Elmar Salmann, monaco benedettino tedesco dell’abbazia di Gerleve in Westfalia, è un’icona vivente della teologia sapienziale. Al suo insegnamento di circa trent’anni all’Anselmianum e alla Gregoriana si sono formati decine di giovani teologi che, nei loro scritti, sono immediatamente riconoscibili per le tracce derivanti dal suo pensiero. Un pensiero, sì sapienziale, ma che si sostanzia anche di originalità, creatività, ironia, e un appassionato gusto del paradosso. Ingredienti che hanno fatto di padre Salmann una delle voci più autorevoli della teologia contemporanea.
Il 16 maggio 2023 molti dei suoi ex allievi si sono ritrovati nell’aula capitolare dell’Ateneo di Sant’Anselmo per celebrare, in un evento organizzato dal rettore Bernhard Eckerstorfer osb, il 75° genetliaco di padre Salmann, con i contributi dell’abate primate benedettino Gregory Polan, di mons. Armando Matteo, segretario al Dicastero per la Dottrina della Fede, e della teologa Isabella Bruckner, docente a Sant’Anselmo e premio Rahner 2022.
A margine di questo incontro il padre Salmann ha accettato di dialogare a tutto campo con L’Osservatore Romano.
Ciò che negli anni ha reso padre Salmann particolarmente apprezzato nel mondo accademico e teologico, insieme alla profondità e originalità delle sue riflessioni, è senz’altro il colore, insieme arguto elaborato ed ironico, del suo linguaggio, che non ha mancato di usare anche in questo dialogo. Riprendiamo di seguito l’intervista.
- Padre Salmann, è ormai già qualche anno che lei si è ritirato dall’insegnamento e, rientrato nel suo monastero, centellina le occasioni pubbliche. Per questo siamo curiosi di interpellarla su tre questioni in qualche modo fondamentali: come sta il mondo, come sta la Chiesa e… come sta lei?
Il teologo sorride, di cuore, e chiede: «…e in che ordine cominciamo?».
- Cominciamo dal mondo; un mondo che sta cambiando con una velocità inusitata e in profondità. Soprattutto ci interroghiamo su quello che ci sembra il cambiamento più importante, ben oltre la globalizzazione o la digitalizzazione, cioè il cambiamento antropologico. In una recente intervista al nostro giornale, il cardinale Hollerich ha detto: «Ho paura che la nostra pastorale parli a un uomo e una donna che non esistono più».
Sono molto d’accordo con questa affermazione. Le dirò di più: siamo confinati in un’insignificanza totale nel mondo occidentale attuale. Ovviamente il mio è un punto di osservazione molto parziale, però mi sforzo di accompagnare e comprendere le vicissitudini dei tempi che viviamo, della profonda mutazione della società e direi della «stoffa» umana. Vorrei essere preciso su questo punto: non ho la pretesa di avere ragione, ma di offrire prospettive, di allargare il raggio delle nostre intuizioni.
Vado un po’ indietro, all’inizio della contraddittorietà dei tempi correnti. Come per un vostro regista famoso, mi torna il ricordo di me giovinetto al tempo dell’invasione russa dell’Ungheria e lo stato inerme dell’occidente in quell’occasione storica. E più tardi, nel Sessantotto, quell’altra contraddizione storica: i giovani cechi che a mani nude fronteggiavano nelle vie di Praga i carri armati sovietici e, dall’altro lato, i giovani occidentali che, all’opposto, nelle università europee inneggiavano a Mao Dse Dong. Contraddizioni che a volte convergevano nell’ispirazione e nello stile. La diversità e l’impatto (mancante?) di mondi incompatibili che non si guardano: questo mi ha sempre attirato e spaventato.
Così una costellazione del tutto asimmetrica agli albori del mio soggiorno romano: vidi sfilare una madornale manifestazione sindacale, un milione di persone in Piazza San Giovanni contro l’abolizione della scala mobile. Rimasi molto turbato, scosso, dalla passione estrema che i manifestanti mostravano nel difendere un istituto che già solo il buon senso chiedeva di modificare. Non mi ero ancora ripreso dal turbamento che mi ritrovai nel pomeriggio in un modo del tutto diverso nei pressi del Vaticano. E anche lì fui investito da una folla vociante — più piccola e moderata — con la medesima intensità. L’occasione era la dedicazione del mondo alla Madonna di Fatima. La coesistenza di questi due mondi nel medesimo giorno e nella medesima città mi fece riflettere. Da fenomenologo mi sentivo da questi eventi suscitato, spesso spaventato, a volte animato, sempre sfidato.
Con lo stesso approccio incuriosito ho accompagnato la grande stagione del Concilio Vaticano II. Con uno sguardo disincantato, perché da giovane non appartenevo tanto all’ambiente ecclesiale, non ho mai fatto il chierichetto o il catechista, decisi di studiare la teologia solo alla fine del liceo. E, ad esser sinceri, credo che in tale scelta più che la mia volontà abbia giocato uno di quei moti estemporanei e paradossali che spesso usa lo Spirito Santo: fu l’idea della Trinità ad attrarmi. La stessa Chiesa non mancava di evolversi in un’apparente distonia di immagini: dalla figura austera e ieratica, che sembrava uscita da un libro di Thomas Mann, di Pio XII a quella del contadino bonario e grassottello di Roncalli (così ricordo il giorno della sua elezione davanti alla televisione, in osteria).
- Ogni papa è un unicum, con un proprio stile. E questa è senz’altro una ricchezza. In fondo è una storia che si è ripetuta anche 10 anni fa.
Esattamente. È proprio così. Questi cambi di passo sono piuttosto salutari. Lo dico anche dal punto di vista della mia esperienza di monaco. Un convento saggio elegge sempre un abate che abbia caratteristiche opposte al suo predecessore. Perché il cambiamento è sempre positivo e non bisogna averne paura.
Ma torniamo alla domanda iniziale. Cos’è che è peculiare dei tempi attuali alla luce di tutti questi cambiamenti che abbiamo vissuto negli ultimi 60 anni? Mi sembra che siamo giunti ad un capolinea, ad una soglia, ad un limite dello stile di vita che l’uomo ha assunto negli ultimi decenni. È lo stile di quello che io definisco l’«uomo democratico», che non è una mera forma politica, ma l’indole intrinseca allo stile dell’uomo contemporaneo.
L’uomo democratico è colui che democratizza tutto, che, rappresentando una costellazione di minoranze e relativi diritti, finisce all’opposto con il minare le basi della democrazia, come forma organizzata del vivere civile. Così, ad esempio, i partiti si (con)fondono nei movimenti, come insegnano le esperienze in Italia di Berlusconi o dei Cinque Stelle, in Francia di Macron e En Marche, Podemos in Spagna, e i Grünen o l’estrema destra da noi in Germania. L’altra faccia di questa fluidità organizzativa è l’emersione degli «uomini forti»: Trump, Erdogan, Morawiecki, Orban, Xi Jinping, solo per citarne alcuni. Cioè l’uomo democratico, al tempo stesso, porta a compimento, ma anche consuma e distrugge l’assetto democratico.
Negli anni Novanta del secolo scorso si credeva che la democrazia dei diritti fosse la carta vincente in politica, ma questa idea ha soltanto generato una cultura improntata al manicheismo, che ha danneggiato la democrazia. E non solo essa, perché questo manicheismo sorto tra i partiti e nei partiti, si è poi esteso alla cultura e alla società provocando quella polarizzazione globale che è la vera cifra dei nostri tempi. Un manicheismo, e una polarizzazione, che ha contagiato anche i vescovi e la Chiesa.
Non è un caso che la tendenza al totalitarismo pervada gran parte del mondo, indifferentemente dalle diverse condizioni storiche e sociali. Mi sorprende — e mi conferma — il caso di Israele, che è paradigmatico di questo fenomeno: l’unica democrazia del Medio Oriente, che eppure rischia l’implosione dinanzi alle spinte congiunte della polarizzazione e dell’autoritarismo. Siamo di fronte ad un fenomeno planetario, che come tale dovrebbe interpellarci seriamente. E chiederci come l’uomo democratico possa invertire la prospettiva e ricostruire una forma istituzionale basata sulla rappresentatività.
La stessa dicotomia la attraversa la religione: siamo agnostici e spirituali. I due pericoli da cui continuamente ci mette in guardia papa Francesco: neopelagianesimo e neognosticismo. Per cui la religiosità comune ondeggia dal sincretismo orientaleggiante al rigorismo fanatico, e via dicendo attraverso un campionario spirituale da supermarket. E anche qui la domanda è come l’uomo, agnostico o spiritualizzante, possa ritrovare una formattazione istituzionale perché la religione possa esprimersi.
Siamo oggi però ancora dentro la fase distruttiva; pensate alle perplessità ormai dominanti sulla forma ontologica, giuridica e misterica dei sacramenti. La prassi sacramentale sta per affondare. Ma cosa mettere al suo posto? Non lo sappiamo. Sono problemi seri per il mondo e per la Chiesa. E sono problemi seri anche per il singolo individuo «uomo democratico». Pensate al culto della «grande salute», al mito della longevità; siamo ancora figli a 70 anni, come descrive gustosamente nei suoi libri Armando Matteo. Siamo saturi e sfibrati così che la parola «redenzione» torni in mente solo un minuto prima di morire. C’è una diffusa disperazione dietro lo schermo, il velo, della perenne vitalità. Il mito della fitness e dell’eterna gioventù nascondono un’angoscia esistenziale, che si esprime, ad esempio, nel dibattito sull’eutanasia e sul fine vita.
Abbiamo strapazzato la vita, e la vita ora si prende la sua vendetta. Il fatto è che il nostro moralismo ecclesiale non aiuta a entrare nella carne ferita di questa angoscia. La stessa dinamica di pensiero vale per l’ecologia: abbiamo perso l’escatologia, e ora la recuperiamo nelle sembianze di una colpevole catastrofe. Vogliamo ovviare alla catastrofe con mezzi che non basteranno mai, e questo crea un misto di fanatismo e di rassegnazione sconsolata. E lo stesso vale per la giustizia: l’uomo democratico vuole rendere giustizia alla singolarità di ciascuno e all’uguaglianza di tutti. Ma nessuno può reggere a questa pretesa, a questo dogma del Sessantotto che era uno sposalizio tra liberalismo e socialismo e che ci ha messo alle strette nella sua contraddittorietà.
E ancora lo stesso vale per la sensibilità. Un termine che negli anni della mia gioventù suonava quasi come un’offesa. Mentre oggi è un imperativo essere sensibili alla sensibilità di ciascuno, di ogni minoranza e contro-minoranza. Sia chiaro, è una grande conquista dell’umanità, che discende da una nuova storiografia introdotta dalla scuola di Francoforte e dal trauma della Shoah. Ma il punto è che oggi ognuno si sente minoranza e vittima di qualcosa. Insomma, hanno vinto le minoranze, così che non esistono più maggioranze: la democrazia si distrugge da sé per causa dell’uomo democratico, che vanta la rappresentatività di ciascuno e odia la mediazione.
- Se questa quindi è la sua visione del mondo attuale, passando alla seconda questione: come stanno oggi le religioni, come sta la Chiesa?
C’è un nesso immediato tra quanto ho detto finora e lo stato delle religioni. Se negli anni della mia gioventù la Chiesa istituzionale in Occidente rappresentava il paradigma, l’orizzonte della cultura e della politica — anche di chi gli si opponeva —, sta precipitando inesorabilmente verso un abisso. Eravamo alle vette dell’apprezzamento sociale, oggi siamo considerati di infima rilevanza, stiamo finendo nel dimenticatoio della vita quotidiana.
- Papa Francesco questo lo ha evidenziato senza mezzi termini. La cristianità è finita. E forse questo è anche provvidenziale, perché ci offre un’opportunità di purificazione…
Esattamente. Il Papa ha ragione. Siamo condannati o forse beneficiati alla marginalità. Siamo alla ricerca di un’altra prassi. Ma quale? È facile a dirsi. Difficile individuarla. Forse impossibile. Se non allo Spirito. Come vivere una religione che ha la pretesa di essere veritiera e vera, accettando di essere inascoltati dalla maggioranza degli uomini e donne, senza diventare una denominazione settaria, piagnucolosa e autocompiacente? E, ancor più, quale forma di rappresentatività istituzionale dovrebbe avere un nuovo modo di vivere e professarsi cristiani? Quale forma riconoscere alla liturgia e ai sacramenti, che deve essere sì umana, ma non solo umanistica.
E qui arriviamo al compimento oggettivo del Vaticano II. Perché il problema non è ormai attuare il Vaticano II, ma inventare una cosa nuova. Lo stile dei commenti e dell’ermeneutica al Vaticano II è uno stesso stile aperto alla vita, e al mondo. Nostra aetate ne è forse la novità più evidente. Il Concilio ha portato sicuramente a una umanizzazione del messaggio, a una spiritualizzazione in chiave lucana, viviamo l’era del terzo Vangelo, un passaggio drammatico e straordinario che ha percorso in parallelo alla mia vita.
Ma questa umanizzazione non ci ha reso più umani, cioè, voglio dire, non ha dato un profilo al mistero. L’Eucarestia oggi è «pasto fraterno», bene, ma che ne abbiamo fatto del Mistero, della presenza reale, dell’attualizzazione della passione di Gesù? Si è spinta la tensione alla comprensibilità del Mistero fino a smarrirlo come tale. Così il cristiano umanizzato scalza l’impianto dei misteri e con essi il ruolo della Chiesa. È un’azione parallela a quanto dicevo sopra sull’uomo democratico.
Siamo passati dal Dio Padre che è onnipotente, al Gesù che è Signore e Re, poi al Logos che è l’approccio teologico alla verità della Bibbia, e poi al Cristo kenotico di von Balthasar, e il Dio Umano, e poi il Gesù scapigliato, profeta e rivoluzionario del Sessantotto, poi ancora il Fratello che cammina con noi, come noi forse senza più un’aura divina… Tante immagini di Dio che seguono l’evoluzione dell’uomo democratico.
Lo stesso vale per la Chiesa: dalla parrocchia, alla famiglia parrocchiale, poi alla comunità. Ma una parrocchia non è una comunità: cinquemila persone non fanno comunità. Così come un monastero benedettino non è una comunità, può avere momenti comunitari, auspicabili certo, ma io mi sono fatto monaco per seguire una regola di vita non per entrare in una comunità.
- Questa sua ultima affermazione ci suscita un’ulteriore domanda: i cambiamenti epocali, come quello che stiamo vivendo, hanno sempre visto una presenza attiva dei monaci che facilitavano il transito al nuovo con la preservazione della ricchezza dell’antico. Oggi questo non sembra più proponibile, il monachesimo istituzionale è anch’esso in profonda crisi.
Verissimo; il monachesimo istituzionale attraversa una crisi abissale, forse irreversibile. Questo processo di accompagnamento dall’antico al nuovo alcuni di noi, in modo umile e non appariscente, lo svolgono anche oggi. Penso per esempio a quei monasteri che svolgono un ruolo di dialogo col mondo protestante, o anche a me stesso nel mio piccolo lavoro di accompagnamento dei preti che hanno lasciato. Ma sicuramente, nel complesso, non siamo più le levatrici del nuovo. Non perché ce ne manchino le forze, ma semplicemente perché non sappiamo cosa proporre. Anche le nuove forme di vita religiosa contemplativa e secolare sorte dopo il Concilio, mi sembra che non godano di vita migliore, anzi a tratti mi sembrano più anacronistiche di noi.
- Insomma, sembrerebbe che fu buon profeta suo padre, secondo il noto aneddoto per cui, quando lo informò della sua decisione di farsi monaco cattolico, rispose, pur rispettando la sua scelta, «Elmar, ti imbarchi su una nave che sta affondando», o no?
(ridendo) Sì, proprio così! Ho un vivido ricordo di quell’episodio. Fu a Villa Celimontana nell’aprile del 1966. Io non risposi nulla a mio padre. Non per rispetto, ma perché sapevo già allora che aveva ragione. Ma, al tempo stesso, sentivo che dovevo prendere quella strada. Nulla me lo avrebbe impedito. È la forza ineludibile dello Spirito Santo sulle nostre vite. Ogni volta che torno a Roma faccio una passeggiata a Villa Celimontana e mi siedo su quella panchina che c’è ancora, e immagino di parlare a mio padre dicendo: «Sì, hai avuto perfettamente ragione… ma io ancora di più!».
- Questa sua visione dell’uomo democratico che consuma la democrazia, e, in parallelo, del cristiano spiritualizzante e umanizzato, fa tornare alla mente quel Umano, troppo umano di Friedrich Nietzsche. Troppo umanesimo disumanizza?
Sì, il rischio c’è. E aggiungo che andando al limite di questa umanizzazione non si salva né l’uomo né la classicità. Non si salva la democrazia, e non si salva il Mistero.
- Aveva quindi ragione Heidegger che diceva che solo un Dio ci può salvare?
Non scordiamoci che Heidegger era un ex chierichetto e figlio di un sagrestano! Scherzi a parte, aveva un fiuto infallibile, e si è conservato in tutta la sua enigmaticità. Aveva comunque un senso del sacro, ha creato una sua mitologia privata, in qualche modo ha precorso il movimento che qui ho descritto. Salta il cristianesimo in nome di una religione esistenzialista, ontologica, mitologica e qui, lungo il crinale dell’esistenzialismo, si apre una pista interessante che porta in Francia che, dal punto di vista religioso, ha già alle spalle molte delle vicissitudini che stiamo attraversando negli altri paesi europei; in qualche modo i francesi sono un laboratorio. E questo mi induce a pensare a un altro problema che è quello della regionalizzazione del cristianesimo. In Francia il cristianesimo è già imploso ed esploso; noi siamo ancora nella fase dell’implosione. Il Sinodo è in tal senso un intervento necessario e d’emergenza; peccato che nel mio paese si sia scelto di dargli un programma a priori, e questo è stato il suo prevedibile limite.
Interessante, da questo punto di vista, la proposta di Remi Brague che ne Il futuro dell’Occidente auspica un ritorno alla Romanitas. I Romani sono stati straordinari nel saper assumere nazioni, tradizioni, religioni, filosofie; assumevano e trasformavano. Così che pure Paolo poteva dirsi cittadino romano, e, pur essendo un rabbino fariseo, poteva appellarsi all’imperatore. È lo spazio «dell’uno accanto all’altro», che fu la vera formula vincente dei romani, assai più delle conquiste militari. In questo senso credo dovremmo recuperare la Romanitas: l’ospitalità come gesto di debolezza feconda. L’ospitalità come gesto di disarmo. Sicuramente un gesto che è sfidato dalla precarietà, e per questo deve essere corroborato dalla preghiera, dal coraggio. Ci vuole più coraggio ad ospitare che a respingere. Il rifiuto è espressione di debolezza.
Gesù non ha scritto niente, non ha voluto essere filosofo di sé, né docente di dogmatica o di morale. Ma ha dato una spinta, uno scandalo (in tedesco sono la stessa parola: Anstoß), un fermento, e poi ha lasciato agire lo Spirito. Senza lo Spirito, la Chiesa non sarebbe esistita e non potrebbe oggi esistere. Uno statuto «romano» e cristiano sarebbe una grande svolta per la Chiesa, ma anche per l’umanità. La Chiesa, ancorché minoritaria, tornerebbe ad essere sale della terra. In fondo è quello che sta cercando di fare Papa Francesco. Certo, non ci sono garanzie, ma noi, come lui, confidiamo nell’azione dello Spirito. Una struttura di cristianesimo esposto, dove la «debolezza» viene riconosciuta, accettata, accolta, attraversata, per far nascere un altro tipo di forza trasformante.
È la nuova frontiera dell’evangelizzazione della società. Essere forti senza essere potenti. Essere veritieri senza essere fanatici. Avere un senso per l’estetica senza essere estetici. Avere un senso per la rettitudine senza essere moralisti. Essere uno, ma non senza l’altro. Mai senza l’altro, come diceva De Certeau, un altro genio francese oggi sempre più attuale e prezioso in questa ricerca per trovare un contegno umano di una minoranza che vive dentro una nuova società.
- Papa Francesco è dunque il primo capitolo di questa nuova avventura del cristianesimo?
Senz’altro sì. È il primo capitolo, ma è costretto a essere anche l’ultimo del vecchio mondo, perché conciliare il carisma con il governo di un’«azienda» come la nostra è un’impresa ai limiti della proponibilità. Solo così si comprendono anche i suoi aspetti drammatici. Lui si è imbarcato in questa impresa, che è una scommessa aperta pascaliana. E dobbiamo scommettere con lui, perché altro non abbiamo.
Tutto questo implica inevitabilmente un ripensamento anche dei fondamentali della teologia. È necessario, infatti, che noi tutti facciamo un esercizio di verità, altrimenti non ci ascolta più nessuno. Abbandonare già nella lettura fenomenologica quel lessico un po’ fiabesco, da un lato, sdolcinato e, dall’altro, aspro, che per esempio, ci fa dire che la vita è un dono. La vita non è un dono, o almeno non è percepita tale. È più giusto parlare di un «pre-dato». Se non siamo sinceri con i nostri interlocutori, abbiamo già perso questa gara tra umanesimo e religione.
Oppure pensiamo all’obnubilazione del sacrificio nel linguaggio teologico corrente, come fosse qualcosa di scomodo. Al contrario Gesù ha attraversato la pena, nella storia drammatica della passione non è mai eroe né vittima, ma, al contempo, signorile e abbandonato. Se non consideriamo la sua sofferenza con il grido, con la sete, la sua pressione escatologica e metafisica, non comprendiamo la penosità della nostra limitatezza. È da questa penosità che si apre uno spiraglio per il futuro, «non guardate a me, andate avanti, camminate insieme»; esorta Maria e Giovanni sulla croce. E apre legittimità al consenso in manus tuas commendo spiritum meum è l’affidamento, che è sinonimo di libertà. Quella libertà minacciata e vilipesa oggi dal mondo all’uomo.
- E allora veniamo alla terza questione: cioè a lei padre Salmann, al suo percorso. Ci sembra di capire che il suo sguardo teologico si rivolga oggi sempre più ad ovest, verso la Francia, giusto?
Devo riconoscere che già al liceo mi sentivo un po’ francofilo. Lo scorso anno ho passato i 50 anni della mia ordinazione, in silenzio, in sordina. Non ho «celebrato una festa» come si usa da voi in Italia. Perché non c’è niente da celebrare, semmai da ripensare. E non una festa. Non per falsa modestia. Ma Gesù ad Emmaus non celebra una festa; sparisce invece agli occhi dei discepoli e lascia che sia lo Spirito a guidarli sulla strada del Kerigma.
Ho attraversato nella mia vita stagioni politiche, sociali, culturali, ecclesiali, sempre con una serenità malinconica, scuotendo un po’ il capo dinanzi a un divenire spesso squilibrante, cercando sempre uno stile che ovviasse a ciò. Uno stile che definisco da barcaiolo, da interprete, da fautore del transfert, di un linguaggio ecclesiale antico e misterico, intrapersonale e psicanalitico, proteso allo scambio dei doni, e in bilico tra lingua e realtà, vivendo fra le sponde del Mistero, che conosco nella sua classicità, e le diverse frange del mondo post-democratico, che guardo con simpatia critica. E mi sono fatto avvocato dell’uno e dell’altro.
Ci sono tanti mondi diversi nella Chiesa, popolo di Dio, e mi sono adoperato a cercare di dar loro una voce, e insieme cercare tocchi, musiche, che intuiscano la sapienza della vita, i misteri cristiani e il Dio che viene invocato, questa invocazione creaturale. Se dovessi riassumere il senso del mio insegnare e lavorare, potrei dire: ho cercato di contribuire a che il Dio cristiano possa fare bella figura nella storia del pensare ed agire umano, e di chiedermi perché questo risulta tanto difficile.
- In tutti questi aggettivi che si è attribuito manca però quello che più le è riconosciuto: padre, lei che è acclamato «padre» di una generazione di teologi.
Beh sì, è vero. Non sono fratello. E al tempo stesso non ho i baffi o la gentilezza del padre. Certo, cerco di essere gentile, ma in modo signorile, anche in convento do a quasi tutti del «lei». Sono un uomo del «lei», se vogliamo, un borghese benedettino. Con sprazzi di gesuitismo. E forse di laicità, perché senza uno sguardo da fuori non si combina molto oggi.
Un’ultima battuta. Non rinnego nulla della mia vita e della mia provenienza borghese e imprenditoriale. Tutti mi chiedono perché ho lasciato l’insegnamento e Roma per ritrovarmi di nuovo in convento. Ma queste due cose non si oppongono ma completano. Io sono in sintonia con la finitezza, con la contingenza. Forse, se vivrò a lungo, penso che il mio convento sparirà; ma questo non mi spaventa. E non sono neanche stoico. Accolgo le variazioni della contingenza, come benedizione di Dio.
Anche la Chiesa è contingente: in cielo non ci sono templi e sacerdoti. E non ci sono neanche benedettini, con mio grande sollievo… e chissà, forse non ci sono nemmeno i gesuiti. Anche se loro rispuntano sempre!
- Dal sito de L’Osservatore Romano, 14 giugno 2023
Bellissima intervista. A volte leggo la ricchezza di interventi che questo sito propone e mi spiace pensare che non riusciamo a farli vivere davvero, dentro e fuori la Chiesa, a farne tesoro o semplicemente sintesi perché persi in tante minuscole rivalità.
Questo teologo benedettino che si autodefinisce ” borghese” e che sembra molto scettico sul ” progresso” della democrazia, dice una cosa verissima : siamo arrivati al capolinea e bisogna cambiare.
Solo che ,dice, non sappiamo cosa proporre.
Infatti e’ qui la difficolta’ di una Chiesa che si e’ umanizzata a tal punto da eliminare il Mistero.
Cosa proporre al posto dei Sacramenti ,al posto della Liturgia ? L’ intelligenza umana si trova al capolinea anche in campo religioso.. Mi pare che la risposta del saggio benedettino sia la piu’ ” tradizionale” possibile ; solo dallo Spirito Santo verra’ fuori il cambiamento non certo dai programmi umani ,sinodali o meno.
” Io faccio nuove tutte le cose” dice il Signore .