Esiste ancora il “Quarto potere”? Quello della stampa? No. A dirlo è Antonio Farnè, presidente dell’ordine regionale dei giornalisti dell’Emilia Romagna.
Primo perché la stampa non deve essere potere ma servizio, secondo perché ormai la realtà racconta che il 65% dei giornalisti non è tutelato da alcun contratto. L’occasione è stata un convegno promosso a Bologna venerdì scorso dall’Ordine dei giornalisti in collaborazione con le sigle cattoliche della stampa regionale. «Piuttosto – ha spiegato ancora Farnè – papa Francesco invita gli operatori della comunicazione a una buona prossimità con la gente, stando vicini alle persone per raccontare la società con gli occhi di un giornalista deontologicamente corretto. Raccontare la realtà diventa allora per noi giornalisti una questione di servizio pubblico».
A raccontare la su esperienza di figlio di giornalista, per lo più dell’Osservatore romano, è stato invece monsignor Matteo Zuppi nel suo intervento conclusivo. «Mi ricordo che per lui – ha detto riferendosi al padre – in alcune circostanze la vera difficoltà era come non dire alcune cose piuttosto che dirle. Oggi ci fa sorridere perché abbiamo imparato che la comunicazione deve essere aperta. La storia del rapporto tra Chiesa e comunicazione è complicata. Ma questo confronto è comunque stimolante perché entrare nella grande piazza ci permette di arrivare a tanti. Di fronte alle sfide di oggi dobbiamo imparare a lavorare insieme e avere il coraggio di sperimentare vie nuove che ci uniscano sempre di più. Troppo poca sinergia ci fa perdere tante energie. E sinergia non vuol dire omologazione ma comunione». «Comunichiamo quello che siamo – ha concluso l’arcivescovo – e nella nostra esperienza ecclesiale viviamo tante ricchezze da condividere. Spesso siamo specialisti nell’essere noiosi anche nel comunicare le cose belle che abbiamo. Il papa nel suo Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni ci invita alla speranza e alla fiducia. La speranza è la più umile delle virtù e la alimentiamo solo dando sempre la buona notizia. La tentazione del negativo qualche volta può stordire e piega il nostro racconto e condiziona tutto il resto. Per la comunicazione il tema dell’uscita proposto dalla Evangelii gaudium è strutturale. Ma talvolta quando usciamo rimaniamo comunque dentro i nostri schemi e luoghi sicuri, non scaldiamo. Per saper uscire dobbiamo vivere fino in fondo ed essere profondamente noi stessi».
«Questa comunicazione così rapida mette a dura prova ciò che siamo – ha detto don Ivan Maffeis, direttore Ufficio nazionale comunicazioni sociali della Cei –. Da una parte un surplus di competenze domanda a noi giornalisti di avere una grande cultura perché interveniamo spesso su tutto senza poter verificare. Senza demonizzare la cultura digitale in cui siamo immersi dobbiamo renderci conto che questa ci porta ad assumere abitudini a volte anche malsane. Spesso non reggiamo mai, o con difficoltà, una conversazione con qualcuno senza lasciarci interrompere magari dal telefono o senza andare a controllare la posta o il nostro profilo sociale. Su questo dobbiamo porci alcune domande proprio per non rischiare di essere sempre altrove senza incartare veramente l’altro». «Stanno cambiando tante cose e la Chiesa italiana è fortemente impegnata a livello nazionale ad essere all’altezza delle sfide – ha concluso don Maffeis –. L’impegno è con TV2000, Radio Inblu e l’agenzia Sir ma non solo, va anche a livello territoriale. E penso ai tanti settimanali locali. Questo tempo ci impone in fretta di riposizionarci, di trovare progetti sostenibili a fronte di costi che stanno mettendo in ginocchio tanti dei nostri settimanali. Allora più che fare una battaglia per difendere le nostre testate con tanta umiltà dobbiamo sederci attorno ad un tavolo e chiederci insieme dove possiamo investire per il nostro futuro perché la Chiesa possa continuare ad avere la sua voce».
All’incontro è intervenuto anche il giornalista Guido Mocellin, che ha illustrato alcuni punti di vista di Francesco nei confronti delle comunicazioni. «Il papa è cauto e un po’ severo generalmente quando si rivolge ai media – ha detto Mocellin –. In una recente intervista ha messo in guarda gli operatori della comunicazione da quattro tentazioni: la calunnia, la diffamazione, la disinformazione con cui si racconta solo una parte della realtà e infine la malattia di volere raccontare sempre e solo lo scandalo o di seguire a tutti i costi i gusti del pubblico. L’atteggiamento del pontefice incoraggia a una comunicazione più orizzontale e nello stesso tempo ci responsabilizza alla nostra responsabilità nel comunicare anche in rete. Anche da lì parliamo “in pubblico” con tutte le responsabilità che ne conseguono».