La Conferenza dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale sta promuovendo manifestazioni territoriali di sensibilizzazione sulla condizione carceraria italiana, che sta determinando un numero mai raggiunto di suicidi. In questa occasione, abbiamo chiesto al dottor Francesco Maisto – già Magistrato di sorveglianza e oggi Garante per i diritti dei detenuti dell Comune di Milano – di rispondere ad alcune nostre domande.
- Dottor Maisto, perché le manifestazioni promosse dai Garanti cadono in questo 18 aprile?
Abbiamo individuato questa data perché ad un mese esatto dal 18 marzo, quando il Presidente della Repubblica, ricevendo il Corpo di Polizia Penitenziaria, chiese interventi urgenti per far fronte al drammatico problema dei suicidi in carcere; è trascorso, appunto, un mese, ma interventi urgenti non se ne sono visti. Dal momento del pronunciamento del Presidente, anzi, si sono verificati altri suicidi, cosicché, ad oggi, contiamo 34 suicidi, dall’inizio dell’anno: 30 di detenuti e 4 agenti di Polizia Penitenziaria.
Il nostro proposito, pertanto, è di ripetere manifestazioni ogni mese – sempre in data 18 – sinché non accadrà qualcosa di significativo. Lo stillicidio di morte a cui assistiamo è insopportabile ed è proporzionale alla insopportabilità del sistema detentivo attuale del nostro Paese. La società civile, la comunità, tutte le istituzioni centrali e periferiche devono sapere.
- Come si svolgeranno queste manifestazioni?
Ogni Garante ha individuato luoghi e modalità proprie, ma con tratti comuni. Ovunque, alle ore 12 del 18 aprile, leggeremo l’Appello della Conferenza nazionale dei Garanti: «Stop suicidi in carcere» e poi i nomi dei 30 detenuti e dei 4 agenti; chiederemo, spiegandone le ragioni, attenzione per la vita in carcere con gli interventi normativi e organizzativi conseguenti, rispettivamente di competenza del Parlamento e del Ministro. A Milano manifesteremo sulla scalinata anteriore e centrale del Palazzo di Giustizia.
- Dunque, perché tanti suicidi in carcere?
Non tutti i suicidi, naturalmente, sono ascrivibili alle condizioni generali del sistema penitenziario. Possono aver influito anche ragioni molto personali come le patologie. Sta di fatto che, se andiamo ad esaminare la curva storica dei suicidi in carcere, ciò che balza immediatamente agli occhi è il netto decremento avvenuto dal 2012 al 2018, ossia nel periodo in cui, per effetto congiunto delle normative intervenute, venne tanto ridotto – notevolmente – il sovraffollamento carcerario, quanto resa meno rigorosa, per possibilità di movimento, la vita quotidiana del detenuto tra cella e spazi limitrofi. È quindi possibile stabilire una chiara correlazione tra stato di affollamento e suicidi. Mentre ciò che si fa, a titolo di attività di prevenzione, evidentemente, non basta.
- Cosa aveva prodotto l’effetto positivo tra il 2012 e il 2018?
Le condizioni di vita divennero meno penose per effetto tanto della riduzione del numero dei detenuti, quanto per l’accettabilità delle restrizioni. In particolare, una Circolare del 25 novembre 2011 introdusse la cosiddetta sorveglianza dinamica, con la quale non si sarebbe potuto più costringere i detenuti in cella per 20 ore al giorno, tranne le ore di aria. Semplificando molto, quella Circolare aveva introdotto il regime, denominato in modo denigratorio, delle celle aperte, prevedendo anche maggiori attività trattamentali, cioè rieducative.
Ora, per effetto dell’applicazione improvvisa e decontestualizzata della Circolare dell’agosto del 2022 sulla cosiddetta media sicurezza, rimasta inapplicata per anni, si è ritornati al regime precedente al 2011, ossia a quello semplificato dalla espressione celle chiuse. È indubbio che il regime delle celle aperte, contestuale all’incremento delle attività di prevenzione, avesse determinato, un beneficio, contribuendo a ridurre sensibilmente il numero dei suicidi. Tra il 2012 e il 2018, dunque, è stato colto l’effetto combinato e positivo della riduzione dell’affollamento e della introduzione delle celle aperte.
- Come fu possibile ridurre, allora, il sovraffollamento in carcere?
Devo premettere la circostanza storica. La Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia – con la «Sentenza Torreggiani» (gennaio 2013), dal nome del ricorrente – per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea. Tale Convenzione non ammette sanzioni ai detenuti che possano essere assimilate alla tortura. Nel caso, la Corte equiparò la riduzione degli spazi di vita nelle celle a «trattamento inumano e degradante», quindi alla tortura. L’Italia, perciò, mise in atto la liberazione anticipata speciale, che è un tipo di riduzione della pena detentiva, che ha prodotto gli effetti auspicati.
- Siamo ricaduti nella situazione carceraria precedente?
Si stanno precisamente verificando le condizioni precedenti la Circolare del 2011 (celle aperte) e la «Sentenza Torreggiani» del 2013. Attualmente, nelle nostre carceri vivono 61.000 detenuti, a fronte di 47.000 posti regolamentari. Si può e si deve parlare di grave sovraffollamento e perciò di mancanza di rispetto dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale.
- Quindi, precisamente, cosa chiedono i Garanti?
Rispondo con una considerazione che mi sta particolarmente a cuore. Tutti noi abbiamo bisogno di dare un senso al tempo della nostra vita. Ecco: il grande problema della vita in carcere è il tempo vuoto, che certamente non incoraggia a vivere. Per questo dovrebbero essere offerte ai detenuti le cosiddette attività trattamentali, ossia ogni tipo di attività culturale, sportiva, ricreativa, di socializzazione, anche lavorativa, in grado di conferire una direzione e un senso vitale alla vita stessa.
- Cosa si può fare, subito?
Ciò che si può fare subito, dentro al carcere, è incrementare e facilitare i rapporti con i famigliari, attraverso il telefono e le video-chiamate. È molto importante per i detenuti. L’Amministrazione Penitenziaria si era impegnata, qualche mese fa, a rendere possibile un maggior numero di contatti telefonici coi familiari, ma tale impegno non viene mantenuto.
Poi, si possono incrementare gli aspetti relazionali, non solo col personale a disposizione, ma, anche con i volontari che frequentano il mondo carcerario. Poter anche solo parlare con qualcuno che viene da fuori, che dia una speranza, che prospetti una vita serena, è importante per un detenuto o una detenuta.
Certo, c’è pure un gran bisogno di incrementare il personale specializzato: psicologi, educatori, assistenti sociali ecc. Serve tempo per i concorsi e le assunzioni, ma qualcosa si potrebbe cercare di fare subito, ricorrendo a personale volontario o a gettone, da Enti locali e Volontariato.
Insomma, si può e si deve fare presto per lenire l’intollerabile sofferenza umana che si sta espandendo in carcere. Se i detenuti restano costretti in cella per 20 ore al giorno e il loro tempo resta vuoto, tale sofferenza non può che esorbitare e dar luogo ad esiti tragici.
- Questo è quanto si può fare dentro al carcere. E fuori?
Gli Uffici dei Magistrati di Sorveglianza, se fossero dotati di maggiori risorse, soprattutto umane, potrebbero, in maniera più efficace, applicare tante più misure alternative alla detenzione. Gran parte della popolazione carceraria è costituita da persone che devono scontare pene pari o inferiori ai 3 anni che, spesso, potrebbero godere, quindi, delle alternative alla detenzione, con grande alleggerimento per loro e per le strutture carcerarie. Chiaro, poi, che noi attendiamo che il Governo e il Parlamento facciano la loro parte, procedendo, al più presto, con misure sia pure transitorie, che abbiano carattere deflattivo della situazione carceraria, così come avvenne all’indomani della «Sentenza Torreggiani».
- Come potrebbe intervenire il Parlamento?
C’è un appello di Piero Calamandrei che vorremmo ricordare ai nostri parlamentari, oggi: «Bisogna vederle le carceri, bisogna esserci stati, bisogna rendersene conto». Stiamo invitando i parlamentari, proprio con queste iniziative, a venire in carcere a vedere, a rendersi conto di persona di come si vive dentro.
Stiamo seguendo, peraltro, con attenzione, le inutili lungaggini di un importante e risolutivo, per tempi medi, progetto di legge, ispirato dalla formula della liberazione anticipata speciale, cioè dall’incremento della riduzione della pena, del tutto oggi giustificato dalle condizioni in cui avviene l’esecuzione penale. Basterebbero lievi correzioni sulla competenza per approvarlo senza timore di pietismo o di benevolenza per i detenuti.
Si consideri, infatti, che la situazione descritta sta infliggendo una pena ulteriore, non prevista dal giudice all’atto della sentenza di condanna, per cui il tempo della detenzione genera una sofferenza supplementare che potrebbe e dovrebbe comportare, giustamente, una riduzione del tempo della pena. La responsabilità è dello Stato che non riesce a garantire le condizioni ordinarie – di legge – della pena.
- Tra i suicidi ci sono anche quelli di agenti di polizia penitenziaria…
Certamente, tutto il personale sta soffrendo. Consideriamo che una situazione straordinaria viene affrontata con gli organici previsti per una situazione ordinaria.
- Perché non si sta ancora facendo quanto si dovrebbe?
La Professoressa Cartabia – Ministro del Governo Draghi e Presidente emerito della Corte Costituzionale – con l’allora capo della Amministrazione Penitenziaria, aveva una idea ben precisa di ciò che dovrebbe essere un sistema penitenziario compatibile con la Costituzione. E aveva iniziato a fare un lavoro impegnativo, progressivo, nell’intento di riuscire a portarlo a termine. Poi è cambiato il Governo. Ed è tornata la situazione precedente.
- Lei ritiene che l’attuale Governo voglia presto mettere mano alla situazione descritta?
Sinora non abbiamo colto alcun segno in tal senso. Perciò i Garanti oggi manifestano.