Con un terzo articolo, Ghislain Lafont prosegue il ripensamento della teologia eucaristica, lavorando “di sponda”, ossia partendo dal recente testo di M. Recalcati sul sacrificio e recuperando da quello la definizione di “sacrificio simbolico” come nozione capace di chiarire la verità della comunione eucaristica. Un altro passo nella “traduzione della tradizione”.
Bis repetita placent. Avevo scritto il post precedente (qui), quando alcuni amici mi hanno regalato il recente libro di Massimo Recalcati Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Milano, Raffaello Cortina, 2017). In effetti questo libro, riflettendo sul tema del sacrificio, in dialogo con Nietzsche, Freud, Lacan, ma anche con Kierkegaard, Derrida e altri autori, si riferisce al sacrificio immaginario, fantasmatico, ultimamente nevrotico (che troppo spesso pesa anche sulla nostra riflessione religiosa), ma non al sacrificio che giustamente si chiama “simbolico”, quello che è costitutivo della libertà, della comunità, della corporeità, e il cui evento ha luogo mediante il linguaggio. Si tratta del «sacrificio di una quota di soddisfacimento pulsionale, il prezzo che bisogna pagare per accedere alla dimensione umana della vita… Questo primo statuto simbolico del sacrificio non istituisce alcun danno per l’uomo. Non implica nessun fantasma, né alcun godimento perverso. Piuttosto traccia un passaggio obbligato che il vivente è tenuto a compiere. Affinché il suo corpo possa assumere la forma umana della vita, è tenuto a sacrificare una parte del suo godimento; senza questa perdita preliminare e irreversibile, non si dà possibilità di costituzione del soggetto» (19-20). Recalcati fa allusione, in questo contesto, al racconto della Genesi (alle pp. 20 e 50-52).
Ne segue che, nella storia complessa delle origini dell’uomo, soggetta a variazioni che coprono decine di migliaia di anni, legata alle scoperte operate da ricercatori sul campo e alle loro diverse interpretazioni, si potrebbe dire che l’uomo – quell’uomo che noi siamo ancora oggi – è apparso quando ha avuto la capacità di porre il gesto di un sacrificio simbolico. Fino ad allora, si può supporre l’esistenza di livelli più o meno avanzati di “coscienza” e di “azione” tra gli antropoidi. Ma l’uomo è apparso solo mediante lo scambio di parole che ha conseguenze sui corpi: introduzione della relazione, ossia di un gioco nello stesso tempo di distanza e di prossimità. Concretamente, si può supporre che, in un dato momento della storia della sessualità animale, le cui forme si sono evolute verso una espressione sempre maggiore, due antropoidi, maschio e femmina, all’improvviso hanno potuto dirsi qualcosa come “ti amo”, rinunciando a una autonomia che non sapeva riconoscere l’altro: allora si sono costituiti come soggetti uno di fronte all’altro. Forse l’autore della Genesi non ha voluto dire qualcosa di simile, quando l’uomo non intende per la prima volta il suo nome (isch) se non quando pronuncia quello della donna (ishah) o solo quando, più tardi, la riconosce come «madre dei viventi» (Eva)? Nulla impedisce neppure di pensare che lo stesso Dio vivente si sia manifestato all’uomo e alla donna attraverso una parola che li invitava, mediante il loro ascolto e il loro consenso, a divenire persone di fronte a lui: sacrificio simbolico, come riconoscimento di Dio mediante la rinuncia alla onnipotenza per entrare in comunione.
Si vede bene la differenza tra la visione delle origini centrata sul sacrificio simbolico, oggetto di invocazione e di domanda, di libertà e di risposta, e quella, più corrente, del comandamento imperativo emesso dal Dio onnipotente il cui destinatario è un uomo creato perfetto e che non vuole obbedire. Nel secondo caso si vede lo scontro di due perfezioni diseguali, quella di Dio e quella dell’uomo; la seconda paga il prezzo della sua rivolta con una perdita incommensurabile finché un eventuale redentore, anch’esso perfetto, ristabilisce l’ordine mediante un sacrificio espiatorio. Tuttavia il male non risulta perciò sradicato: l’eucaristia sarà allora il mezzo per ripresentare a Dio, giorno dopo giorno, il sacrificio espiatorio. Nel primo caso, invece, si trova un Dio che dona e che parla, deciso a continuare lo scambio fino ad un dono ultimo e reciproco: la comunione di tutti gli uomini nel Cristo mediante lo Spirito. Fin dall’istante della caduta, questo Dio non rinuncia mai, ma si impegna in una lunga storia di alleanza, in una “educazione del genere umano” dove il combattimento tra grazia e peccato conoscerà delle tappe, di volta in volta dolorose o felici, fino alla venuta di Colui che doveva venire. Dopo la venuta di questo messia atteso, il cui sacrificio simbolico si era iscritto nella storia del rifiuto, la salvezza prosegue, mediante il gioco continuo del sacrificio simbolico compiuto e reso perfetto in sintonia con la libertà degli uomini.[1] Finché non si giunga alla “fine”; cioè al simbolo compiuto, quando Dio sarà tutto in tutti. È questo, ai nostri occhi cristiani, il luogo dell’eucaristia, come memoria, presenza e passaggio.
[1] In un libro ormai molti anni fa, Dio, il tempo e l’essere (1986), avevo formulato l’idea che il sacrificio di Cristo dovesse essere interpretato anzitutto come “sacrificio di comunione” e solo in un secondo momento come “sacrificio per il peccato”. Il secondo aspetto è, si potrebbe dire, evenemenziale, mentre il primo è costitutivo dell’atto salvifico del Cristo di fronte al Padre suo.
Pubblicato il 9 marzo 2018 nel blog: Come se non.