Abbiamo chiesto a Davide Assael di aiutarci a comprendere le novità emerse dalle recenti elezioni in Israele. Filosofo, presidente della «Associazione Lech Lechà, per una filosofia relazionale», Davide Assael ha svolto attività di ricerca per importanti fondazioni italiane. È una delle voci della trasmissione di RAI Radio3 «Uomini e profeti», ed è collaboratore della rivista Limes ed editorialista del quotidiano Domani.
- Le recenti elezioni parlamentari in Israele hanno decretato l’abile risurrezione politica di Benyamin Netanyahu. Ma quali sono le vere novità del quadro politico? Qual è il volto del nuovo parlamento israeliano?
«Anzitutto, è un volto nel quale si legge la fine di un periodo di instabilità politica che durava da quasi quattro anni durante i quali Israele è andato al voto quattro volte senza mai uscirne con una maggioranza sufficientemente solida. Si sono formati diversi governi, tra cui due di unità nazionale – l’ultimo dei quali includeva anche una lista araba tradizionalista –, però questa eterogeneità li rendeva molto molto deboli.
Il lungo periodo di instabilità cominciava a diventare preoccupante, perché Israele è stato per oltre due anni senza un bilancio dello Stato. Solo con l’ultimo governo, che è stato forzatamente formato, si è potuto avere un nuovo bilancio. Il fatto è rischioso per qualunque Paese, perché il bilancio dello Stato segna anche una linea strategica. Ma lo è a maggior ragione per uno Stato come Israele, sottoposto a enormi pressioni esterne, forse come nessuno Stato al mondo. Ricordiamo che sia a Sud (Gaza) sia a Nord (Hezbollah, in Libano) Israele è circondato da persone che lanciano quasi quotidianamente missili sul suo territorio. La buona notizia è che finalmente è stata ritrovata una maggioranza, sebbene non sia solidissima (solo quattro parlamentari).
L’altro dato rilevante è la vittoria di una coalizione guidata ancora da Benyamin Netanyahu, che ha già ricevuto l’incarico per formare il nuovo governo. E qui si aprono altri fronti che introducono elementi di potenziale instabilità. Anzitutto, Netanyahu è assediato da processi, tuttora in corso, per tangenti e corruzione (è coinvolta anche la moglie). Non c’è dubbio che abbia bisogno di uno scudo politico. La domanda è: a che prezzo.
Infine, se è vero che la coalizione è omogenea e guidata ampiamente dal Likud, è anche vero che comprende i partiti religiosi estremisti. Anzitutto, Sionismo Religioso, una corrente che esiste dalla fondazione dello Stato di Israele (legata all’allora rabbino capo della Palestina mandataria, Rav Avraham Yitzchak Kook), che è divenuto il terzo partito del Paese. Un partito molto radicale, senza alcuna politica di compromesso col mondo arabo interno a Israele e nemmeno col mondo palestinese. Vi sono poi altri due partiti legati al mondo dell’ortodossia ebraica. Con questi deve governare Netanyahu. È inevitabile chiedersi quale sarà la moneta di scambio.
È ovvio che la composizione del nuovo parlamento produce una forte polarizzazione – in un paese già polarizzato – e alimenta una condizione di conflitto e di instabilità. Se non politica, quantomeno sociale».
- La necessità di Netanyahu di spostare la sua coalizione verso la destra estrema quali temi indebolirà e quali invece imporrà all’agenda di governo?
«Non è facile rispondere. Già dalle prime dichiarazioni, confermate dal discorso di insediamento, Netanyahu appare condannato a un gioco di equilibri. Da un lato, deve accontentare la sua coalizione di governo, molto radicale. Dall’altro, ha dei vincoli esterni. Anzitutto, le relazioni che lui stesso aveva costruito con il mondo arabo – nella fase finale della presidenza Trump – attraverso gli storici accordi di Abramo. E poi il recente accordo sui confini marittimi con il Libano. In che modo riuscirà a mantenere buone relazioni con le controparti di questi accordi in presenza di partiti radicali, che hanno una netta posizione anti araba, è tutto da vedere.
C’è poi il rapporto imprescindibile per Israele con gli Stati Uniti. Biden ha voluto riproporre l’accordo sul nucleare con l’Iran, che Trump aveva stralciato durante la sua presidenza, e intende arrivare alla firma. In Israele, tutti – anche i partiti di centro sinistra e certamente gli apparati militari dello Stato – considerano l’Iran il nemico numero uno. Difficile prevedere come Netanyahu possa assecondare i desiderata dell’amministrazione Biden e proporsi in maniera coerente al suo elettorato che lo acclama come il “grande re di Israele”, il difensore dello Stato contro il pericolo persiano. Anche questo sarà un gioco da equilibrista i cui esiti sono aperti.
Il tutto si colloca poi dentro il quadro di crisi mondiale creato dalla guerra russo-ucraina, che impone di prendere posizione. Putin era tra i firmatari dell’accordo con l’Iran e per cambiarlo occorre il consenso di tutti coloro che lo avevano ratificato. Questo offre alla Russia un ampio margine di manovra. Netanyahu, per ragioni di sopravvivenza personale, sarà disposto perfino a spostare Israele in orbita russa o comunque vicino alla Russia? Sono tutte domande che riguardano nell’immediato futuro la politica del nuovo governo».
- Può aiutarci a fare le opportune distinzioni dentro la parte più estrema del nuovo governo, a cominciare dalla figura ingombrante di Itamar Ben Gvir? Quali temi saranno rilevanti per questo campo della maggioranza?
«Itamar Ben Gvir, già capo del partito ultraortodosso Potere ebraico, confluito poi nel partito sionista religioso, è stato effettivamente la vera star della campagna elettorale israeliana. Personaggio estremamente radicale, di matrice kahanista – che si rifà al movimento del controverso rabbino Meir Kahane messo fuori legge dal governo israeliano a metà degli anni Novanta –, si è distinto nella recente campagna elettorale per essersi fatto fotografare munito di pistola a passeggio nei quartieri arabi di Gerusalemme. Non ha nascosto la sua ammirazione per il fondamentalista e stragista Baruch Goldstein, autore del massacro di Hebron nel 1994, la cui foto era in bella vista (a favore di telecamere) nel suo studio. Ma le cose in Israele sono in continuo cambiamento. Anche in questo caso bisogna osservare bene le prime mosse post elettorali di Ben Gvir.
In una recente intervista a Israel Hayom – il giornale della destra israeliana – si è dichiarato cambiato, maturato. Insomma, ha giocato a fare il moderato e ha dato segni di volersi spostare verso il centro. La qual cosa non farà certo piacere a Netanyahu, dato che si tratta di un rivale interno che nella sua condizione non può permettersi. Intanto, l’altro leader del partito sionista religioso, Bezalel Smotrich, anche lui esponente di posizioni ultra radicali e senza compromessi col mondo arabo, sta facendo il percorso inverso e risponde al riposizionamento di Ben Gvir andando a cercare l’elettorato di destra più estremo lasciato scoperto. Si è creata una divaricazione interna alla maggioranza che potrà condizionare l’azione di governo. Un ulteriore elemento di tensione che metterà alla prova il proverbiale pragmatismo di Netanyahu. Riuscirà a tenere tutti insieme? Riuscirà a conciliare le turbolenze dettate dalla politica interna con il posizionamento internazionale di Israele?».
- Le dinamiche che hanno accompagnato le recenti elezioni e l’esito delle stesse ci consente di parlare di una crisi della democrazia anche in Israele?
«Israele ha attraversato in questi anni una crisi del processo democratico del tutto simile a quella che ha toccato le grandi democrazie occidentali. Vi sono alcuni fenomeni comuni che abbiamo visto anche in Israele, ovviamente con le tipicità proprie del Paese. Anzitutto, una polarizzazione sociale talmente divaricata da bloccare il processo decisionale e produrre instabilità politica. E poi, come conseguenza, il diffondersi dello sconforto tra gli elettori. Israele, come l’Italia, è sempre stato un Paese di forte partecipazione elettorale ma (a parte la recente tornata) registra un calo costante dell’affluenza, con un conseguente problema di rappresentanza. Vedremo se le ultime elezioni segneranno anche una inversione di tendenza, riducendo la distanza tra classe politica ed elettorato».
- Altra questione rilevante è la scarsa rappresentanza parlamentare del mondo arabo: solo uno dei tre dei partiti arabi ha superato la soglia di sbarramento e ottenuto seggi in Parlamento. Di fronte alla crescita prevedibile delle provocazioni che verranno dall’attuale compagine di governo, quanto è concreto il rischio che possano deflagrare manifestazioni anche violente del dissenso?
«Dopo la partecipazione a un governo israeliano (quello precedente) da parte di una lista araba tradizionalista, oggi registriamo una sostanziale sconfitta del mondo arabo israeliano: su tre liste una sola è entrata in parlamento. Una parte della responsabilità va sicuramente ascritta alle stesse liste, che si sono presentate divise alle elezioni. A mo’ di battuta, scrivevo che anche gli arabi hanno ormai introiettato il principio cardine del mondo ebraico, dove si dice: “due ebrei, tre opinioni”. Il frazionamento politico che vediamo in tutto lo scenario israeliano si è riproposto anche nel mondo arabo.
La mancanza di rappresentanza politica può rappresentare senza dubbio un fattore di rischio. Lo abbiamo visto un anno e mezzo fa, nel corso dell’ultimo conflitto con Gaza, quando sono esplose rivolte molto violente – durate per fortuna solo pochi giorni – nelle città miste (come Haifa) e nei villaggi arabi in Israele, dove esiste una tradizione di convivenza tra componente ebraica e componente araba. Abbiamo visto di nuovo le sinagoghe incendiate e la parte radicale del mondo ebraico reagire con la violenza. Il ritorno di questi disordini ha scioccato l’opinione pubblica e ha messo in difficoltà le componenti politiche più favorevoli al dialogo.
Non sappiamo come si comporterà il mondo arabo. Molto dipenderà da Netanyahu e dalla sua capacità di moderare la retorica anti araba della parte più radicale della sua maggioranza. Inoltre, quelle rivolte che in Occidente sono apparse il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese, sono stati in realtà fenomeni di violenza urbana. Da tempo la polizia di Israele denunciava una diffusione di armi tra la popolazione arabo-israeliana del Paese, soprattutto in alcune zone dove domina la malavita, come sempre accade nelle realtà marginalizzate. Nel momento in cui la situazione politica si è riaccesa, la presenza delle armi ha reso le rivolte più sanguinose.
Netanyahu dovrà essere ben accorto affinché simili fenomeni degenerativi, che si sovrappongono alla delinquenza comune, non si ripetano. Dovrà sorvegliare bene le dinamiche interne alla comunità araba e alla malavita israeliana. Per non consentire la diffusione di armi su cui si può creare una speculazione politica. Ancora un equilibrio da sorvegliare per Netanyahu, che dovrà a un tempo controllare la retorica anti araba dei suoi alleati più radicali e stare attento a una organizzazione del paese che è sfuggita di mano».
- Che tipo di opposizione avrà in Parlamento?
«L’opposizione sarà scarsa, perché è frammentata. C’è inoltre chi sostiene già ora che Netanyahu non riuscirà a giostrarsi sulla linea di equilibrio tra vincolo esterno e vincolo interno di cui abbiamo parlato, e quindi si rivolgerà presto o tardi al centro dell’arco parlamentare. L’ipotesi è che l’aiuto gli verrà da parte di Benny Gantz, che è stato suo grande rivale ma anche alleato in un patto di governo costruito per superare lo stallo politico.
Gantz è stato fondatore e leader di Azzurro e bianco, partito oggi confluito in un’altra formazione unitaria di centro. Si tratta di partiti con scarsissimo radicamento sul territorio, spesso improvvisati, nati su pressione degli apparati militari nel tentativo di dare una certa stabilità alla politica israeliana e magari per fare fuori politicamente Netanyahu, divenuto ormai estremamente ingombrante per tutti. Gantz potrebbe ricevere pressioni da parte dell’esercito – che ha il problema dell’Iran –, e da parte del presidente Herzog – che continua a fare appelli all’unità nazionale –, affinché accetti un nuovo patto di governo con Netanyahu. Il che renderebbe “Re Bibi” meno ricattabile dalla sua parte destra, ma brucerebbe politicamente Gantz, perché nessuno lo voterebbe più.
I problemi per Netanyahu non verranno dunque dall’opposizione, disunita e con una parte già disposta a fargli da stampella. Verranno tutti dalla sua coalizione. Non sarà facile gestire una destra così radicale, che dovrà rendere conto ai propri elettori e che è animata da una competizione interna tra Smotrich e Ben Gvir».
- Cosa cambia per i cristiani e le Chiese in Israele dopo queste elezioni? Si può immaginare per loro un ruolo in ordine alla pacificazione del tessuto sociale?
«Per i cristiani cambia qualcosa nella misura in cui sono legati alla componente araba. Non in quanto cristiani. I cristiani israeliani appartengono per larga parte al mondo arabo e sono legati alla causa araba. Per questo non credo che il mondo cristiano israeliano sia in grado di fungere da ponte per risanare i conflitti interni alla società. È un mondo troppo connotato e troppo schierato. Altra cosa può essere invece l’efficacia dell’azione delle Chiese cristiane, cattolica e ortodossa. L’azione diplomatica delle Chiese è un elemento esterno sul quale il pragmatismo di Netanyahu potrebbe anche fare leva per addomesticare la parte più radicale del proprio schieramento. Il mondo cristiano ha la possibilità di influenzare la società israeliana più dall’esterno che dall’interno, dove – per ragioni storiche – appare connotato e legato alla causa araba, che è la propria».