Riprendendo la riflessione del benedettino Ghislain Lafont (cf. Settimana News, qui), don Vinicio Albanesi indaga sulle radici profonde che possono originare atteggiamenti e condotte disonorevoli in ambito clericale. Tale indagine riguarda sia la teologia che il diritto.
Leggendo l’articolo del benedettino Ghislain Lafont, dal titolo Clericalismo?, pubblicato in Settimana News il 1° settembre, propongo una riflessione che tenta di affrontare, da un punto di vista teologico e giuridico, una delle radici profonde dei problemi di scandalo che affiggono il clero (sacerdoti, vescovi, cardinali).
Sono oramai di pubblico dominio le incongruenze di vite di confratelli che coinvolgono non soltanto la materia sessuale, ma anche quella amministrativa, gestionale, economica, delle cose personali e di Chiesa.
Ciò che impressiona non sono le mancanze – di cui tutti dobbiamo chiedere perdono – ma la persistenza e il conseguente senso di impunibilità che accompagna condotte disonorevoli.
Credo che anche la teologia e il diritto (male interpretati) facciano da sfondo a tali atteggiamenti.
Concezione sacrale esagerata
La prima radice dell’impunibilità è data dall’enfasi posta sulla funzione sacerdotale. I riti, la consacrazione, l’affidamento dei compiti sembrano elevare un semplice battezzato a grande sacerdote, pieno di sapienza e di moderazione. Cosa non vera. Il battezzato, formato (adeguatamente?) è chiamato a svolgere la funzione sacerdotale.
Già san Paolo, nelle lettere a Timoteo e a Tito, doveva dettare i comportamenti ai vescovi e ai presbiteri: «Il vescovo, come amministratore di Dio deve essere irreprensibile; non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, padrone di sé, attaccato alla parola sicura, secondo l’insegnamento, affinché sia capace di esortare con la sana dottrina e di confutare coloro che si oppongono» (Tt 1, 7-9).
La discussione teologica sul sacramento dell’ordine è lunga e complessa. A seguito delle posizioni dottrinali di Lutero, che sosteneva che ogni battezzato può essere annunciatore della parola, il Concilio di Trento ha insistito nel collocare il sacerdozio nella funzione di culto.
Lo specifico è stato individuato nella celebrazione eucaristica e nell’assoluzione dei peccati. Da qui una concezione sacrale esagerata per cui, ancora oggi, il sacerdote, si sente investito di una tale autorità da distaccare la propria vita da quella del popolo che gli è affidato. Le funzioni di insegnare, santificare e amministrare sono diventate “autonome”, così da ritenersi erroneamente libero dal rendere conto del suo operato.
Con un’espressione popolare, ma estremamente significativa, può essere riassunta in “faccio il prete, non sono prete”. Quasi – orrore! – a dire che il sacramento dell’ordine sia uno strumento necessario, ma indipendente dalla santità.
Il “carattere”
Tutto ciò è aggravato da due altre connotazioni che rafforzano questa convinzione.
La prima dice che il sacramento dell’ordine conferisce il carattere, definito un segno spirituale che non si cancella mai. S. Tommaso nella Summa teologica (III, q. 63, art. 1), richiamandosi a s. Giovanni Damasceno, sostiene che il carattere è un sigillo (marchio) spirituale che sostiene la vita spirituale del sacerdote, del battezzato, del cresimato; non si cancella mai e impedisce di ripetere il sacramento. Definizione ripresa dal Concilio di Trento e tuttora utilizzata in dottrina.
Il sacerdote è tale per sempre: può chiedere la grazia di dispensa dagli oneri sacerdotali, ma rimane tale per tutta la vita. Il can. 1008 del Codice dichiara: «Con il sacramento dell’ordine, per divina istituzione alcuni tra i fedeli, mediante il carattere indelebile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a servire, ciascuno nel suo grado, con nuovo e peculiare titolo, il popolo di Dio», a completamento del can. 207 che aveva ricordato: «Per istituzione divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli i ministri sacri che, nel diritto, sono chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi sono chiamati anche laici».
Senza voler stravolgere dottrina e canoni, è evidente che l’accentuazione del rapporto sacerdote-culto determina lo stato “altro” del presbitero rispetto al popolo di Dio.
Il Concilio aveva tentato di colmare la distanza. Infatti il capitolo II della Lumen gentium ha affrontato prima il sacerdozio comune dei fedeli e poi quello gerarchico.
Nel comune sentire invece, dopo l’ordinazione, il giovane si sente “immune” da ogni partecipazione di fedeli.
L’“ex opere operato”
Un secondo aspetto che rafforza questa visione è dato dal principio che riguarda il conferimento della grazia con i sacramenti. La dottrina afferma che la grazia è concessa “ex opere operato”, a prescindere dalle disposizioni personali del ministro che amministra il sacramento. In parole semplici, il sacramento offre la grazia, se è accettata, non tenendo conto dell’azione del ministro che deve rispettare solo l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa (Concilio di Trento, Decreto dei sacramenti, n. 8 – Dz 1608).
Tale disposizione è spiegata per salvaguardare la misericordia di Dio che non lega il suo operare alla dignità-santità del Ministro.
I passaggi appena accennati non sono – come appaiono – solo “tecnici” e avulsi dalla realtà, ma fanno da sottofondo alla percezione che già da giovane il presbitero ha delle sue mansioni.
Si sente aggregato a «Cristo, capo della Chiesa» e quindi separa le sue funzioni sacerdotali dalla vita che conduce. Non si spiegherebbe altrimenti il perdurare di condotte gravemente peccaminose.
È un problema serio che è stato affrontato con il cosiddetto “discernimento” in preparazione al sacerdozio: sono innumerevoli i documenti della Santa Sede e delle Conferenze episcopali sulla preparazione al sacerdozio, ma i risultati non sono consoni alle aspettative.
Nel dopo-Concilio sono stati molto numerosi gli studi sull’identità del presbitero.[1]
Lo sforzo da fare è teologico e giuridico: occorre ridisegnare la figura del presbitero. Opera che non è stata completata nemmeno dal Concilio che pure ha insistito sulla continuità tra il popolo dei fedeli e le proprie guide.
Senza cadere nelle posizioni di Lutero, è opportuno accentuare le funzioni che il sacerdote è chiamato a svolgere, deteologizzando l’accentuazione dello status presbiterale o episcopale. Tutti siamo chiamati alla santità, svolgendo ciascuno dei ruoli nella Chiesa. Occorre dunque, da una parte, elevare concretamente la dignità di tutti i battezzati, dall’altra, abbassare le funzioni proprie di chi è chiamato a guidare l’insegnamento, la santificazione, l’amministrazione della Chiesa.
Intanto si potrebbe liberare ogni presbitero/vescovo da funzioni amministrativo-civili: responsabile della raccolta di denaro, responsabile dell’amministrazione dei beni, responsabile di ciò di cui ogni parrocchia/diocesi ha bisogno materialmente.
A dir la verità, esiste già un canone che proibisce attività affaristica e commerciale: «È proibito ai chierici di esercitare, personalmente o tramite altri, l’attività affaristica e commerciale, sia per il proprio interesse, sia per quello degli altri, se non con la licenza della legittima autorità ecclesiastica» (can. 286).
Di fatto una proibizione che non ha mai sortito effetto.
Da un punto di vista spirituale forse è utile richiedere a chi intende accedere al sacerdozio almeno una “promessa” di osservare i consigli evangelici di povertà, obbedienza, castità.
Senza entrare nel mondo complesso dei voti religiosi, è possibile trovare una via intermedia che obblighi in maniera determinata ai consigli evangelici.
Le pie esortazioni sembra non abbiano ottenuto risultati. Probabilmente anche la paura di rimanere senza presbiteri ha indotto a selezioni troppo sommarie e indulgenti.
La paura del giudizio di scandalo non si combatte silenziando gli errori, ma proponendo vie più impegnative.
[1] Cf. E. Castellucci, Il Ministero ordinato, Queriniana, Brescia, 2002, pp. 248-262
A mio avviso l’unica via più impegnativa da proporre è farla finita con la clericalizzazione da un lato e dall’altro con tutta questa pletora di laici che si comportano in modo più pretesco dei preti stessi. Farla finita col sottobosco di consorteria piccine basate su minuscoli orticelli di potere. Farla finita con l’impossibilità di parlare chiaro e mandarsi a quel paese, per la paura di perdere il posto di lavoro per i laici che vivono di stipendio nelle strutture ecclesiali o per gli altri per la paura di perdere la guida del gruppettino parrocchiale coltivato come spazio esclusivo. Questo don Vinicio lo sa? Lo sa che le questioni sono molto più semplici e molto più serie? Le strutture ecclesiali: servono o qualcuna sta lì per giustificare la sua esistenza? Almeno il 70% potrebbe venire ridotto. Ma la mentalità, quella, non cambia, se non si incide a fondo sulla eccessiva clericalizzazione e se non si finisce nel considerare i laici come minus habens.