Alessandro Cadorin è operatore di Caritas Italiana e si trova nella Turchia terremotata. Ci aggiorna sulla situazione. Le domande dell’intervista sono di Giordano Cavallari.
- Alessandro, l’ultima volta che ci siamo sentiti, il 10 marzo scorso (qui) eri a Mersin, nella zona più colpita dal terremoto della Turchia (e della Siria) del 6 febbraio. Qual è il bilancio ora?
In Turchia si contano più di 50.000 vittime e 170.000 feriti. Le persone direttamente colpite da questo terremoto sono più di 9 milioni, di cui 3 milioni sfollate. Le scosse sono finalmente cessate, tuttavia il trauma per quanto accaduto ha lasciato ferite profonde nella psiche, oltre che sulla pelle, mentre tutta la zona permane ad alto rischio sismico.
- Tutti gli edifici crollati sono stati esplorati – soprattutto per recuperare i resti umani – e le macerie smaltite?
A qualche mese dalle scosse più devastanti le operazioni sono ancora in corso. Sussiste l’enorme problema dello smaltimento delle macerie, che sta dando origine a seri problemi sia di carattere sanitario che ambientale. Secondo le stime fatte dalle Nazioni Unite, il terremoto ha prodotto sino a 210 milioni di tonnellate di macerie e la demolizione degli edifici è ancora in corso.
Nella zona di Samandag, provincia di Hatay, sono già state allestite 20 discariche di detriti e il traffico di camion che trasportano macerie è incessante. C’è un forte rischio che dai cumuli di macerie si sollevino sostanze tossiche, per esempio fibre di amianto, che potrebbero avere gravi conseguenze sull’ambiente e sulle condizioni sanitarie della popolazione che vive ancora nei campi. La popolazione di Samandag e di altre aree colpite sta già lamentando problemi respiratori ed eruzioni cutanee. Sì, è probabile che resti umani siano rimasti tra le macerie…
- Cosa stai osservando?
Solo le città che non hanno subito danni irreparabili alle infrastrutture – penso ad esempio a Gaziantep – stanno tornando gradualmente alla «normalità», mentre, più timidamente, sta tornando a vivere, ad esempio, Iskenderun, molto più danneggiata: alcuni negozi hanno comunque riaperto e si ricomincia a vedere la gente per le strade. Nei primi mesi la situazione era spettrale. Si vedevano in giro solo i militari. Nella provincia di Hatay – dove soprattutto lavoro – i danni sono evidenti e numerosi sono i campi di sfollati che, per lo più, vivono nelle tende, con qualche «fortunato» che sta nei container.
Antochia e Samandag sono invece città distrutte: difficilmente potranno riprendersi allo stesso modo. Ai campi gestiti dalla protezione civile locale si aggiungono piccole tendopoli informali, alcune in zone remote, dove difficilmente possono arrivare costantemente gli aiuti. Si conta che siano circa un milione e settecentomila le persone che si sono rifugiate in insediamenti improvvisati.
La situazione rimane, in generale, molto pesante. Agli sfollati nei campi bisogna provvedere in tutto. Per di più l’estate è particolarmente calda e afosa in quell’area della Turchia. L’arrivo dell’estate e l’aumento delle temperature acuiranno senza dubbio le sofferenze della popolazione, peggiorando le condizioni di vita quotidiana, specie dei bambini. Alto è il rischio di epidemie a causa della scarsità di accesso all’acqua e ai servizi igienici.
- Quali interventi sta promuovendo Caritas?
Caritas Italiana a fianco della Caritas in Turchia è presente soprattutto nella provincia di Hatay ove si stanno prestando attività essenziali di assistenza alimentare, igienica e, già in vista del periodo invernale, di vestiti, coperte e stufe. Ma non solo. Soprattutto ad Ovakent – un campo di sfollati presso la cittadina popolata da una minoranza afgana di provenienza uzbeca – la Caritas locale ha installato i bagni, una cucina, spazi di socializzazione, promuovendo quindi attività di cucito per le donne.
Inizierà, inoltre, a breve una collaborazione con la Mezza Luna Rossa Turca per fornire maggiori quantità di cibo, ancora insufficiente. Come dicevo nei campi le persone hanno ancora bisogno di tutto.
In altre diocesi, come Smirne e Istanbul, la Caritas non sta a guardare: anche lì si cerca di portare l’assistenza essenziale per tanti sfollati dalle zone più terremotate. Caritas Italiana sta avviando una collaborazione con due associazioni locali, Kids Rainbow e AIYD. Kids Rainbow fa attività di educazione e supporto scolastico con i profughi siriani, mentre AIYD fornirà supporto psicosociale in alcuni campi informali in cui la popolazione è particolarmente vulnerabile.
- Quali collaborazioni tra Caritas e organismi governativi, organismi religiosi cattolici e non?
Oltre che con le autorità pubbliche, sia locali – come i governatori delle province – che nazionali, attraverso l’AFAD (protezione civile turca), Caritas ha fin da subito naturalmente collaborato con le Chiese e le comunità locali specie per l’accoglienza degli sfollati. A Instabul proseguono le collaborazioni tradizionali con i salesiani e i francescani. Nel periodo iniziale dell’emergenza molto è stato fatto con i cappuccini di Mersin, presso cui mi trovavo quando ci siamo sentiti la volta scorsa.
- In prospettiva, cosa c’è?
Al momento, i fondi ricevuti dalla colletta nazionale sono impiegati, come ho detto, soprattutto per una prima risposta nell’emergenza, quindi per i bisogni di base della popolazione vittima del terremoto e per quella parte maggiormente vulnerabile.
Le attività di prospettiva e di ripresa, poi, sono tantissime. Ad esempio, a breve si installeranno diversi depuratori d’acqua. Si stanno intraprendono iniziative di supporto psicosociale, specie per i bambini, con molte attività educative. Si stanno attendendo indicazioni da parte del governo per quanto riguarda le ricostruzioni. Come sempre, gran parte delle risorse – dalla generosa colletta nazionale della Chiesa italiana – andranno impiegate, nel tempo, nel superamento dell’emergenza, guardando, con fiducia alla ripartenza di una vita più piena.
- Quale futuro vedi per la gente?
Difficile dirlo. Ci vorranno comunque parecchi anni. Questo terremoto – è bene ricordarcelo – è stato davvero tremendo: intere città e paesi sono distrutti, intere comunità umane sono state costrette a lasciare, non solo le proprie case, ma anche i territori di origine, con conseguenze importanti di sradicamento. Anche per alcune piccole comunità cristiane che costituivano una vera e propria ricchezza economica, sociale e spirituale per quella regione.
La speranza e il lavoro da farsi, naturalmente, vanno nel verso della rigenerazione delle condizioni di un ritorno. Il rischio dell’abbandono e dell’estinzione c’è.
- Sai qualcosa anche dal lato della Siria, tra Turchia e Siria?
Ci sono associazioni locali che operano nella zona siriana occupata dalla Turchia, mentre altre, anche internazionali, operano nel nord della Siria facendo base a Gazientep. Le loro attività sono spesso rischiose, difficilmente relazionabili da parte mia.