Un celebre padre del deserto, Evagrio Pontico, dava questo consiglio: «Se hai un problema con un fratello, invitalo a pranzo». Facendo così, in effetti, ci si dispone al perdono, che facilita la riconciliazione. Dapprima si tratta la persona in modo onorevole, la si “riconosce” perché la si invita; poi lesi offre del cibo e quindi – almeno per questo pasto – le si dona la vita, le si dice con questo gesto che la sua vita è preziosa. Se il fratello accetta l’invito, significa che egli ritiene un incontro, per quanto poco sia, una possibile tappa nella relazione. Il contesto che in questo modo verrà a definirsi aiuterà a scambiarsi alcune parole con una certa dolcezza. Si potrà percepire che non è necessario essere d’accordo su tutto e che si possono permettere reciprocamente divergenze di valutazione o di condotta, restando tuttavia in comunione.
Non possiamo trovare in questo consiglio che attinge alla saggezza dei Padri un suggerimento che riguardi l’unità delle Chiese? L’intercomunione attualmente è considerata e applicata come un fine: ci si comunicherà insieme quando si troverà l’accordo sull’espressione della fede, dei costumi, dell’istituzione della Chiesa e quando si sarà venuti a capo dei contenziosi che ingombrano la memoria delle Chiese e gravano sul loro presente. Ma è un buon metodo questo? Sono passati ormai più di cinquant’anni da quando il patriarca Atenagora e papa Paolo VI hanno cancellato le reciproche scomuniche allora decretate da Michele Cerulario e dal card. Humbert. Ciononostante, si continua a non comunicarsi nella liturgia dell’altra Chiesa; si attende che si formulino accordi sotto l’autorità del papa, ad esempio, o che vengano regolate situazioni generatesi nel passato, come la vicenda delle Chiese uniate. Ci si può domandare se il processo inverso non sarebbe, a medio o lungo termine, più efficace: anzitutto perché coinvolgerebbe persone reali in comunità concrete, poi perché creerebbe opportunamente un clima di comunione che permetterebbe dialoghi e perdoni impossibili finché si resta sulle proprie posizioni.
Questa sequenza (comunione prima, discussione dopo) è forse impossibile attualmente con le Chiese d’Oriente. Esse appartengono, in effetti, a un universo culturale da molto tempo differente dal nostro; già i Padri greci e i Padri latini non avevano certo la stessa mentalità, il che è manifesto soprattutto nella differenza delle liturgie. La loro stessa identità è difficilmente separabile dalla storia politica nella quale l’Occidente cristiano sembrava colpevole (sacco di Costantinopoli nel 1204, mancato aiuto a Costantinopoli contro l’islam nel 1453, processo di latinizzazione o di cattolicizzazione da parte dei “latini” nelle terre d’Oriente nei tempi moderni…). Ma non è lo stesso con le comunità nate dalla Riforma: esse appartengono allo stesso universo storico e culturale delle comunità cattoliche, quello in definitiva dell’Europa. Le lingue e i riferimenti culturali sono i medesimi. Le nostre discussioni sulla grazia si svolgono all’ombra di Agostino; le questioni del sacramento, dell’eucaristia, del ministero ci stanno animando fin dal Medioevo; il contesto politico (con il suo retroterra finanziario) era il medesimo: l’imperatore, il papa, i re, i prìncipi, i vescovi e infine il popolo. Il grande evento che ha inaugurato l’epoca contemporanea è in effetti comune a tutti, benché si richiami alla Rivoluzione “francese”. L’ecumenismo è nato dapprima tra noi: dopo esserci violentemente opposti, abbiamo cominciato a domandarci come porre rimedio alle separazioni e si è fatto un cammino niente male per avvicinarsi.
Per questo mi domando se la commemorazione del V centenario della Riforma non debba centrarsi sull’interrogativo: come fare la comunione insieme nel 2017? E ci si attende la risposta da parte cattolica prima che protestante: da parte di quest’ultima in effetti l’invito è arrivato. In termini netti la questione si pone così: i cattolici, basandosi sugli sviluppi del Vaticano II sulla Chiesa e sulla liturgia, non potrebbero rivedere il loro doppio rifiuto: sia di invitare la Riforma alla Santa tavola, sia di rispondere all’invito della Riforma alla Santa cena? E le comunità protestanti non potrebbero interrogarsi su ciò che, presso di loro, ostacola una risposta cattolica positiva alla loro tavola aperta?
Una volta di più, non penso che la risposta a questi interrogativi debba comportare un accordo completo sui dissidi, ma solo il minimo indispensabile a una comunione liturgica autentica. E in cosa consiste questo minimo? Siamo tutti d’accordo sull’obbedienza alla Scrittura: questa ci racconta l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli e il suo comandamento di ripeterla (Mc 14,22-24 e par.); d’altra parte, essa attesta l’obbedienza della prima generazione cristiana a tale comandamento (1Cor 10,16-17 e 11,17-34). Dunque, celebrando così ci poniamo insieme sulle orme di Gesù, e soprattutto egli si pone sulle nostre. E noi ci impegniamo a perseverare nella preghiera, nel dialogo teologico e nell’azione comune per la pace e la giustizia – ciò che si sta facendo fruttuosamente da più di cinquant’anni.
Forse sono ottimista facendo questi discorsi e tuttavia, allo stato attuale delle cose, credo vi siano delle possibilità e desidererei si guardasse all’occasione del 2017 in questa prospettiva.