«E ovviamente la necessità di avere le armi di cui hanno bisogno». Parole del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, al World Economic Forum di Davos. Il riferimento è alla Turchia, il nuovo ago della bilancia della geopolitica internazionale, con l’anima fra la Istanbul di Atatürk, la Costantinopoli di Bartolomeo e la Sublime Porta di Erdoğan. Intervista a padre Claudio Monge pubblicata sul blog del curatore, www.caffestoria.it, il 26 maggio 2022.
«Le armi vengono dall’estero, ma i morti sono tutti della nostra gente». Una considerazione vera per mons. Rivera Damas, primo successore di Óscar Romero alla guida dell’arcidiocesi di San Salvador negli anni terribili della guerra civile. Una considerazione tristemente di attualità oggi, nella guerra in Ucraina così come dei tanti conflitti «di cui non parliamo, perché sono al di fuori dei nostri “radar”». Sui quali sono invece bene impresse le logiche del potere e del denaro.
A renderlo evidente è anche il caso della Turchia, al centro di una rete di interessi che si spingono ben oltre i confini di Asia Minore e Cappadocia: Libia, Siria e Caucaso, e ora faccia a faccia con Ucraina e Russia, di là dal mare. Da un lato, il ruolo della Turchia di «attore geostrategico e anche culturale essenziale della politica internazionale», alle porte dell’Europa – e dell’UE – legata sia a Mosca che a Kiev e secondo più numeroso esercito della NATO dopo quello degli Stati Uniti. Dall’altro, solidi rapporti economici che «non si limitano all’industria bellica». In mezzo, l’ipocrisia di un Occidente – e in particolare di un’Europa – impegnati a «“fabbricarsi nemici ad hoc” per giustificare la propria poca lungimiranza». Tanto più ottusa quanto più grava sulla sorte di migliaia di rifugiati e rischia di complicare cammini di dialogo tra comunità di fede di per sé già delicati. Mentre in Siria si continua a morire nell’indifferenza del mondo e già si addensano nuove nubi sul popolo curdo per l’annunciata «operazione militare» di Erdoğan nel Nord del Paese.
Ne parlo con padre Claudio Monge, domenicano, da quasi vent’anni in Turchia, professore invitato in Teologia delle religioni all’Università di Friburgo e alla Facoltà Teologica di Bologna. Responsabile del Centro domenicano per il Dialogo interreligioso e culturale, parroco della chiesa dei santi Pietro e Paolo, nel 2014 è stato nominato da papa Francesco consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Suo, fra gli altri, il libro Il martirio dell’ospitalità. La testimonianza di Christian de Chergé e Pierre Claverie (EDB, 2018).
- Padre Monge, quando si parla di Russia, Ucraina e Mar Nero, talvolta si dimentica che le chiavi d’ingresso, per così dire, sono in mano turca. Com’è percepita in Turchia la guerra in Ucraina?
Prima di tutto, al di là di quella che è la percezione dell’opinione pubblica, ci sono degli incontrovertibili dati di fatto: la Turchia, membro della Nato – secondo esercito dell’Alleanza Atlantica come numero di effettivi – condivide un confine marittimo con l’Ucraina e la Russia nel Mar Nero ma, soprattutto, ha ottimi legami economico-politici con entrambi, godendo di un naturale ruolo di mediatore nel conflitto.
Finora ha ospitato colloqui di pace tra ministri degli esteri e negoziatori ucraini e russi e sta lavorando da tempo per organizzare un incontro dei loro presidenti. Negli ultimi giorni Ankara ha alzato la voce opponendosi al processo di integrazione di Svezia e Finlandia nel Patto Atlantico, quando è noto che Ankara, in tempi non sospetti, è sempre stata favorevole ad un allargamento della Nato: problema rilevante, visto che il regolamento prevede un’accettazione all’unanimità di eventuali nuovi aderenti. Il Presidente turco è stato piuttosto laconico sul soggetto, limitandosi a dire, senza ulteriori dettagli, che i Paesi scandinavi accolgono membri di organizzazioni terroristiche (fra le quali il PKK, ndr) – leggi: membri di partiti oppositori al suo potere negli ultimi 15 anni – alcuni dei quali sarebbero persino membri del parlamento in alcuni Paesi.
Al di là di queste dichiarazioni, evidentemente propagandistiche, è comprensibile che la diplomazia turca non voglia tirare troppo la corda con Putin. Come è noto, dalle prime settimane del conflitto russo-ucraino la Turchia aveva deciso di utilizzare i diritti previsti dalla Convenzione di Montreux sul transito attraverso il Bosforo e i Dardanelli, impedendo il passaggio di navi da guerra, destinate a peggiorare l’escalation militare nella regione. Ormai anche i muri conoscono il ruolo svolto dai droni «Bayraktar» TB2 che la Turchia vende a Kiev. Molta meno gente sa che l’accordo tra Ucraina e Turchia non prevedeva l’uso offensivo dei droni – ancora una volta per non indispettire Mosca – ma è venuto meno dato che la Russia è stata fin dall’inizio il Paese invasore. Fin da prima della guerra c’era un accordo per integrare Kiev nella catena produttiva dei TB2, con la fornitura dei motori attraverso un’azienda locale ucraina. Evidentemente, gli ottimi rapporti commerciali tra Ucraina e Turchia non si limitano all’industria bellica, in riferimento alla quale, per altro, c’è da dire anche che la Turchia negli ultimi anni ha comprato armi dalla Russia. Business must go on!
Queste sono alcune considerazioni ad un macro-livello. Dall’inizio della guerra in Turchia sono stati accolti non meno di 60 mila rifugiati ucraini, che si aggiungono agli oltre 4 milioni e mezzo di rifugiati da ogni dove, tre quarti dei quali dalla Siria, e parecchie migliaia di rifugiati russi, in genere oppositori del regime putiniano o semplicemente oppositori della guerra e indisponibili al reclutamento per essa, in un quadro economico generale estremamente complicato. Difficile che l’opinione pubblica turca possa entusiasmarsi per questa ulteriore crisi internazionale con riflessi diretti sul Paese.
- Siamo franchi: quello di Erdoğan non è il primo nome che viene in mente pensando al dialogo. Come la fa sentire pensare al «nemico» di ieri dell’Europa – Erdoğan – come ad un uomo della pace? Ritiene credibile la Turchia in un ruolo di mediazione, oggi?
Siamo franchi: perché lei ritiene credibili la maggior parte degli attori, in seno all’UE, che si stanno illustrando in questi mesi di «negoziazioni blande» sul fronte russo-ucraino? Quello che lei chiama «nemico di ieri» è stato delegato proprio dall’Europa nel 2016 – non un anno a caso, ma quello del nefasto tentativo di colpo di Stato ai danni della leadership turca, che ha dato il via a una repressione senza precedenti – a gestire la crisi migratoria determinatasi con il decennale conflitto siriano.
L’UE allora decise di affidare a un Paese – al quale aveva promesso di prendere sul serio le riforme intraprese sulla via di una possibile integrazione nell’Unione, salvo poi sbattergli la porta in faccia per problemi di diritti umani e libertà fondamentali – la gestione pressoché totale del «dossier umanitario» dei rifugiati. Circa 6 miliardi di euro dati ad Erdoğan chiedendogli di arginare l’esodo clandestino, più di 3 milioni e 800 mila disperati, che si aggiungono a centinaia di migliaia di afghani, iracheni e yemeniti di cui nessuno parla, a fronte della promessa di ricollocarne regolarmente un numero irrisorio di qualche decina di migliaia, nell’Eldorado a Nord del Mediterraneo.
Autocritica del «credibile» Occidente? Manco per sogno! Solo lo scorso anno, il bilaterale italo-tedesco, l’ultimo della Merkel, ha fieramente riconfermato l’accordo nefasto, sigillandolo con dichiarazioni del tipo: «Dobbiamo aprire una prospettiva sul futuro, la Turchia ha tutti i diritti ad essere appoggiata. Non possiamo andare avanti senza la cooperazione con la Turchia». Merkel dixit. Certo, non siamo ingenui: c’era molto di pragmaticamente vero nelle parole della Cancelliera uscente, una verità che ci fa capire che, in diplomazia e nella politica, i «buoni sentimenti» contano poco, così come «fabbricarsi nemici ad hoc» per giustificare la propria poca lungimiranza. Erdoğan non è un «uomo della pace», ma non lo era neppure Obama e tanto meno il leader etiope Abiy Ahmed Ali, tanto per fare due nomi recenti addirittura insigniti del Nobel. La possibilità della leadership turca di ricattare l’Europa gliel’ha offerta l’Europa stessa. Scandalizzarsene è ipocrita.
Mi pare evidente che le categorie che si devono utilizzare siano ben diverse. Un ripartire generale di tutti gli attori da un minimo di coerenza, potrebbe aprire percorsi nuovi. Vorrei sbagliarmi, ma siamo già in ritardo. La Turchia è un attore geostrategico e anche culturale essenziale della politica internazionale: non ho bisogno di dirlo io, ce lo assicurano i leader occidentali, pur non resistendo alla tentazione di «dare lezioni di democrazia» a giorni alterni. Quello che trovo francamente deprimente è che il criterio economico sia praticamente il riferimento unico e incontrastato delle scelte delle leadership attuali e questo ad ogni latitudine. L’UE stessa è entrata in un coma permanente da quando ha dimenticato di essere all’origine di molto più di un progetto economico: uno sperpero di tutte le idealità che davvero ispiravano i suoi padri.
- Due anni fa aveva definito il ridivenire di Santa Sofia una moschea lo «sfregio di un leader in crisi di consenso», ma aveva anche fatto appello all’Occidente perché non cedesse a logiche da crociata. Potrebbe essere una buona fotografia dell’attuale guerra in Ucraina, non trova?
Purtroppo sì, se pensiamo alle ampiamente commentate dichiarazioni farneticanti del patriarca Kirill a sostegno della «guerra di Putin», che rinnovano, tra l’altro, una «deriva collaterale», troppo dimenticata, delle crociate stesse, come atto di violenza e di intolleranza ad intra, prima ancora che ad extra. Quando, nel 1204, gli attori della Quarta crociata misero a sacco Costantinopoli, profanando tra l’altro anche Santa Sofia, calpestarono «dei fratelli e delle sorelle cristiani» mica dei musulmani.
Anche oggi, come feci nel 2020, invito a ripassare la storia e, aggiungerei, ad abitare la storia, prima di lanciarsi in giudizi affrettati: la costruzione di nemici veri o immaginari è deprimente sempre, ma tanto più nefasta quando è frutto di generalizzazioni caricaturali che decontestualizzano la lettura degli eventi, fraintendendo le vere matrici delle crisi in atto. Bisogna depotenziare l’approccio superficiale ed emozionale ai fatti, che si fonda su una visione fissista delle identità, riferimento reazionario ad un passato mitizzato che alimenta sterili polarizzazioni, sulle quali prosperano cristianofobia e islamofobia.
- Parlando di storia e di anticipazioni: nel Documento sulla fratellanza umana siglato ad Abu Dhabi nel 2019, papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb parlano di strumentalizzazione delle religioni, estremismo nazionale, terza guerra mondiale a pezzi e focolai di tensione dove si accumulano armi e munizioni. Anche questo, purtroppo, sembra un ritratto fin troppo esatto della guerra in Ucraina.
E non solo della guerra in Ucraina, purtroppo, ma di molti altri conflitti di cui non parliamo perché sono al di fuori dei nostri «radar» di percezione. Nel documento di Abu Dhabi la denuncia è condivisa, perché si parte da una «narrazione condivisa» della drammaticità del tempo che stiamo vivendo. È un approccio essenziale, perché non ci si limita più a collocarsi dalla parte delle vittime della storia, addossando le responsabilità delle tragedie sempre e solo alla parte avversa, come in gran parte della propaganda di guerra attuale, ma si fa uno sforzo comune per una lettura diversa degli eventi in corso.
Il tutto però a partire da una premessa teologica: attraverso la fede in Dio non si può che percepire gli altri esseri umani come fratelli e sorelle, per la comune dignità donata da Dio all’intera creazione e ai nostri simili. Insomma, denunciata la sconfinata brutalità dei totalitarismi atei, non si può cadere nell’opposto estremismo religioso con esiti altrettanto distruttivi. La condanna dell’abuso del nome di Dio per giustificare la violenza, utilizza un argomento teologico penetrante e significativo: «Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente». Insomma, il fanatismo religioso è atto idolatrico, perché rimpiazza Dio con un idolo plasmato a immagine e somiglianza di un umano violento che si erge a giudice degli uomini e della storia. Il conflitto in Ucraina, almeno nelle sue «giustificazioni propagandistiche», è una drammatica illustrazione di tutto questo.
- Da anni è impegnato nel dialogo interreligioso. Come vivono questa guerra le comunità islamiche, in particolare in Turchia?
Il vero credente, sia esso cristiano, musulmano o di altre fedi, non può che vivere con profondo disagio quanto sta avvenendo. Quando poi «gli effetti collaterali» della guerra hanno profondi riflessi politici, sociali ed economici là dove si vive, all’orrore si aggiunge la frustrazione di sentirsi spettatori impotenti degli eventi in corso. Le persone davvero impegnate in un dialogo interreligioso nel quotidiano non entrano tanto in contatto con le istituzioni ma con credenti concreti, e in Turchia, come già accennavo, l’esperienza dell’accoglienza di vittime della violenza in corso, a diversi livelli, appartenenti ad entrambe le fazioni in conflitto, permette più facilmente di constatare una volta di più la follia ingiustificabile della guerra, al di là delle simpatie di parte.
- Oggi ad essere in affanno sembra però essere soprattutto il dialogo ecumenico, almeno ai vertici. Si è parlato di Chiese ortodosse, soprattutto di Kirill e del Patriarcato ortodosso di Mosca. Ovviamente della Chiesa greco-cattolica in Ucraina. Del Papa, in bene e in male, forse inevitabilmente. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, invece, sembra rimasto per lo più sullo sfondo. Come lo spiega?
Beh, dipende dai punti di vista. Non possiamo dimenticare che il Patriarcato di Costantinopoli e quello di Mosca non sono attualmente in comunione eucaristica. Lo scisma è iniziato nell’ottobre del 2018, quando il patriarca ecumenico Bartolomeo ha garantito un «tomos di autocefalia» all’allora neonata Chiesa ortodossa ucraina e al suo metropolita Epifanio. Una decisione non estranea alle controversie politiche attuali, perché Kiev, oggi capitale dell’Ucraina, come prima capitale dello stato russo fu, naturalmente, anche la prima sede del patriarcato russo-ortodosso, trasferito a Mosca solo nel 1686.
Il Cremlino voleva mantenere il controllo della Chiesa ortodossa ucraina, ritenendola uno strumento indispensabile per influenzare l’opinione pubblica ucraina in favore della Russia. Ma, per lo stesso motivo, per i nazionalisti ucraini è diventato prioritario liberarsi dell’influenza russa. Evidentemente motivi strettamente politici si mescolano con controversie più strettamente canonico-ecclesiastiche.
Bartolomeo ha mal digerito lo schiaffo di Mosca in occasione dello strappo di Kirill alla vigilia dell’agognato Sinodo pan-ortodosso a Creta, nel giugno del 2016, che avrebbe voluto rilanciare la concertazione sinodale tra Chiese locali autonome, ma aperte ad una visione dialogale del loro servizio nell’ecumene. Tra un Bartolomeo che cerca di rafforzare la dimensione internazionale di una Chiesa ortodossa greca sempre più affrancata dal riferimento storico ad Atene, e un Kirill cappellano del nazionalismo autoritario di Putin ci sono pochi punti in comune e il Patriarca ecumenico si è espresso in modo inequivocabile sull’inaccettabilità di una giustificazione teologica a una guerra di aggressione.