Il sacramento della penitenza è quello che forse ha visto più mutazioni nel corso della storia della Chiesa cattolica. A partire dal nome (penitenza, confessione, riconciliazione…) e non senza vistose diversità nelle parole, nella celebrazione e nei simboli evocati dal rito. Ad ogni mutazione si andavano sedimentando significati e gerarchie di rilevanza diversi.
Procedendo per accumulo e non per sostituzione, nella stratificazione dei significati si sono manifestate anche alcune frizioni non risolte. Tutto concorre a determinare la legittimità e, di più, la necessità di ricercare oggi di nuovo le forme della celebrazione che da una parte esprimano il deposito della fede nella misericordia di Dio e dall’altra dialoghino con le sensibilità culturali del tempo in cui viviamo e celebriamo.
Le tre modalità di celebrazione previste dal Rito della penitenza (2 dicembre 1973) nella loro molteplicità già dicono della necessità di tenere insieme significati diversi. La pandemia COVID ha portato in primo piano il dibattito sulla terza forma, sulle sue implicazioni psicologiche, teologiche ed ecclesiali non soltanto sulle rispondenze pastorali.
Cf. SettimanaNews
Covid e sacramenti/2: La confessione
La difficile celebrazione
Dare futuro alla confessione comunitaria
Ripensare la prassi penitenziale
Penitenza: note sulla terza forma
Penitenza: terza forma e diritto liturgico
Terza forma: ripensare la penitenza
Penitenza: tra sacramento della misericordia e dispositivo di controllo
Penitenza: oltre il terzo rito?
Penitenza: la pratica della “terza forma
Terza forma della penitenza: percorso storico
Terza forma della penitenza: scorciatoia o risorsa?
Nella storia
Il dibattito ha dato ulteriore evidenza all’insufficienza di ogni singola forma ad esprimere la ricchezza di significati del sacramento.
La storia è il registro delle oscillazioni nell’attenzione privilegiata posta di volta in volta ai singoli elementi essenziali del sacramento (confessione dei peccati, contrizione, assoluzione, penitenza e soddisfazione…) e alle sue dimensioni personale e comunitaria.
Alcuni tratti di fondo risultano confermati:
- le forme della celebrazione sono mutevoli: sono cambiate e possono cambiare;
- gli “adattamenti locali o storici” e le “concessioni” autorizzate dall’autorità ecclesiastica sono più di quanti immaginiamo;
- il magistero non è intervenuto a escludere positivamente forme della celebrazione, quanto piuttosto a richiamare l’irrinunciabilità dei contenuti;
- equilibrio fra gli estremi “tradizionalista” («Si è sempre fatto così») e “avventuriero” (sperimentazioni senza sintonia con il sentire della Chiesa).
La scienza liturgica è chiamata a esercitare il suo servizio, non perché sia in gioco la liceità di un rito, ma la sua verità davanti all’esperienza umana e alla sua capacità di incidere sul vissuto.
Nel presente
Tra gli effetti discordanti della sedimentazione storica, la definizione del settenario canonico sacramentale che colloca la penitenza al quarto posto, mentre nell’itinerario catechistico, calibrato sui fanciulli, la penitenza viene celebrata come secondo sacramento, prima dell’ammissione all’eucaristia.
Si palesa l’incongruenza: come celebrare il sacramento della riammissione nella comunione ecclesiale chi non è ancora entrato a farne parte. Peraltro la catechesi e la prassi hanno consolidato un’interpretazione del quarto sacramento come porta di accesso al terzo: «mi confesso per poter fare la comunione».
La prassi motivata da ragioni pastorali ha finito per relegare il sacramento della penitenza al mondo infantile, col rischio – o forse l’esito – di una banalizzazione del peccato e della grazia che lo redime. Come portare il sacramento fuori dalla pesantezza del “prezzo da pagare”?
Occupati a rendere significativo il sacramento per i bambini lo abbiamo associato a quella età, mentre peccato e misericordia sono esperienze della vita, di tutta la vita.
E così ci impegniamo a far vivere ai bambini la festa dell’incontro con un Padre misericordioso e con un Figlio fratello e amico che non giudica. Gli adulti assistono alla festa – non senza le ambiguità di una certa spettacolarizzazione – ma dietro la macchina fotografica focalizzata sui loro figli non riescono a nascondere fatica e imbarazzo che spesso connotano il loro incontro con la misericordia di Dio nel sacramento. Come se il linguaggio verbale e simbolico del rito cambiasse di registro con l’avanzare dell’età.
Il parroco è tentato di valorizzare la celebrazione dei sacramenti con i bambini per raggiungere gli adulti, ma un’esperienza ormai decennale, se non secolare, insegna che l’biettivo non viene raggiunto. Ogni età ha la propria particolarità. Più che in altri campi emerge con forza come sia il vissuto, più del messaggio, a lasciare un segno che modella una precomprensione: linguaggio, rappresentazioni, contesto familiare e sociale.
Il contesto
Già con gli adolescenti si constata la forza del contesto entro il quale ogni sacramento viene celebrato. Basti richiamare non solo la diversità di numeri, ma anche la diversa efficacia del sacramento celebrato durante la GMG, il campeggio, i tempi della vita associativa, le iniziative coinvolgenti.
Non risulta dunque sufficiente intervenire sulle parole e i gesti del sacramento (per quanto necessario) e quanto sia invece determinante creare e coltivare contesti celebrativi. Tenendo conto anche del peso del contesto culturale, precomprensione nella lettura e interiorizzazione dei discorsi e delle esperienze. Nel contesto di una società secolarizzata – ma non meno legalista – quali significati assume l’“esame di coscienza”? e termini come “peccato mortale” o “peccato grave”? è possibile pensarli in termini oggettivi, senza collocarli nel senso più ampio della vita (fallimento, perdita di significato…)?
Ciò che si prega esprime (e alimenta) ciò che si crede. Non si tratta soltanto di organizzare una celebrazione ad un appuntamento puntuale, ma far percepire che il Vangelo è un’offerta di misericordia, è una domanda permanente e da non dimenticare.
La dimensione comunitaria
E che dire della celebrazione comunitaria in un contesto fortemente individuale, ancor più per quanto riguarda responsabilità e colpe? Si propone di celebrare un sacramento che per lungo tempo ci siamo “impegnati” a far uscire dall’orizzonte comunitario. Come ricuperare all’esperienza dell’adulto la dimensione comunitaria della penitenza/riconciliazione? Non soltanto per un’esperienza più compiuta in chi lo celebra, ma anche perché non possono essere elusi dalla dinamica penitenziale della Chiesa temi come pace, violenza e guerra, usurpazione del creato…
Il silenzio e il rito
Il male ha bisogno del silenzio. Chi fa il male non ama la luce, non ama essere visto né sentito. «Muta est malitia hominum» (Ugo di San Vittore). Se il male chiede la complicità del silenzio, la salvezza ha bisogno del canto, dell’inno, dell’arte, della parola, della sincerità, della dichiarazione, della confessione.
Trova qui un senso l’insistenza delle attuali tre forme del rito sulla confessione individuale. Quando un rito è ben celebrato, le coscienze, che vanno rispettate, sanno la differenza tra non aver mai raccontato a nessuno il proprio passato e aver narrato il peccato ad una persona credente. Viene dalla natura del peccato, che chiede la complicità del silenzio, l’essere vinto nel racconto. Questo sacramento ha una caratura psicologica che altri non hanno, senza per questo cedere alla duplice tentazione di pensare che un sacramento sia efficace quando lo è psicologicamente, o, al contrario, che abbia effetto sulla psiche per il solo fatto di essere stato celebrato.
Gli esiliati di Babilonia si domandavano: «Come cantare i canti del Signore in terra straniera?» (Sal 137). Come vestire di parole e di canto l’esperienza esistenziale e religiosa dell’esilio (dell’allontanamento) che risveglia la coscienza della propria infedeltà?
Nell’abisso del dominio del Male progettato e perpetrato a Birchenau, opposizione, resistenza e protesta, pur nella consapevolezza della sproporzione perdente, hanno tenuto in vita forme di celebrazione tanto scarne quanto drammaticamente umane. Come vestire di parole e di canto l’esperienza scandalosa del silenzio di Dio davanti al Male totale, fino a farlo sembrare suo complice?
Nelle recenti manifestazioni di protesta e solidarietà radunatesi spontaneamente in seguito a episodi di violenza che hanno scosso la sensibilità civile e morale comune (femminicidi, pestaggi, naufragi senza soccorso…) si è preferito abbandonare la tradizione del minuto di silenzio per dar voce alla protesta contro il male con un “minuto di rumore”. Come vestire di parole e di protesta l’esperienza collettiva di un male che anche nella morte di uno solo tramortisce un’intera collettività?
Non trova giustificazione una celebrazione “verbosa”; piuttosto si conferma la necessità di maneggiare i simboli, per lavorare sui codici di uscita dal male (lucernario, acqua, luce, profumo …).
Il peccato è un atto ma anche un processo, un continuum tra il veniale e il mortale. Nel processo inverso di uscita dal male dovrebbe trovare spazio anche la parola delle vittime. Il silenzio nel quale vengono lasciate è complicità col male.
Il linguaggio cristiano si è attrezzato di parole a contatto con l’esperienza del male. La penitenza va inserita entro la questione del male più profondo e più vasto con la quale si intreccia: malattia e morte. Come le esequie e il rito dell’unzione. Il cristianesimo ha dovuto cercare e darsi parole e gesti perché il male non abbia l’ultima parola.
L’abbandono di tradizioni consolidate di risposta rituale (liturgica e civile) all’esperienza della morte ha sì liberato dalle incrostazioni del formalismo e perfino di una certa ipocrisia la reazione personale e collettiva davanti alla morte, ad esempio, ma nello stesso tempo ci ha lasciati “senza parole”, senza riti attraverso i quali si ricevevano le parole e i gesti riconosciuti come espressione del proprio dolore e della propria protesta. Abbiamo aiutato a lungo la tradizione e ora sperimentiamo un’improvvisa incompetenza nel trovare parole e gesti che si accreditino non per la ripetizione del passato, ma per la capacità di dar voce al presente.
Specularmente, la rumorosità del male, la sua spettacolarità vistosa, la sua esibizione impudica ha bisogno di vestire di gesti, simboli e riti il silenzio. Consapevoli che ogni parola, ogni gesto mostra tutta la propria insufficienza e inadeguatezza là dove il male urla.
Il silenzio lacrimoso di un abbraccio davanti a una salma fino al silenzio contrito dell’esame di coscienza sono spazi che ricolmano di senso una celebrazione, come le pause nello spartito musicale.
Il male cerca nel silenzio il suo complice, ma può trovarvi anche il suo smascheramento più efficace.
La “virtù di penitenza”
Come ben si vede, il discorso non può essere confinato nel sacramento della penitenza. C’è un’esperienza di sofferenza più grande del peccato. Quando si parla del male c’è sempre anche male fisico, morale, sociale, c’è un’interpretazione del male che supera il male peccato. E c’è una penitenza che si dilata oltre il rito. Si tratta di riconoscere e promuovere una sacramentalità della penitenza racchiusa in molte delle dinamiche che tessono il nostro vissuto quotidiano.
Una sacramentalità della penitenza che fonda una spiritualità: una virtù di penitenza davanti alla colpa, ma anche davanti alla morte e alla malattia; una postura, un modo specifico di stare al mondo davanti al male. Non siamo peccatori solo perché siamo fragili. C’è una hybris umana che ti fa peccatore, e ti fa dire di non aver bisogno di nessuno.
Un atteggiamento di Chiesa che sa chiedere e dare perdono come guarigione dal male, manifesta il ruolo sacramentale della Parola accolta e celebrata e fa della contrizione non un atteggiamento devoto del singolo, ma il tratto di una virtù di penitenza che connota l’intera comunità.
Un atteggiamento che sa coinvolgere la dimensione corporale. Non a caso si stanno accreditando sempre più verso il pubblico di ogni età esperienze come il digiuno, il pellegrinaggio o le esperienze “spartane” dei gruppi giovanili (GMG, Scout, campi scuola…). Esperienze che allenano effettivi momenti di spiritualità e di conversione laddove il corpo si trova “provato” in vista di obiettivi non ascetici (farci sentire “migliori”) quanto significativamente penitenziali (farci sentire più “genuini”, più leggeri).
Non avvitiamo il dibattito sulla questione del sacramento, come unica modalità per parlare del peccato, della penitenza, del perdono. Il rituale è povero di testi. Si è pensato alla predicazione con un ruolo debordante. La ricchezza del non verbale è tutta da riscoprire e valorizzare.
C’è una grande domanda di guarigione. «Andate e guarite»: cosa significa la guarigione connessa con l’annuncio? Cosa significa immettersi in un cammino di guarigione da tante forme del male?
Per “disseppellire il futuro”, direbbe Guardini: «quando siamo nel rito, noi facciamo esperienza dell’umano che non siamo ancora. Per questo pregando fatichiamo. Il nostro umano futuro è ancora sepolto. Solo attraverso una disciplina, il mio umano si avvicina a quello».
L’azione rituale è già futuro non ancora dissepolto.
I contenuti sono un resoconto ragionato di un seminario di studi organizzato dalla Facoltà teologica del Triveneto e moderato da Assunta Steccanella sul tema Perché la ricerca continui. La riflessione sulla penitenza nella Chiesa tra passato, presente e futuro. Tre gli interventi che hanno introdotto il dibattito: Elena Massimi, docente stabile della Pontificia facoltà di Scienze dell’educazione «Auxilium» di Roma, La forma della penitenza lungo la storia; Giovanni Casarotto, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano di Vicenza, Provocazioni a partire dalle prassi attuali; Marco Gallo, docente di Sacramentaria presso lo STI e l’ISSR, direttore di Rivista di pastorale liturgica, Uno sguardo a possibili scenari futuri.
Vorrei sottolineare l’aspetto evangelico della penitenza;annuncio di gioia…va la tua fede ti ha salvato; donna neppure io ti condanno;..sono venuto non per i giusti,ma per i peccatori….gli corse incontro e L’abbracciò, facciamo festa perché tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato….Partendo da questa realtà, occorre fare in modo che l’esercizio del sacerdozio di Cristo sia mediato anche da una pratica che trasformi il linguaggio penitenziale. Questo deve diventare racconto dell’opera di Dio , che continua a far sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sul campo dei giusti e degli ingiusti.La penitenza dunque opera di Dio per l’uomo peccatore , è la Parola sovrana che abbassandosi fa parlare i muti e fa udire i sordi.
Penitenza: la ricerca continua. Mai titolo fu piu’ giusto : per il fedele continua la ricerca di preti che stiano nei confessionali per confessare. Non solo le chiese oggi sono vuote ,tranne quei quattro gatti della terza eta’ che vanno a Messa la domenica , ma soprattutto sono vuoti anche i confessionali. Non parliamo poi di chiedere un prete che venga al letto di un infermo per dare i sacramenti di confessione ed eucarestia. Non sia mai! Sono sempre occupato nel ” sociale” non televisione a farsi intervistare sulla ” Sinodalita’: “
Tornare a Padre Pio o Leopoldo Mantic. Il resto come sempre parole sprecate. Se fin da piccoli si fa l esperienza del perdono la confessione auricolare pure per il sacerdote è un dono di liberazione altro che ” pratica nevrotica!”
Preti che stiano nei confessionali non se ne trovano piu’ . Il Santo Curato d’ Ars ci stava 8 ore al giorno .
Finche’ i preti faranno gli ” impiegati del sacro” non se ne esce dal circolo vizioso: meno fedeli ,meno sacramenti ,meno partecipazione. Ci vogliono persone generose, appassionate , un po’ pazze per Cristo , per fare i preti, non meticolosi e freddi ” assistenti sociali” con venature religiose.
A me sembra che piu’ che parlare del sacramento della Riconciliazione bisognerebbe mettere a fuoco la nostra realta’ di credenti che nella nostra vita abbiamo una relazione costante con Dio che ci ama. L’essere coscienti che la nostra vita non e’ ideale ma ha tanti piccoli aspetti che ci rendono fragili e hanno bisogno ogni tanto di essere accompagnati da una ricerca di perdono nella riconciliazione con Dio dovrebbe essere a mio parere uno degli aspetti importanti della nostra predicazione. Molte volte non amiamo Dio a sufficienza. In questo valorizzerei meglio le varie forme di richiesta di perdono che noi facciamo all’inizio della Messa, negli incontri di preghiera. Abbondonerei la pratica che per noi preti diventa a volte un po’ nevrotica della necessita’ della confessione auricolare. Lascerei quest’ultima ai peccati gravi come apostasia omicidio adulterio.
Trovo molto sagge le sue parole.
Forse si potrebbe aggiungere ancora qualche altro peccato grave…: odio, aborto, blasfemia, sfruttamento sessuale, sfruttamento della manodopera, razzismo, complicità con le mafie, commercio di droga e armi, politica guerrafondaia, calunnia e diffamazione, sistematica trascuratezza del rapporto con Dio. Oppure per questi sarebbe sufficiente l’atto penitenziale all’inizio della Messa?
Sono d’accordo con lei, sig, Marco. A mio parere fare una lista di peccati, e nello stesso tempo stare attenti a creare una coscienza di cooperazione e impegno a far si che’ la realta’ umana di tutte le persone abbia la pienezza di vita. Penso che questa sia l’azione di Dio per ciascuno di noi e che vuole realizzare con noi uomini. Cioe’ vedere il peccato della persona come aver sbagliato perche’ non siamo stati attenti volontariamente e o involontariamente ai desideri di Dio e quindi correre ai ripari e impegnarsi per una nuova vita.