Ampia eco e titoloni sulle prime pagine per la presentazione del rapporto di Caritas italiana sulla povertà. Se i dati divulgati sono risultati sorprendenti per molti, non hanno però meravigliato chi sta in prima linea sul fronte del disagio: i centri di ascolto e gli osservatori dei bisogni e delle povertà di molte Caritas diocesane, i numerosi servizi in risposta ai bisogni primari (mense, distribuzione di alimenti, docce, dormitori…) e le stesse parrocchie, come pure gli assessori comunali con delega per il sociale.
La novità enfatizzata è il sorpasso dei giovani sugli anziani: la fetta più consistente di italiani poveri sono nell’arco di età 18-34 anni, l’aumento è costante fino a superare il 10% in quella fascia di popolazione mentre scende la povertà degli over 65 (“soltanto” il 4%).
La stampa e lo stesso sito di Caritas italiana forniscono ampia documentazione sulla crescente diffusione della povertà e dell’esclusione sociale. Ma poi bisogna riflettere sulle cause e sui possibili (e difficili) rimedi.
Risposte inadeguate
Prima di tutto è evidente (finalmente!) la consapevolezza delle istituzioni intorno alla gravità del fenomeno, pur nel permanere di grande incertezza – e di pari inadeguatezza – sulle risposte. Dalla social-card berlusconiana agli 80 euro renziani, gli organi di governo hanno quanto meno manifestato attenzione verso la crescente fatica degli ultimi e dei penultimi nella scala sociale ed economica, senza però prendere di petto i gravi e crescenti squilibri nella distribuzione della ricchezza.
Da poco l’attuale Governo ha varato il SIA (Sostegno all’inclusione attiva) come misura di contrasto alla povertà indirizzata alle famiglie in difficoltà con figli. Le intenzioni sono apprezzabili, sui risultati vedremo. Caritas italiana esorta a collaborare con i Comuni per l’attuazione dei SIA, la cui logica è l’erogazione di sussidi monetari in cambio della prestazione di servizi di pubblica utilità. Credo che da parte delle varie espressioni della solidarietà organizzata di ispirazione cristiana ci sarà grande disponibilità. Intanto non può passare sotto silenzio il fatto che da un po’ di anni a questa parte i Comuni dispongano di sempre meno fondi per il sociale.
Ma soprattutto, di fronte all’esplosione della povertà (siamo in zona medaglie… quarti in Europa!), la domanda seria è sul modello di sviluppo socio-economico necessario per combattere la povertà.
Possibili rimedi
Da ignorante di cose economiche, oso affermare che qualsiasi ricetta debba contenere necessariamente tre ingredienti: lavoro, casa e ridistribuzione della ricchezza.
Per quanto riguarda il lavoro, è chiaro a tutti che la disoccupazione e la precarietà lavorativa sono una delle cause – credo la prima – della caduta in povertà, soprattutto dei giovani.
La casa, o meglio la mancanza di essa e il disagio abitativo, è la seconda grande causa di impoverimento, degrado, crisi economica ma anche sociale e relazionale di molti nuclei familiari. A fronte di un sempre maggior numero di abitazioni vuote, di carenza di progetti di edilizia popolare, della crescita a macchia di leopardo di zone o quartieri-ghetto.
Se già la casa soffre di cattiva distribuzione, la malattia diventa addirittura epidemica per quanto riguarda i redditi. Forse più adesso che nell’800 si avvera la profezia di Carlo Marx: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri. Sta di fatto che i grandi capitali, il mondo della finanza, gli imperi sovranazionali accrescono la ricchezza di poche élites, mentre non contrastano o addirittura diffondono povertà. A ciò va aggiunto che molti “santuari” economico-finanziari sono ben attrezzati per sfuggire alla leva fiscale. Papa Francesco ha ben definito la perversione del sistema: «questa economia uccide».
Ecco allora l’inevitabile, ingenua ma seria domanda: è pensabile una politica meno succube dell’economia e della finanza, che assuma il ruolo di “Robin Hood sociale” nel senso di togliere ai ricchi per dare ai poveri? Magari cominciando dalle pensioni e dai vitalizi d’oro, non solo dei politici ma anche dei grossi manager pubblici e privati.
A questo punto sono in evidente malafede tutti coloro che rivendicano come diritti acquisiti intangibili quelli che ormai non sono altro che privilegi eticamente indifendibili. E, ricorrendo al linguaggio dei parroci di un tempo, tali da gridare vendetta al cospetto di Dio.