Abusi e tradizione penitenziale

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Le questioni sollevata dagli scandali degli abusi, che hanno segnato le recenti indagini con impatto ecclesiale in Francia, in Portogallo e in tutta la Chiesa universale, meritano una considerazione lungimirante, così come appare dal testo appassionato scritto due giorni fa da Marcello Neri, sulla rivista on-line SettimanaNews con il titolo “Che cosa c’è dietro gli abusi nella Chiesa?”.

In modo simile, qualche giorno prima, era intervenuto Giovanni Salmeri, sulla stessa rivista, con una riflessione assai lucida, dal titolo “Rupnik, la teologia non è ininfluente”. Partendo da questi due testi vorrei sviluppare brevemente un accenno importante, che emerge dal testo di Neri, quando formula un prezioso bilancio delle questioni teologiche ed istituzionali in gioco. Lo riporto qui integralmente:

1) La rischiosa clericalizzazione di ogni ministero interno alle pratiche pastorali della Chiesa, degrada la comunità della fede e del discepolato al ruolo di comprimario, sentendola come raggruppamento parassitario di coloro che non «vogliono fare».

2) Una visione distorta dei sacramenti e della loro celebrazione, che fa delle vittime complici di un peccato che toccherebbe solo Dio – senza nessun bisogno di riparazione che porti a guardare in faccia la ferita indelebile del corpo e dell’animo violentati.

3) Una carente cultura di custodia della memoria del vissuto di una Chiesa locale, con archivi inaccessibili o che perdono documentazioni scabrose e scomode per quella Chiesa. Eppure, conoscere la storia che siamo stati è un necessario percorso di apprendimento per poter entrare nell’inedito del tempo che sta davanti a noi.

4) La mancanza di una verifica comunitaria, e non solo verticistica (in pratica poi inesistente), delle prassi ministeriali e pastorali di una Chiesa locale, appaiata a un mancante discernimento condiviso sui ruoli, le persone, le pratiche, che strutturano una comunità cristiana.

Vorrei qui soffermarmi soltanto sulla seconda questione, ossia quella che fa centro sulla “pratica” e sulla “teologia” della penitenza.

Qui, io credo, la sfida di questa fase di ascolto e di valutazione delle pratiche distorte, spesso relazionate strettamente alla prassi del sacramento della riconciliazione, dovrebbe aprire i nostri occhi su una serie di urgenze indifferibili. Provo a farne un semplice elenco, con un minimo di elaborazione.

Un sacramento e le sue patologie

a) La patologia del sacramento mostra che ne abbiamo una teologia troppo fragile e poco definita. Il sacramento elaborato dalla tradizione come rimedio alla patologia del peccato del battezzato, quando viene pensato come troppo facile fisiologia ecclesiale semplicemente da amministrare, diventa fonte di ulteriore e diversa patologia.

Su questo piano è evidente che si creano continue confusioni tra “crimine” e “peccato”, tra livello ecclesiale, livello privato e livello pubblico, tra competenza episcopale, competenza presbiterale e competenza della giurisdizione penale pubblica. Le interferenze, spesso gestite dalla consegna del “segreto”, incrociano e non gestiscono a dovere giuste riservatezze e pericolose omertà.

Questa impasse affonda nella storia degli ultimi secoli, nella lettura “antimodernistica” del sacramento, nel conflitto tra Chiesa e Stato, nelle categorie fondamentali della “legge penale ecclesiale”, che non ha ancora preso sul serio Cesare Beccaria e si raccorda col sacramento in modo solo formalistico.

b) La grande teologia del medioevo, certo in un altro mondo, aveva però compreso bene che, all’interno dell’esperienza sacramentale della Chiesa, due sacramenti avevano un profilo del tutto particolare: il matrimonio e la penitenza. Questo a motivo del fatto che in questi due “atti ecclesiali” il soggetto (nubendo/a o peccatore/trice penitente) era coinvolto con la sua soggettività non superabile.

Le cui logiche non potevano essere né “anticipate” né “sostituite” dalla Chiesa. La “storia di vita” che porta al consenso definitivo tra un uomo e una donna e la storia di conversione che porta un peccatore/trice al pentimento non si lasciano dominare dalla Chiesa. Chiamarli sacramenti non significa sfigurarli nella loro dinamica soggettiva e virtuosa, anzi significa valorizzarla.

c) Questa antica consapevolezza, che troviamo attestata con chiarezza fino al 1500, a partire dal Concilio di Trento si è “modernizzata” con una svolta grande, sia sul piano matrimoniale, sia sul piano penitenziale. Il trasferimento di tutte le competenze matrimoniali in capo alla Chiesa, e la forte sottolineatura del profilo “giudiziale” del sacramento della confessione hanno profondamente alterato gli equilibri, introducendo una percezione del “sacramento” totalmente spostata nella sua efficacia sulla autorità della Chiesa.

La rilettura ottocentesca ha condotto ad una descrizione delle competenze ecclesiali in materia matrimoniale e in materia penitenziale con il sogno dell’“esclusiva”, giocata evidentemente in conflitto con le parallele competenze sul matrimonio e sul delitto che lo Stato moderno stava elaborando, non senza aggressività, ma anche con nuova lucidità.

d) Gli equivoci di questo modello ottocentesco sono ancora largamente in piedi e la concorrenza (non solo sleale) tra ordinamenti giuridici paralleli si vede bene nel matrimonio, ma ora appare anche chiaramente nella gestione irresponsabile della penitenza ecclesiale.

Che ha, tradizionalmente, uno spazio di elaborazione del dolore del cuore, della presa di parola della bocca e del “lavoro sul corpo” che oggi facilmente viene risolto dall’assolutezza di una parola di assoluzione che non assolve al suo compito storico, e prende inevitabilmente vie devianti.

Solo così è possibile che il nobile istituto della “pena del peccato” venga oggi, da un lato, lasciato totalmente al “braccio secolare dello Stato”, e dall’altro tradotto magari in “carezze al confessore”. La opacità del concetto è parallela alla sua devianza.

e) Uno dei luoghi di maggiore evidenza del ritardo culturale e teologico con cui la Chiesa fatica a rispondere appare nel lessico e nelle categorie con cui i “fatti” vengono pensati: che le “vittime di abuso” siano molto spesso ricondotte alla figura di “complici” (nel peccato verso Dio) dice l’arretratezza di una percezione delle questioni e del rapporto tra fede e cultura comune che non può essere lasciata nelle mani di giuristi, funzionari e burocrati che non aprono mai la finestra del loro studiolo e non lasciano entrare l’aria fresca di un mondo che, tra mille cadute, sa elaborare qualcosa che vale come “segno dei tempi” anche per la Chiesa.

f) Il compito della teologia è perciò quello di rileggere la storia del IV sacramento, scoprendone gli equilibri antichi, che oggi abbiamo in larga parte dimenticati, ridotti o elusi. Il sogno di un sacramento riconducibile, come fa il Codice di Diritto Canonico, alla semplice sommatoria di confessione e di assoluzione è uno scandalo teologico e pastorale, che permette il fiorire di tutti gli abusi di questo mondo, lasciando il sistema dotato di una buona coscienza istituzionale ma privo di alcuna reale efficacia.

Restituire ai canonisti uno straccio di teologia del sacramento è uno dei compiti fondamentali che i teologi possono elaborare in questo frangente e la collaborazione di canonisti non rassegnati sarebbe cosa ottima.

g) Per uscire dal “modello ottocentesco” di lettura del matrimonio e della famiglia ci è voluto un duplice sinodo ordinario e straordinario, recepito da Amoris laetitia, che ha potuto iniziare a sottrarsi al gioco al massacro di “ordinamenti giuridici in concorrenza”.

Forse solo un itinerario simile, che possa arrivare ad una Reconciliationis laetitia (o Paenitentiae gaudium) potrebbe recuperare la struttura processuale del sacramento, fare dell’ascolto delle vittime il luogo di esperienza del perdono possibile, restituire all’elaborazione della pena il suo spazio insuperabile, collaborare strutturalmente con lo Stato per assicurare un’amministrazione della giustizia non di comodo e riaprire il dialogo con una tradizione ricca e forte, che deve essere ascoltata con maggiore attenzione, senza avere sul naso solo gli occhiali costruiti negli ultimi 200 anni, e che ormai si rivelano del tutto appannati e, addirittura, fuorvianti.

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Un commento

  1. Adelmo Li Cauzi 21 febbraio 2023

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