Niger: la rabbia anti-occidentale

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Photo: REUTERS/Balima Boureima

Don Andrea Tenca, sacerdote della diocesi di Lodi, dal 2005 al 2012 è stato missionario in Niger e poi direttore della Caritas e del Centro missionario diocesano. Ha continuato a seguire le vicende del Paese africano attraverso le sue conoscenze dirette. Gli abbiamo fatto alcune domande sulla situazione del Niger e sul colpo di stato militare di fine luglio scorso.

  • Don Andrea, qual era la situazione del Niger e della Chiesa in quel Paese quando ci sei andato per la prima volta?

Quando sono arrivato nel Paese nel 2005, con la missione diocesana, il Niger era molto meno densamente abitato di quanto sia attualmente e la Chiesa era una realtà piccolissima, davvero embrionale. I tre caratteri dominanti che ho trovato erano – e sostanzialmente sono rimasti – la grande maggioranza islamica, l’estrema povertà (il Niger è tra i Paesi più poveri al mondo se non il più povero) e il clima tipico del Sahel, con tre quarti del territorio occupati dal deserto e una popolazione concentrata nella fascia a Sud, più vivibile.

Rispetto ad altri Paesi dell’area, quali il Burkina Faso e il Mali, l’evangelizzazione è arrivata più tardi e più a rilento, anche perché il personale pastorale inviato dalle congregazioni religiose è sempre stato minimo. La Chiesa, coi primi missionari, nasce di fatto a seguito del fenomeno coloniale e i primi nuclei cristiani si sono formati soprattutto attorno alle grandi città, tra i coloni occidentali e gli africani migranti al loro seguito, dal Togo, dal Benin, dalla Costa d’Avorio e, in parte, dal Burkina Faso: Paesi in cui la presenza cristiana era già più sviluppata.

La nostra missione era inserita su questi piccoli nuclei, con l’obiettivo ideale di costruire legami e stringere amicizie in tutto l’ambiente umano nigerino, continuando un cammino di preparazione del terreno per renderlo favorevole ad accogliere il seme del Vangelo: cercavamo di far conoscere il nome di Gesù – con la testimonianza e qualche parola – a uomini e donne che non ne avevano mai sentito parlare o quasi.

  • Dove si trovava precisamente la missione e a cosa ci si dedicava?

La missione diocesana si trovava a Dosso, una città di circa 70.000 abitanti competente su una regione paragonabile, per dimensioni, alla Lombardia: per noi missionari significava avere una parrocchia grande, appunto, quanto la Lombardia, con 200 cristiani sparsi sul territorio di cui occuparci in quanto praticanti: questi erano i nipoti di coloro che erano giunti, migranti, al seguito dei coloni, come artigiani impiegati nella città. In un contesto di enorme povertà, ci si dedicava soprattutto ai poveri del posto, anche col sostegno della CEI e della Caritas. La missione della diocesi di Lodi è proseguita sino al 2020, quando la minaccia jihadista si è fatta più forte da quelle parti. Ma, nel frattempo, è cresciuta una piccola Chiesa locale.

  • C’erano altre missioni, non cattoliche?

Sì, c’erano Chiese evangeliche e gruppi delle più varie denominazioni, anche queste Chiese e questi gruppi giunti da «Occidente», ma con radici ormai in loco. A Niamey, la capitale, c’erano e ci sono ancora commercianti libanesi che fanno riferimento alla Chiesa maronita. Parliamo sempre di piccoli numeri. Ortodossi non ne ho mai visti.

  • Quanti missionari italiani c’erano allora? E adesso?

Quando sono arrivato in Niger la presenza complessiva dei missionari occidentali si aggirava sulla ventina: italiani eravamo in tre; poi c’erano i francesi e gli spagnoli. Gli altri missionari erano membri della Società delle Missioni Africane, mentre, durante gli anni della mia presenza, anche le diocesi di Belluno e di Milano hanno inviato due preti fidei donum. Ora rimane solo un anziano prete della diocesi di Milano e, fra i preti SMA, due spagnoli e alcuni indiani. Missionari francesi non ce ne sono più.

  • Come si spiega il calo dei missionari?

Soprattutto con la diminuzione delle vocazioni missionarie in Europa. Ma anche col fatto che una piccola Chiesa locale ha incominciato a crescere, anche se i seminaristi – che si formano in Burkina Faso – sono quasi tutti membri di famiglie provenienti da Paesi confinanti. Comunque, prova di questa evoluzione verso il costituirsi di una Chiesa locale è il fatto che, allora, dipendevamo da un vescovo francese mentre adesso, da una decina d’anni, c’è un vescovo nigerino in quella che era la nostra diocesi.

  • C’erano e ci sono anche religiosi in Niger?

Pochi, ma c’erano: padri bianchi e redentoristi. Oggi ci sono soprattutto le religiose: è ancora presente una comunità di Piccole sorelle di Gesù, presenza storicamente importante in Niger, mentre oggi sono diverse le religiose provenienti da congregazioni di origine africana. La Chiesa locale è relativamente cresciuta, soprattutto per un naturale andamento demografico, anche se la maggioranza dei cristiani è sempre quella proveniente dai Paesi vicini, tranne poche eccezioni. Anche per le vocazioni presbiterali o religiose parliamo quasi sempre di vocazioni maturate in questi contesti etnici. Il passaggio dall’islam al cristianesimo costituisce una possibilità, ma ancora molto in divenire. Del resto, serviva allora – e serve ancora a maggior ragione – molto tempo. Ripeto: noi siamo andati a portare la conoscenza del nome di Gesù; uscire dalla via dell’islam per seguire Gesù appartiene alla volontà di Dio e non ai nostri desideri.

  • Come ti sentivi visto dalla gente?

L’opinione della gente comune nigerina è sempre stata buona nei nostri confronti. La nostra è stata una presenza discreta, di accompagnamento per i pochissimi già cristiani, di buona vicinanza e di aiuto per tutti, per tanti anni. Penso abbia edificato una buona immagine della Chiesa cattolica tra la gente, anche tra i musulmani.

  • Qual è stato, dunque, il vostro rapporto con l’islam locale?

L’islam proprio della tradizione del Niger è quello delle «Confraternite»: un islam spirituale, di ricerca di Dio, capace di dialogo e di accoglienza. Non abbiamo mai avuto paura. Nel tempo, le cose sono un poco cambiate col diffondersi di un islam più integralista e legalistico, con cui è obiettivamente più difficile, ma non impossibile, rapportarsi. Sono cresciuti anche in Niger, come in tutta l’Africa sub-sahariana, centri e moschee in cui si fa una predicazione che non motiva alla convivenza. La cosa preoccupa non solo i pochi cristiani, ma anche la maggioranza dei musulmani educati ad un islam molto più dialogante.

  • Da dove proviene questo tipo di islam in Niger? E da dove vengono i finanziamenti?

Sicuramente dalla penisola arabica ed è facilitato dai mezzi e dagli strumenti di comunicazione: ad esempio, oggi è molto più facile e diffuso il viaggio a La Mecca, che un tempo non era economicamente possibile ai nigerini. Il mondo arabo ha fatto investimenti consistenti sulle moschee e sulla cultura islamica di matrice wahabita ritenuta, ovviamente da quel mondo, la più pura. Anche la Turchia negli ultimi anni ha investito nella diffusione di un islam che non è poi così tollerante.

  • Il jihadismo, in Niger e in tutto il Sahel, da dove proviene?

Difficile dirlo. Quel che è certo è che il jihadismo, col suo portato di violenza, è cresciuto progressivamente dopo l’11 settembre 2001, partendo dal nucleo caldo di al-Qaeda e alimentandosi, ovunque, di una forte propaganda antioccidentale. Mi sembra di poter dire tuttavia con sicurezza che, al di là della propaganda, il jihadismo trae la sua forza violenta dai traffici e dagli interessi economici, perché in Niger e in tutta l’area sahariana accumula le proprie ingenti risorse economiche da tutti i traffici sporchi che vi albergano, in combutta con le mafie mondiali: dal commercio delle armi alla droga, dall’oro agli esseri umani. Quale sia lo scopo ultimo dei jihadisti faccio fatica a capirlo, ma a me sembra sia quello di creare uno spazio libero da altre presenze per avere il controllo su tutto ciò che può arricchire.

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Photo by AFP

  • In Niger quali materie prime ci sono e chi le controlla?

In Niger c’è di tutto. Ed è forse questa la maledizione, più che la benedizione, di questo Paese: «da sempre» l’Occidente mette i suoi occhi interessati sul Niger: ora non solo l’Occidente. In primo luogo, in Niger c’è l’uranio che è sempre stato il principale oggetto del controllo della Francia. Come noto, l’uranio serve alla Francia per far funzionare le centrali nucleari (di cui, in qualche misura, fruisce anche l’Italia). L’uranio spiega la presenza, sino ad ora, della Francia coi suoi militari in Niger come in tutto il Sahel. Poi c’è l’oro, tantissimo oro, che fa gola a tutti in Occidente. C’è il petrolio, il nichel, ci sono i fosfati e altro. Sono molte le compagnie multinazionali fortemente interessate a queste risorse: anche la Cina è entrata con le sue compagnie nel Sud, in particolare, per prendere la sua parte di petrolio.

  • Quali governi ha avuto il Niger?

Finora si potrebbe dire che il Niger ha avuto governi «democratici», se per democratici intendiamo governi eletti. Ma sempre ci sono state tensioni coi militari. A suo tempo, anch’io ho vissuto «in diretta» un colpo di stato dei militari. La costante è che tali governi sono stati alleati dei Paesi occidentali, anzitutto ovviamente della Francia. La storia del Niger è segnata dalla colonizzazione francese. Non c’è stato un presidente nigerino, a mia memoria, che non fosse filoccidentale e filofrancese. Tale esperienza è davvero viva, forte: ora in senso molto negativo, come vediamo negli effetti di questi giorni.

  • Cosa pensi del colpo di stato militare del 26 luglio scorso, di marca – almeno sembra – antifrancese e antioccidentale?

Sono possibili diverse letture. Non è ancora chiaro dove i militari della nuova giunta vogliano portare il Niger. Da quel che hanno detto, i militari non si sentono «protetti» dagli attacchi jihadisti, di cui sono i principali bersagli. Di fatto, ci sono zone del Paese che si stanno rapidamente spopolando: sono quelle più frequentate dai jihadisti, ma sono anche quelle in cui operano le compagnie multinazionali per il controllo delle materie prime. Chi ha maggior interesse a far scappare la gente perché non veda cosa succede da quelle parti? Si è forse instaurata una strana, quanto inconfessabile, convergenza di interessi? Comunque sia, i militari nigerini sono stanchi di essere mandati in quelle zone a morire per una partita che non sentono come loro. Questa è una possibile lettura interna-esterna al Niger.

L’altra lettura possibile raccoglie gli umori della gente, non solo in Niger ma in tutto il Sahel: questa gente non ne può più, effettivamente, dei francesi e degli occidentali. Le immagini di protesta verso di «noi», per quanto capisco, sono autentiche, non sono montature. Specie tra i giovani le coscienze si stanno svegliando nella consapevolezza dello sfruttamento subito nel periodo coloniale e post-coloniale fino ad oggi. Pensano che la presenza occidentale in Africa sia motivata da ragioni di mero interesse.

  • Sono giustificati, secondo te, questi umori antioccidentali?

Penso che i nigerini che protestano non abbiano torto. Guardiamo alla presenza italiana in Niger: dal 2020-2021 è stata insediata una base militare il cui compito è quello di impedire il passaggio dei migranti attraverso il Niger. Il Niger non è un Paese di emigrazione verso l’Italia e l’Europa. Pochissimi nigerini arrivano in Italia. Ma attraverso il Niger passa una rotta importante verso il Mediterraneo, come sappiamo. Quindi si è pensato bene di frenarla con la presenza dei militari italiani. Del resto, interessa ben poco. La domanda che dovremmo farci è la seguente: noi accetteremmo la presenza di un esercito straniero nelle nostre terre? Ecco la gente è stufa di tutta questa ingerenza. Al mondo occidentale non ha interessato e non interessa la condizione di povertà in cui versa la gente in Niger e in Africa. Penso che noi non ce ne rendiamo davvero conto. Peraltro, l’opinione pubblica europea viene lasciata all’oscuro rispetto all’enorme povertà in cui vive il popolo nigerino.

  • Perché i giovani che protestano in Niger, a sostegno dei militari, sventolano bandiere russe e inneggiano a Putin?

Penso si tratti di una reazione emotiva: le manifestazioni non sono tanto pro-Russia o pro-Putin, bensì contro l’Occidente che non ha prestato, in questi anni, alcuna attenzione allo sviluppo reale del Paese e della sua popolazione. In Niger non c’è mai stata alcuna presenza russa, neppure attraverso la Chiesa ortodossa. Può darsi che in questa situazione ci siano infiltrazioni di propaganda russa antioccidentale attraverso la rete e i social, come avviene ormai in tutte le parti del mondo. Ma, secondo me, dietro i militari non c’è la Russia e neppure la Wagner. C’è piuttosto la reazione irata dei militari e della gente nigerina, di cui ti ho detto.

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Photo by AFP

  • Tutto è, dunque, compromesso, per «noi», in Niger e in Africa?

Purtroppo, ogni nostra presenza rischia di essere interpretata come ingerenza e con finalità di puro interesse. Alla retorica «aiutiamoli a casa loro» non crede più nessuno, sia in Africa sia, penso, a casa nostra. È una retorica falsa, ipocrita, che va semplicemente tradotta così: «lasciamoli a casa loro nella loro povertà, e non vengano da noi!». Questa è la logica che sta dietro le scelte dei Paesi occidentali.

  • Quali saranno le conseguenze per i cristiani e per le missioni in Niger?

Penso che non ci saranno conseguenze troppo negative, alla sola condizione che la Chiesa continui a stare dalla parte dei poveri e degli ultimi, nigerini e africani in genere.

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6 Commenti

  1. Paola 2 settembre 2023
  2. Mario Musumeci 21 agosto 2023
  3. Angela 21 agosto 2023
  4. Gianni 21 agosto 2023
  5. Tino Sacchi 20 agosto 2023
  6. Piero Cappelli 20 agosto 2023

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