Intervista di Giordano Cavallari a Ettore Fusaro, operatore di Caritas Italiana presente in Ucraina, a 1.000 giorni dall’inizio della guerra (24 febbraio 2022), lo scorso 19 novembre.
- Caro Ettore, cosa prevede questa tua nuova missione in Ucraina?
Sono qui dai primi giorni di novembre. Ieri ero a Mukachevo in Transcarpazia, oggi sono a Leopoli, nei prossimi giorni sarò a Zhydaciv, quindi a Kiev, poi a Poltava, verso est. Ho in previsione circa 5.000 chilometri da percorrere in Ucraina per raggiungere i vari centri in cui sono attivi i progetti Caritas. Il ritorno in Italia sarà per Natale. Naturalmente non lavoro da solo, ma con colleghe e colleghi di Caritas Italiana, in rapporto con altre Caritas nazionali europee e in relazione con le Caritas nazionali cattoliche ucraine: quella latina e quella greco-cattolica.
- Quali progetti stai seguendo?
Caritas Italiana in Ucraina è particolarmente impegnata nell’ambito della assistenza sanitaria: dei disabili, di chi abbisogna di protezione psico-sociale, dei minori. Il gruppo è costituito, oltre a me, da altre tre persone.
Più precisamente, una collega – Viviana Calmasini – è di stanza a Lviv e segue un progetto finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano insieme col CUAMM – nota realtà sanitaria della diocesi di Padova – in collaborazione con la Chiesa eparchiale greco-cattolica di Drohobyts per l’assistenza medica post-traumatica di rifugiati e reduci di guerra: a Drohobtys è stato allestito un centro di assistenza specialistica per traumatizzati di guerra.
Altre due colleghe – Francesca Sangaletti e Sarah Maria Galea – fanno base a Kiev e, sempre nell’alveo del finanziamento del Ministero, insieme al VIS (ONG dei padri Salesiani) e coi Salesiani greco-cattolici locali, seguono un programma di servizio al territorio che prevede la costruzione di un centro specialistico riabilitativo a Zytomyr con l’attivazione di cliniche mobili nelle regioni più ad est: Poltava, Kharkiv, Dnipropetrovsk.
Dall’Italia sta arrivando anche un’altra collega per verificare l’efficacia di questo progetto, senz’altro il più grande e impegnativo (anche dal punto di vista amministrativo) che sto coordinando.
Sono impegnato poi a supportare altre e diverse realizzazioni delle due Caritas nazionali ucraine e, quindi, eparchiali e diocesane: nelle cure sanitarie, della salute mentale e nella assistenza sociale dei poveri.
- Qual è il rapporto con le autorità locali?
Il progetto finanziato dal Ministero italiano – e realizzato con le Caritas ucraine – va a supporto delle attività di assistenza svolte dalle amministrazioni pubbliche locali. Dove allestiamo strutture private, queste operano d’intesa e in sinergia con le amministrazioni ucraine. Ad esempio, il centro sanitario di Zytomir va ad integrare il sistema di aiuto alla disabilità della regione. La prospettiva è quella del convenzionamento delle nuove realtà di assistenza col pubblico: anche in Ucraina il sistema di welfare sta andando nel verso della sussidiarietà tra pubblico e privato, ecclesiale e no.
- Reduci, rifugiati, civili, sono assistiti allo stesso modo?
Le risorse che giungono dall’estero in Ucraina attraverso i vari progetti sono per i reduci e per i rifugiati in primo luogo. Ciò sta effettivamente creando qualche malumore nella popolazione civile. Ciò non vuol dire che gli altri civili siano trascurati dal governo, ma secondo le sue possibilità: per il governo ogni vita ha valore in Ucraina e concorre al senso di popolo, che è forte.
Il sistema sanitario ucraino funziona, peraltro, come altrove: ossia chi ha soldi può permettersi la cura in clinica privata e chi non li ha va nell’ospedale pubblico, spesso dotato di mezzi poveri e in strutture fatiscenti. Ma le cure vengono date a tutti, senza discriminazioni.
Certamente l’Ucraina è in economia di guerra e le principali risorse sono dirottate a sostegno dell’esercito; resta poco per l’assistenza sociale. Il welfare deve essere sostenuto dall’estero. È questo il vero problema, soprattutto per prossimo il futuro.
- giorni di guerra, oggi: cosa lasciano?
La caratterizzazione delle opere di misericordia è già un indizio della portata – enorme – dei problemi sanitari, sociali e psicologici lasciati dai 1.000 giorni di guerra; problemi che affliggono una popolazione ucraina davvero «martoriata», come non si stanca di ripetere Papa Francesco.
La causa delle sofferenze sta nella guerra: tanti servizi sono stati bombardati e le risorse per ricostruire e rifarli mancano, mentre la guerra continua. Più passano i giorni, maggiore e profondo si mostra l’impatto duro della guerra sulla gente, sulle famiglie e nelle singole persone. L’impatto psicologico è quello più destante, perché lascia e lascerà solchi profondi, per almeno due generazioni.
Siamo arrivati a questi 1.000 giorni in un crescendo di pesi sempre più difficile da sostenere. Consideriamo, poi, che la guerra sta ora volgendo dalla parte russa. E, con ciò, la paura cresce.
Biden ha dato il via libera all’impiego dei missili americani dall’Ucraina sul territorio russo. Pertanto, qui ci si aspetta una intensificazione del conflitto. Ci si aspetta che i bombardamenti aumentino su tutta l’Ucraina. La gente ha visto quello che è accaduto qualche giorno fa ad Odessa. Si dà per inevitabile che ci siano altre vittime civili, altri guasti alle strutture e ai servizi.
Si capisce qui che l’obiettivo primo di Putin è di fiaccare la popolazione, di annullarne il morale.
- Come vivono questo momento in particolare i giovani ucraini?
Molti giovani stanno vivendo l’incubo della chiamata alle armi, che si fa sempre più pressante. Basta dire che nelle città non si vedono i ragazzi in giro per strada, perché stanno tappati in casa per paura di essere fermati e verificati da polizia e militari. Sinché sono all’università in linea con gli esami, sono esentati. Poi, non più. Chi va a lavorare può essere cercato sul posto di lavoro per l’arruolamento.
Ci sono tanti ragazzi che cercano di scappare dal Paese, rischiando la vita. I numeri della fuga non sono noti, ma non sono sicuramente trascurabili. Posso dire che le Caritas locali non trovano più autisti per svolgere tutti i servizi. Lavori già appaltati non iniziano. Molti miei colleghi ucraini lavorano a distanza, a casa, davanti al pc.
Sono aumentai tutti i controlli, alle frontiere come per strada. Io stesso sono stato fermato dai militari quattro volte in pochi giorni, benché alla guida di una macchina italiana con le insegne della mia ONG. Mi hanno persino chiesto: «Vuoi arruolarti con noi?». Il governo sta cercando di reclutare, urgentemente, altri 160.000 uomini. Il moto iniziale dell’arruolamento, seguito alla aggressione di 1.000 giorni fa, è pressoché esaurito.
Le conseguenze di questo clima generale sullo stato d’animo dei giovani sono intuibili. Ma va detto che c’è ancora una parte dei giovani e di uomini che va ad arruolarsi volontariamente.
- Come è fatta la guerra in Ucraina?
Non è come nei primi mesi, fatta da tanti carri e mezzi di terra per l’invasione e la difesa, ma, sempre più, è la guerra dei bombardamenti a distanza. Tra l’altro, i russi hanno affinato le loro tecniche dall’alto: lanciano missili e droni che volano molto bassi, perché più difficili da intercettare e, quando intercettati, capaci di fare comunque morti e danni. L’esercito ucraino soffre la carenza di strumenti tecnologici adeguati e di un numero altrettanto adeguato di soldati che sappia impiegarli.
Se dovessi rappresentare questa guerra per immagini, non metterei, come prima, l’immagine del soldato col fucile in mano, bensì quella del militare che ha in mano un joystick, per guidare un drone o un altro vettore di esplosivo sul bersaglio. Ciò mi fa riflettere: i nostri bambini – che giocano coi joystick – si stanno addestrando a diventare i soldati delle guerre di questo millennio? La tecnologia – e la dimestichezza con la stessa – sta addestrando alla guerra. È terribile.
- Tu incontri reduci che tornano dal fronte. Cosa dicono?
Mi capita di ascoltarli. Sono perlopiù ragazzi, molto giovani, «adulti» solo perché hanno superato i 18 anni. Ho ascoltato le loro testimonianze, i loro sfoghi, la loro rabbia. Quando rientrano nelle loro case, la vita non è più quella di prima. Il passaggio psicologico che devono affrontare è enorme, spesso devastante.
- Vogliono continuare a combattere?
La loro guerra non è per i territori, non è per la lingua o per altro. Combattere è una questione di orgoglio, di popolo: è combattere per il loro Paese. Ed è per questa ragione di fondo che l’Ucraina sta ancora reggendo.
Ma non ci si può nascondere che lo facciano anche per i soldi, per la paga del soldato che oggi, in Ucraina, è significativa. Altri si rammaricano e dicono: «Se avessi saputo, non sarei andato volontariamente!». Altri ancora: «Io voglio difendere il mio Paese, ma non voglio morire». Dipende da caso a caso.
Dietro ci sono le famiglie, che chiedono: «Perché proprio lui?». Muoiono mariti e figli. E il pensiero della perdita – o della possibile perdita o di una menomazione permanente – è devastante per le famiglie. L’effetto della guerra è anche questo: instillare pensieri devastanti, paralizzanti.
- Sono ancora in atto sfollamenti e migrazioni interne e all’estero?
Le evacuazioni interne di popolazione, stante l’andamento della guerra, sono continue, da sud e da est, ove hanno luogo i bombardamenti più intensi.
C’è poi ancora un flusso tendenziale di uscita dal Paese. Consideriamo che sta arrivando un inverno che l’Ucraina affronta con un sistema energetico a pezzi: l’energia elettrica e il riscaldamento non possono essere beni e servizi garantiti a tutta la popolazione.
Il governo sta cercando di scoraggiare le migrazioni all’estero e sta cercando di far rientrare le persone che sono uscite – quasi 10 milioni su 30 milioni rimaste – perché solo in questo modo si può ipotizzare la tenuta del sistema sociale e un futuro di ricostruzione per l’Ucraina.
- Chi ha il permesso di uscire dall’Ucraina?
La popolazione femminile e minorile non ha limitazioni legislative ad oggi. Mentre a quella maschile è sempre più difficile, ottenere permessi di esenzione dal servizio militare e quindi di uscita dal Paese, come detto, a proposito dei giovani.
- Dove va chi esce dal Paese?
L’enorme presenza di rifugiati ucraini in altri Paesi – 6,7 milioni in Europa – consente a chi vuole uscire, per il periodo dell’inverno o per un periodo più lungo, di poter incontrare all’estero una rete importante di relazioni di aiuto. Insomma, chi esce adesso dall’Ucraina sa dove andare. Le principali mete sono nel Nord dell’Europa.
La situazione non è più quella dei primi tempi della guerra, quando lo sfollamento entrava nei canali degli Stati con le organizzazioni umanitarie: oggi non c’è più bisogno di questo. Non sono in atto migrazioni d’emergenza. È chiaro che, se l’esercito russo dovesse sfondare da sud e risalire, si muoverebbero di nuovo masse di persone.
- Qual è la situazione della povertà?
Stiamo parlando di un Paese che ha perduto il 50% del proprio PIL e in cui tante persone – i rifugiati interni – stanno faticosamente cercando di rifarsi una vita in posti e in relazioni diverse. Per chi ha perduto tutto a causa della guerra, non è per niente facile ritrovare condizioni dignitose di vita, se non con un grande aiuto delle comunità, secondo criteri di giustizia pubblica.
Per questo il nostro compito – di operatori Caritas – non è soltanto quello caritativo in senso stretto, ma è anche quello della tutela dei diritti. Questo è molto più difficile per noi in tempi e zone di guerra. Si corre il rischio di essere presi per chi fa la cattiva propaganda o incoraggia il disfattismo. Il tema ci interroga come Caritas, come Chiesa, come chiese.
- C’è chi protesta, pubblicamente?
Ci sono delle proteste per questioni di giustizia, concrete e localizzate. Ma questo è un Paese in guerra, con una economia di guerra: la risposta che viene data alle proteste è questa.
- Quali sono le posizioni delle Chiese e i rapporti tra le stesse?
La Chiesa che fa riferimento a Mosca, nelle regioni che sto visitando, sembra quasi sparita dopo l’approvazione della legge sul possibile sequestro dei beni. Nel mentre, sia la Chiesa cattolica latina, sia soprattutto la Chiesa greco-cattolica, hanno visto aumentare i fedeli ai riti. Per quanto io possa dire, mi pare che le Chiese, cattoliche e ortodosse, senza differenze di posizioni, stiano sostenendo il popolo nell’idea della «giusta guerra di difesa o di resistenza», come dicono. Quindi la collaborazione tra le Chiese c’è ma sul piano umanitario. Non saprei dire di altre forme di collaborazione. Mi pare che ciascuna chiesa coltivi il proprio, in quieto reciproco rapporto.
- Come è vissuta la vostra presenza tra la gente in Ucraina?
Ti riporto le espressioni di stupore che spesso registro e porto con me: «Davvero sei venuto sin qui! Che bello! Ma non hai paura!?». La prossimità è vissuta sempre bene. Certamente, dopo i primi entusiasmi dell’incontro, si ritorna tutti alla durezza della vita quotidiana, in questa situazione di guerra.
- Non deve essere semplice per te, per voi, stare lì…
Non è affatto semplice. Io non sono chiaramente parte in causa. Non mi sento un «contendente». Ma sono emotivamente coinvolto, e molto. Non può essere altrimenti. Vivo e viviamo nelle stesse tensioni vissute dalla gente che incontriamo.
Ricordo che, una volta, quando è stata attaccata Lviv coi missili, uno di questi è caduto a 50 metri dal punto in cui sto parlando ora. Io non c’ero, ma c’era la mia collega. Ciò che si prova – col boato, col senso della distruzione e della morte addosso – è forse impossibile da spiegare a chi non ha mai fatto la stessa esperienza; è difficile spiegarlo, penso, a chi sta in Italia, ormai assuefatto alle immagini e alle notizie della guerra che circolano in continuo, come un sottofondo scontato. Mentre il sentimento è forte tra chi ha fatto la stessa esperienza, magari a poca distanza, magari sotto lo stesso tetto crollato. Per forza di cose si ingenera con queste persone un sentire comune, una relazione molto forte e molto solida.
Ricordo i giorni dell’assedio di Mariupol. In quei giorni mi trovavo al confine moldavo-ucraino, ove ho raccolto le testimonianze, i video e le foto dei rifugiati che venivano da là: un «materiale» crudissimo. Io ero lì a raccoglierlo quale operatore umanitario, in maniera, diciamo, professionale. Ma naturalmente ero lì in primo luogo come uomo, come cristiano, coinvolto e combattuto. Sì, perché il grande orizzonte, per me, resta quello della riconciliazione e della pace; lo scopo non può essere quello la rivalsa o la vendetta.
Molti ritengono che solo chi subisce la guerra abbia il diritto di parlare di tregua e di pace. Ora comprendo meglio le radici di questa istanza. Ma non posso trovarla giusta. La ricerca della pace ci riguarda tutti, in prima persona.
Per sostenere le opere di Caritas Italiana in Ucraina vedi a questo indirizzo