (Caritas USA) e la Jordan Hashemite Charity Organization, è impegnata nell’invio di camion con kit sanitari.
- La Giordania è dunque impegnata a portare aiuti nella Striscia?
Sì, la Giordania è da mesi impegnata a portare aiuti umanitari a Gaza. Parliamo di aiuti in termini di kit sanitari, kit igienici, cibo, coperte, abbigliamento, e molto altro. Diciamo che la rete organizzativa per la raccolta ed il trasporto degli aiuti ha coinvolto sia la sfera governativa che quella non- governativa. Ad esempio, la Jordan Hashemite Charity Organization, in cooperazione con moltissime altre organizzazioni non governative e associazioni, è da mesi molto attiva sul campo. La percezione è che si tenti di far quel che si può via terra e – scontartisi con la resistenza di Israele – si cerchi di passare per le vie aeree.
La scena – contraddittoria – del primo aid air-drop giordano nella Striscia difficilmente verrà dimenticata: da un lato gli aiuti e la speranza della popolazione di poterne avere accesso e, dall’altro, l’immagine di parte degli aiuti stessi caduti in mare, con la gente indotta a tuffarsi e a nuotare per recuperarli.
Ecco, a prescindere dagli incidenti, dalla difficoltà e dagli ostacoli posti da Israele nel far arrivare gli aiuti nella Striscia, c’è una generale partecipazione giordana alla causa umanitaria.
Riprendo un attimo l’esempio di Caritas Jordan, poiché anch’io, nei Corpi Civili di Pace, in quanto volontari al servizio di Caritas Italiana e Caritas Jordan, sono stata impegnata, a dicembre, in una giornata di sistemazione e inscatolamento di kit igienici che sono poi andati distribuiti nella Striscia.
- Cosa è possibile prevedere per il prossimo futuro?
La domanda è difficile. È la domanda che un po’ tutti ci stiamo ponendo in questi mesi. La Giordania è un Paese ricco di umanità, unico e, nel mentre, controverso: di conseguenza è difficile comprenderlo e prevedere quanto possa accadere. Al netto della tensione che si respira a livello internazionale e non solo, mi trovo qui in un momento storico particolare, che mi offre e ci offre migliaia di spunti di riflessione, quotidianamente.
Per quel che ho potuto capire, parlando con la gente e, soprattutto con i ragazzi e gli adulti palestinesi, nessuno qui ha voglia di guerra; la volontà di mantenere la pace, almeno in questo lembo di terra, è estrema, soprattutto perché negli ultimi decenni gli effetti dei conflitti nei Paesi circostanti sono stati percepiti, eccome!
Tuttavia, la vicinanza e la connessione con la causa palestinese sono, appunto, fortissime. Più della metà è palestinese o ha origini palestinesi, e le notizie delle violenze giornaliere in Cisgiordania e dei morti a Gaza non possono diventare un’abitudine o passare in sordina, come può accadere altrove.
Mi sembra molto forte anche la voglia di far sentire la propria voce, affinché il Paese prenda una posizione netta; allo stesso tempo, mi sembra forte l’intenzione della Corona giordana di mantenersi ben lontana da un possibile coinvolgimento nel conflitto.
Non penso, ad oggi, che si possa prevedere un coinvolgimento della Giordania nel conflitto: ciò significherebbe, con elevate probabilità, un’estensione regionale e temporale gravissima. Penso, però, che sinché l’aggressione alla Striscia di Gaza proseguirà, il Paese continuerà ad essere internamente molto teso, terreno di manifestazioni e proteste di strada, campagne di boicottaggio, persone – palestinesi e non – che a gran voce continueranno a chiedere la fine della violenza, della ostilità e dell’occupazione a Gaza e in Cisgiordania.
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- Quali sono i progetti a cui stai partecipando con Caritas Italiana?
Attualmente i principali interventi di Caritas Italiana in Giordania si articolano in tre direzioni: il progetto «Prossimità», volto a rafforzare l’accesso ad opportunità e servizi comunitari per rifugiati e giordani vulnerabili, in termini di accesso a cure mediche, supporto psicologico e psico-sociale nel più ampio raggio, possibilità di ricevere training professionalizzanti volti a generare una forma di micro-reddito, inclusione in sessioni di formazione specifica e tematica volte allo sviluppo, formazione e riduzione delle tensioni sociali tra rifugiati e comunità ospitante; il progetto «Corpi Civili di Pace lungo le rotte dei migranti 2022», per cui noi volontarie siamo qui per un intero anno; e il programma dei «Corridoi Umanitari».
Ciò che faccio qui è dato dalla fusione dei primi due progetti. Grazie alla possibilità offertaci da Caritas Italiana e Caritas Jordan d’inserirci tra le attività del progetto «Prossimità», siamo ora impegnate in un programma di supporto psico-sociale che comporta attività di educazione per bambini e giovani ragazze, distribuzione di aiuti materiali nel campo informale di rifugiati siriani a Mafraq, nel nord del Paese, sessioni di discussione con donne rifugiate, somale, sudanesi e yemenite, sull’aspetto della discriminazione e delle sfide che esse si trovano ad affrontare nella società giordana.
Poi in un progetto di «Photovoice» sul tema della esplorazione della vulnerabilità personale e sociale, che riunisce giovani ragazze giordane e siriane; quindi una serie di workshop sui «diritti umani e la pace» per donne irachene impegnate in attività di cucito; abbiamo sessioni di discussione e di approfondimento con i giovani giordani attivi nelle parrocchie di Salt, Zarqa e Amman sui temi del dialogo per la pace, del dialogo interculturale e interreligioso.