Irlanda del Nord: un vicolo cieco della storia

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Fin da ragazzo mi ha sempre appassionato l’Irlanda. Non sono uno storico e nemmeno un esperto di questioni irlandesi. Mi piace documentarmi. Un recente viaggio in Irlanda del Nord mi ha fatto riflettere su temi che rimandano agli attuali conflitti attuali.

Ho sempre pensato ai famosi Accordi del Venerdì Santo del 1998 come a un punto di arrivo: la riconciliazione dopo trenta anni di conflitto. Invece, parlando con gli abitanti e girando per le strade delle due comunità, «cattolica» e «protestante», mi sono reso conto che l’assenza di violenza non sempre significa la pace.

Le contrapposizioni, i muri, la paura

Attraversare la strada e trovarsi in un mondo completamente diverso: è una sensazione che si prova a West Belfast. Guidati da Jack, un anziano signore già militante della Official IRA, siamo andati alla scoperta di Falls Road.

La strada è piena di bandiere irlandesi, murales, edifici e memoriali che ricordano i caduti repubblicani e le battaglie di tutti i popoli oppressi, dai Curdi al Sud Africa di Mandela. Ad un certo punto Jack si è fermato, sul confine tra la zona cattolica e quella protestante, e ci ha affidati a Mark.

Con la nuova guida abbiamo proseguito su Shankill Road: tutto un altro mondo. La strada era piena di bandiere britanniche. Anche là, come poco prima sull’altro versante, si percepisce che i residenti hanno bisogno di affermare la propria identità. Mark si è fermato sotto ad un muro del quale non scorgevo la fine: era ciò che viene chiamato «Peace Line», la linea della pace, cioè una barriera alta diversi metri che corre per oltre 7 chilometri.

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Ancora oggi, Belfast è dunque una città divisa da un muro, con cancelli sulle strade che si chiudono ogni sera, per riaprirsi il giorno dopo. La nostra guida ci ha posto una domanda: «Gli accordi di pace sono stati firmati nel 1998. Perché nel 2024 questo muro non è ancora stato abbattuto?». Era una domanda retorica. Infatti, pochi istanti dopo, è stato lui stesso a rispondere: «Qui l’87% dei residenti hanno chiesto di conservare il muro perché dicono di avere paura».

La nostra guida si è mostrata molto scettica in merito al processo di pace: «Protestanti e cattolici vivono separati, frequentano scuole diverse, locali diversi, biblioteche diverse… oggi non siamo integrati e non ci può essere nessuna pace senza integrazione», ha concluso Mark.

Le strade cattoliche sono piene di bandiere palestinesi e dipinti che rimandano alla lotta per la libertà della Palestina. Ma questo, in un certo senso, ce l’aspettavamo. Da sempre, infatti, la lotta dei repubblicani è solidale con tutti i popoli che, nel resto del mondo, si battono per la loro emancipazione.

La sensazione veramente strana l’abbiamo provata quando, nelle strade dei protestanti, abbiamo visto comparire i riferimenti ad Israele. Ogni tanto si incontrano bandiere con la stella di David. Alcuni adesivi che mostrano la sagoma dell’Irlanda del Nord recitano «Questa è la nostra Israele! La difenderemo!».

È una cosa che mi ha fatto riflettere. Qui siamo a migliaia di chilometri dal Medio Oriente e non c’è nessun legame con quel conflitto. Questi simboli, svuotati del loro significato originale, hanno l’unico scopo di rafforzare un’identità in contrapposizione con quella del vicino di casa, che non è né ebreo né palestinese.

Tra Londra e la UE

Lasciando Belfast abbiamo percorso la Causeway Coastal Route, con prima tappa il castello di Carrickfergus. Là c’è una panchina con due date separate da un trattino, 1921-2021: sono i cento anni di questa nazione. Stando seduto accanto, mi sono chiesto cosa sia l’Irlanda del Nord. Forse potremmo definirla un vicolo cieco della storia, dal quale, cento anni dopo, sembra impossibile trovare un’uscita.

Su The Irish Times, nei primi giorni del mio viaggio, era comparso un articolo che, già al primo paragrafo, sentenziava: «L’Irlanda del Nord è nella sua fase terminale. Questo posto non ha mai avuto alcun senso etico o economico». Questo pezzo, scritto da Neil Hegarty, mi ha fatto pensare.

Secondo me l’Irlanda del Nord, usando un’immagine allegorica, è come una bellissima donna col cuore spezzato tra due uomini: EIRE e Regno Unito. Questa situazione sarebbe già drammatica, così. Ma l’aspetto che la rende tragica è che nessuno di questi due «uomini» è oggi disposto a sacrificarsi per lei. Cento anni fa potevamo chiamarli «pretendenti» mentre oggi, in realtà, la Repubblica d’Irlanda e il Regno Unito sono molto meno disponibili a fare sacrifici per questo pezzo di Ulster.

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Ad oggi l’Irlanda del Nord pesa sulle casse di Londra per circa 10 miliardi di sterline all’anno. Una somma che, dopo la Brexit, rischia di essere insostenibile. Un’inchiesta della BBC, uscita alcuni mesi fa, stimava che, in caso di unificazione del nord all’EIRE, per Dublino la spesa potrebbe oscillare tra gli 8 e i 20 miliardi di euro l’anno: un costo impossibile da sostenere.

Andando in giro per queste città si vedono spesso cartelli che indicano opere pubbliche realizzate, prima della Brexit, con fondi UE. Forse proprio l’Unione potrebbe avere un ruolo importante per il futuro di questa terra. L’Irlanda del Nord non può stare in piedi sulle sue gambe poiché, come ha scritto Neil Hegarty, non ha mai avuto una autonomia economica. D’altra parte, essa potrebbe essere troppo costosa per i due «spasimanti», EIRE e GB.

Non so quale destino possa avere questa piccola nazione. La cosa certa è che anche in futuro, come già in passato, avranno un ruolo fondamentale gli attori esterni, come l’Unione Europea e gli Stati Uniti. La prima perché non può esistere un confine tra le due Irlande. Gli USA perché, come dimostra la storia, tra Irlanda e Stati Uniti c’è un legame inscindibile, cementato da generazioni di migranti partiti da qui per l’America.

Il sangue e la lotta per i diritti civili

Conoscevo Derry, per i protestanti Londonderry, come la città dell’assedio: i 105 tragici giorni del 1689 nei quali gli abitanti, fedeli a Guglielmo d’Orange, resistettero alle truppe di Giacomo II. Conoscevo il fatto storico ma, ben presto, ho capito qui che l’assedio è piuttosto un atteggiamento mentale.

Glean Doherty, un irlandese che vive qui, mi ha guidato nel quartiere del Bogside raccontandomi il contesto degli anni Sessanta. In quegli anni i cattolici, già maggioranza a Derry, erano emarginati. Non potevano lavorare nell’amministrazione o essere assunti nella polizia. Anche nelle graduatorie per gli alloggi pubblici venivano discriminati.

L’aspetto più sconvolgente è che il voto locale, fino agli anni Sessanta, era legato alla proprietà della casa. «I cattolici, in prevalenza operai, vivevano in famiglie allargate. Potevano essere dieci in un appartamento, di questi solo il proprietario aveva diritto di voto», mi ha spiegato Glean. «La maggior parte delle case e delle aziende erano nelle mani dei protestati e ognuno di essi poteva esprimere un voto per ogni proprietà posseduta».

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In questa situazione, e ispirati dalle lotte per i diritti civili negli USA, diversi nordirlandesi, alla fine degli anni Sessanta, costituirono delle associazioni per i diritti civili. La loro arma era marciare pacificamente sulle note di We Shall Overcome. Le loro richieste: la casa, il lavoro e il principio «una testa un voto».

Le marce per i diritti civili furono osteggiate dagli unionisti e represse dalla polizia fin dal 5 ottobre 1968. L’apice fu il 30 gennaio 1972 quando una marcia pacifica, organizzata contro la legge per l’internamento senza processo, finì in quella che tutti ricordano come la «Bloody Sunday».

Glean, la nostra guida, mi ha raccontato tutto questo camminando tra i murales del Bogside, il quartiere cattolico al centro degli scontri. Io l’ho ascoltato con grande interesse, come si fa con una guida turistica. Ma quando siamo arrivati al memoriale delle vittime ho fatto una scoperta sconvolgente: il primo nome sulla lapide è Patrick J. Doherty (32 anni), il padre di Glean. Gli ho chiesto se, dopo l’omicidio del padre, lui ora odia i lealisti. «Si, forse da giovane, per un breve periodo, li ho odiati» – mi ha risposto Glean in modo sereno – «però oggi non odio nessuno.

La strage non è stata colpa dei protestanti ma dell’esercito e del governo che l’aveva mandato. La questione religiosa tra cattolici e protestanti» – ha aggiunto – «è una grande bugia che il Regno Unito ha raccontato al mondo. Ma in realtà tutto ha avuto inizio da una lotta pacifica per i diritti civili che è stata repressa con la violenza».

La fobia dell’assedio

Rispondendo alle mie domande Glean mi ha poi raccontato che, qui a Derry, è stato raggiunto un buon livello di integrazione tra cattolici e protestanti. Voglio credere alle sue parole. Qualche ora più tardi però, facendo la passeggiata sulle mura della città, ho visto, in un quartiere protestante, un grande cartello che recita così: «Londonderry: i lealisti di West Bank sono ancora sotto assedio. Nessuna resa». Là ho capito meglio: l’assedio non è solo un evento storico di tre secoli fa, ma piuttosto una condizione mentale nella quale, parte della popolazione, vive ancora oggi, a 30 anni dal cessate il fuoco.

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Nelle settimane precedenti il mio viaggio in Irlanda del Nord, come in tutto il Regno Unito, ci sono stati attacchi agli immigrati e ai rifugiati. In alcune strade di Belfast, abitate prevalentemente dagli unionisti, ci sono state vetrine sfondate e lanci di bottiglie incendiarie. La polizia ha risposto coi proiettili di gomma, cosa che non capitava da anni. La violenza nelle strade evoca drammatici ricordi che sembravano essere superati per sempre. Oggi l’odio si manifesta verso un nuovo nemico: l’immigrato.

È una situazione tristemente comune a tutta l’Europa. Eppure, xenofobia e razzismo in Irlanda del Nord ricalcano le vecchie divisioni. Recentemente il Belfast Telegraph ha pubblicato un sondaggio sulla percezione dei migranti. Tra gli elettori dei partiti repubblicani è molto bassa (13%) la percentuale di chi crede che gli immigrati siano troppi. Tra i partiti unionisti, ovvero i «protestanti», questo dato sale all’82%. Per il 57% dei repubblicani il numero di immigrati è adeguato e per il 16% di loro è addirittura troppo basso. Anche in questo caso le percentuali sono completamente rovesciate tra gli unionisti: solo l’1% di loro pensa che gli immigrati siano pochi.

Insieme a questo sondaggio, il Belfast Telegraph ha pubblicato un articolo di Suzanne Breen che, sul tema dell’immigrazione, titolava così: «La mentalità di assedio unionista è sterile e controproducente». Ancora una volta ritorna il tema dell’assedio.

Per la giornalista le pressioni dei flussi migratori ricadono, in modo identico, su tutte le componenti della società nordirlandese. Eppure, a parità di condizioni, la percezione del migrante è profondamente diversa tra cattolici e protestanti. Suzanne Breen conclude che «Una comunità che crede costantemente di essere minacciata e che la sua identità venga erosa sarà meno accogliente di quelle che hanno fiducia in sé stesse».

Due lezioni

Al termine del mio viaggio ho capito due cose. La prima è che per costruire la Pace non basta far tacere le armi. Il Belfast Telegraph, in vista del 30° anniversario del cessate il fuoco dell’IRA (31 agosto 1994), ha riproposto le parole di Jake MacSiacais (direttore del Forbairt Feirste): «In qualunque modo la si guardi, l’assenza di violenza valeva la pena di essere ottenuta, ma non abbiamo ottenuto la pace e non abbiamo ottenuto una società che funzioni correttamente».

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In parole povere, gli Accordi del Venerdì Santo dovevano essere la prima tappa di un cammino che oggi, dopo 26 anni, ha fatto pochi passi avanti.

La seconda cosa che ho capito è che tutti, anche in Italia e non solo in Irlanda, tendiamo ad essere assediati dalle nostre paure. Anche noi vediamo arrivare migranti e, molto spesso, tendiamo a percepirli come un’orda che ci minaccia. In realtà siamo vittime delle nostre paure e delle nostre insicurezze. È su queste che bisogna lavorare, in Irlanda del Nord come in Italia.

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