Da quando, nel 2011, Benedetto XVI ha creato l’Ordinariato personale di Nostra Signora di Walsingham per accogliere gli anglicani che intendevano passare alla Chiesa cattolica, il numero di coloro che hanno compiuto questa scelta è progressivamente aumentato. Nella Pasqua del 2011 furono circa 900, tra cui una sessantina 60 di ecclesiastici. Oggi l’Ordinariato comprende 3.500 membri.
Ma istituzioni simili sono sorte anche negli Stati Uniti, Canada e Australia. Il motivo di queste scelte è dovuto in gran parte all’ordinazione delle donne, introdotta nella Chiesa d’Inghilterra negli anni ’90. Ma un maggiore incremento si ebbe dopo che fu consentito alle donne l’accesso all’episcopato.
Come ha accolto questo fenomeno l’attuale primate anglicano della Chiesa d’Inghilterra, Justin Welby? Cosa pensa dell’attuale situazione della sua Chiesa, dei rapporti con la Chiesa cattolica, con il papa o di altri problemi di attualità?
La serenità della fede
Fraser Nelson, giornalista del quotidiano The Spectator, è andato a intervistarlo. L’ha incontrato – scrive in un servizio del 26 gennaio scorso – nel suo vecchio studio intitolato al grande riformatore Thomas Cranmer, nel Lambeth Palace. È una stanza che sembra non essere cambiata quasi in nulla da quando Cranmer scrisse il libro della Common Prayer, circa cinque secoli fa. Ha tutto l’aspetto di un mini-ritiro monastico: una scrivania, un crocifisso, diverse Bibbie e quasi nient’altro.
È qui dove Welby studia e prega, dove decide come meglio guidare una Chiesa nazionale in cui, stando ai suoi stessi dati, i servizi di culto domenicali sono frequentati a malapena dall’1% della popolazione dell’Inghilterra. Sono tempi nuovi che richiedono nuove strategie. Quando fu intronizzato, sei anni fa, fu scelto proprio perché considerato l’uomo adatto per trovare nuove forme di rinnovamento.
Personalmente, è un uomo ottimista e sereno. Fu ordinato a 30 anni, dopo una carriera come dirigente in una compagnia petrolifera. Rischiò anche letteralmente la vita per la sua Chiesa quando, lavorando in Africa, nel delta del Niger, fu fatto uscire all’aperto dalla milizia locale che l’avrebbe ucciso se non fosse intervenuto in suo favore un anziano del luogo.
«Il declino è in aumento» ha dichiarato, ma se si vuole capire la moderna Chiesa di Inghilterra bisogna guardare alla «comunità dei fedeli» che è molto più ampia: «Le Chiese di tutta l’Inghilterra sono coinvolte in più di 33.000 progetti sociali: banche alimentari, luoghi di riparo per la notte, consulenze sul debito, servizio alle famiglie – e diverse altre cose. Dopo il crash, ha aggiunto, la Chiesa d’Inghilterra ha avviato iniziative di ogni genere a favore delle persone colpite – soprattutto banche alimentari.
Si è sentito quasi offeso, scrive Nelson, quando gli ho chiesto se questa è davvero un’attività religiosa. «Dar da mangiare ai poveri? – ha risposto –, Gesù l’avrebbe ritenuta come tale».
Vocazioni al ministero
Il punto luminoso, a suo parere, è costituito dalle vocazioni che saranno presto a un livello più alto da 40 anni in qua. Ciò è impressionante se si pensa che i numeri riguardanti la Chiesa sono al livello più basso di sempre. Gli domando, come mai? «Lei – ha risposto – mi giudicherà un po’ ingenuo e uno sprovveduto, a questo riguardo, ma penso che ciò probabilmente ha qualcosa a che fare con Dio. Noi abbiamo compiuto un grande sforzo per pregare e incoraggiare le vocazioni e abbiamo costatato un significativo aumento di oltre il 20% rispetto agli ultimi tre anni».
Welby riconosce che, nel loro insieme, i numeri costituiscono una sfida: le vocazioni aumentano, ma sono in declino le liturgie feriali e domenicali e diminuiscono fortemente anche i matrimoni e i battesimi. Forse il dato più sconcertante è che solo il 2% delle persone sotto i 25 anni si considerano anglicani. «Se lei ha superato i 70 anni – ha affermato – ha otto volte di più la probabilità di andare in Chiesa che se ne avesse meno di 30». Io penso che «questa sia un’enorme sfida».
E per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa cattolica? Fino a non molto tempo fa sarebbe stato impensabile che l’arcivescovo di Canterbury citasse nei suoi discorsi delle personalità della Chiesa di Roma. Ma oggi i tempi cambiano. Fin dal 1970 si era avviato un discorso in vista di una possibile riunione. Poi, dopo che la Chiesa d’Inghilterra ha ammesso agli incarichi pastorali le donne, le strade si sono separate. Dieci anni fa, il Vaticano ha facilitato il passaggio dei preti anglicani alla Chiesa cattolica e centinaia di essi scelsero questa strada. Attualmente, secondo le stime, un prete cattolico su dieci era prima parroco nella Chiesa anglicana.
Nelson gli ha chiesto che cosa ne pensa. «Che importa?» ha risposto; «per me non è un problema, soprattutto se delle persone passano alla Chiesa di Roma che è una grande fonte di ispirazione. Ho ricevuto una email da un mio vecchio amico, un prete anglicano, che aveva deciso di passare alla Chiesa di Roma. Gli ho risposto: è meraviglioso! Finché segui la tua vocazione, vuol dire che segui Cristo. È semplicemente meraviglioso. Ciò di cui abbiamo bisogno è che le persone siano discepoli di Gesù Cristo. Per me è lo stesso che si tratti della Chiesa d’Inghilterra o di Roma, degli ortodossi, dei pentecostali, oppure dei luterani o battisti. Sono tutti fedeli discepoli di Cristo».
Siamo tutti discepoli
Se si pensa che è insolito che, a parlare così, sia l’arcivescovo di Canterbury, significa che non si conosce chi è Justin Welby. Egli è un costruttore di ponti, tutto proteso a promuovere una maggiore unità tra i cristiani al punto da costituire nel palazzo di Lambeth un gruppo di giovani cristiani di varie denominazioni, chiamato «Comunità di sant’Anselmo». «Una delle preghiere che noi recitiamo ogni mattina è per l’unità della Chiesa. Questa mi sembra la cosa più importante. Dio ha suscitato la Chiesa. Noi, come creature umane, siamo riusciti a scompigliare tutto e a dividerci».
«Sono cresciuto cattolico – ha proseguito – in una zona della Scozia in un’epoca in cui queste divisioni contavano più del dovuto, in un tempo in cui era impensabile che un arcivescovo di Canterbury definisse “meravigliose” le defezioni verso Roma».
Ma è difficile immaginare una persona di Chiesa meno settaria di Justin Welby. Egli ha come consigliere spirituale un prete cattolico, p. Nicolas Buttet. Uno dei suoi più intimi amici è Vincent Nichols, l’arcivescovo cattolico di Westminster: «Ci vediamo regolarmente, preghiamo insieme, parliamo insieme; 50 anni fa anni fa ciò avrebbe fatto notizia».
Ma Welby ha degli amici cattolici di grado ancora più alto. «Vado a visitare il papa regolarmente: parliamo di cose personali, di cosa significa essere discepolo di Cristo oggi. Gli faccio delle domande ed egli mi aiuta molto».
Si mostra così entusiasta – sottolinea Nelson – che gli ho chiesto se non è mai stato tentato di fare il salto. «Penso – ha risposto ridendo – che ciò potrebbe provocare un po’ di scompiglio; anche oggi».
L’uomo che ho incontrato in privato – conclude Fraser Nelson – è molto diverso dall’arcivescovo Welby descritto di recente dai media. Nei suoi interventi politici è apparso combattivo, perfino provocatorio. Quando si conversa, è pronto ad ammettere che problemi di questo genere raramente sono ben definiti. La maggior parte dei contratti a zero ore, afferma, sono buoni. Si può «discutere sul modo» di ritirare le navi per i rifugiati, se questo fa diminuire il numero dei morti. La sua critica alla riforma del welfare non pregiudica il suo parere sul programma generale. E mentre è contrario alla Brexit, non direbbe mai che Dio sta da una parte oppure o dall’altra.
«Queste – egli dice – non sono questioni che definiscono il cristianesimo: il cristianesimo è definito dalla fede in Gesù Cristo».