Tutte le emergenze gravi, tutte le alterazioni profonde del rapporto con sé e con gli altri, costringono a percorrere vie insolite e rivelano molti pensieri segreti del cuore. Così è stato anche per la relazione tra condizione di pandemia e sacramento della penitenza.
Gli ultimi post che sono stati pubblicati (di Umberto Del Giudice e Marco Gallo) attestano come, tra le pieghe delle risposte veloci a situazioni imprevedibili non solo abbiamo fatto ricorso a modi del sacramento ai quali eravamo poco avvezzi, ma abbiamo scoperto anche qualcosa di nuovo: ciò che pensavamo del sacramento e delle sue modalità di celebrazione deve essere sottoposto ad esame e a riconsiderazione.
L’occasione della pandemia
Nei discorsi che abbiamo prodotto a tal proposito, è intervenuta spesso la espressione “terza forma” del sacramento. Questa espressione, che è fondata sulla struttura stessa del libro rituale del sacramento, il quale prevede appunto una “terza forma”, dopo una “prima” e una “seconda”. La prima è quella “individuale”, la seconda è la medesima, ma in un contesto comunitario; la terza è comunitaria e generale nell’assoluzione, ma subordinata a strette condizioni “di necessità”.
L’occasione offertaci dal protocollo di pandemia ci ha permesso di guardare la realtà da un’altra prospettiva, concentrando lo sguardo sull’essenziale. Per questo ci ha riportati al dettato del Concilio, che chiedeva una “riforma” considerando la “natura” e l’”effetto” del sacramento (SC 72). Ma quale è la natura e l’effetto del sacramento?
Per rispondere alle questioni sulla “terza forma” bisogna scavare nella “forma fondamentale” del sacramento della penitenza. Provo a farlo in quattro passaggi: prima cercando la “ragion d’essere” del IV sacramento; poi indagandone la struttura storica; successivamente mettendo in tensione “sistematica teologica” e “sistematica giuridica”; infine, rileggendo quanto è capitato nell’ultimo anno come suggestione ad una ripresa della “terza forma” in una direzione diversa da quella prevista dal Rituale e dal Codice.
Le tre forme e la “forma fondamentale” del sacramento
Dietro alle diverse forme con cui oggi è possibile celebrare il sacramento della penitenza c’è una lunga storia, al cui centro ruota, tuttavia, un’idea forte, che si è tradotta in forme diverse, ma che, in un certo modo, è rimasta sempre la stessa. Questa idea è la giustificazione teologica del sacramento, diciamo la sua “natura”, che determina anche il suo “effetto”.
Possiamo esprimerla così: l’iniziazione cristiana, costituita da battesimo, cresima e eucaristia, porta il fedele alla comunione con Dio in Cristo. Questo “stato di grazia” può essere minacciato sia dal peccato, sia dalla malattia. Per questo esistono due sacramenti “di guarigione”, che intervengono a resturare la condizione di comunione. Il sacramento della penitenza è pertanto il “procedimento speciale” con cui il fedele recupera la risposta al dono del perdono, che Dio rinnova instancabilmente, con uno specifico percorso di elaborazione del cuore, della parola e dell’azione.
Ogni riduzione del sacramento ad una sua parte tende a dimenticare la sua “forma fondamentale”, che è forma complessa, articolata nel corpo e nel tempo del soggetto penitente e del soggetto ecclesiale.
La trasparenza delle forme storiche di questa “forma fondamentale”
Nella forma “dottrinale” con cui il sacramento ci è stato consegnato, questa complessità è attestata con chiarezza. L’atto del ministro (assoluzione) si incontra con gli atti del penitente (contrizione, confessione, penitenza) e solo dalla sintesi di questi quattro livelli di azione e di considerazione si realizza la natura e l’effetto del sacramento. Storicamente questo è avvenuto in forme assai differenziate.
Nella storia le “forme” sono più di tre. All’inizio, da quando si è strutturato un tale procedimento, la forma “comunitaria” era l’unica e prevedeva tempi e spazi molto articolati. Poi, non senza difficoltà e discussioni è nata, accanto a quella, una forma “individuale”, che ha vissuto a lungo accanto alla precedente. Poi la forma comunitaria è scomparsa, ma quella individuale ha mantenuto una sua articolazione temporale consistente e una sua struttura esigente.
Finché, nella storia successiva al Concilio di Trento, anche la forma individuale si è diretta verso una sempre maggiore stilizzazione, diventando spazialmente e temporalmente puntuale. Un solo luogo e pochi minuti sono la “forma del sacramento”. Da un certo punto di vista questo ha assunto la sua figura più tipica nella descrizione canonica del sacramento.
Un sacramento ridotto all’assoluzione nel diritto canonico
Se la “forma fondamentale” del sacramento è il “processo” con cui la Chiesa si preoccupa che l’annuncio del perdono di Dio possa suscitare nel cuore, sulla bocca e nel corpo dei fedeli una risposta della libertà al rinnovato dono della grazia, è evidente che lo “specifico” del sacramento non sta nel dono di grazia, che il IV sacramento ha in comune con i primi 3 sacramenti, ma nel procedimento di recupero del soggetto che la grazia consente e che la libertà ristruttura.
La dimenticanza di questo processo, che è correlazione di dono e lavoro, è chiarissima nel modo con cui la normativa canonica descrive il sacramento. Provo a spiegarmi meglio. Quando si parla di “sacramento della penitenza” al can. 960, si avvalora una lettura semplificata – e per certi versi semplicistica – di ciò che il Concilio di Trento chiama “battesimo laborioso”: confessione e assoluzione, nel testo del Codice, sembrano sufficienti al realizzarsi del perdono di Dio.
In realtà, il sacramento, nella sua lunga storia, è sempre stato vitale solo quando ha conservato e custodito la sua “forma fondamentale”, ossia tutti e tre gli atti del peccatore-pentito: ossia, oltre alla confessione, la contrizione e la penitenza, le quali, per parlare fuori dai denti, sono la sofferta maturazione del pentimento interiore e il sofferto esercizio del cambiamento esteriore.
Queste dimensioni non sono mai puntuali e non si lasciano ridurre ad “atti formali” o ad “autocertificazioni”. Questo fenomeno formalizza il sacramento nella sua forma fondamentale, ossia nella sua “natura” e nel suo “effetto”. La natura e l’effetto non sono “negati”, ma “formalizzati”.
La terza forma del sacramento: limiti e opportunità
Se, alla luce della esperienza dell’ultimo anno, osserviamo la tradizione, scopriamo che la III forma non è semplicemente un’“infrazione alla norma” che richiede l’associazione di confessione individuale e assoluzione, ma una forma diversa per correlare il percorso penitenziale al perdono di Dio.
Da questo punto di vista, la novità è che, senza negare i limiti strutturali della III forma, che inevitabilmente rimanda a “percorsi personali di parola, di cuore e di corpo”, che possono e devono essere elaborati in altri tempi e in altri spazi, ora diventano più chiari i limiti strutturali della I forma, la sua assenza di respiro spaziale e temporale, la sua formalizzazione e astrazione dal cammino della tradizione.
In effetti, da quando abbiamo riscoperto l’iniziazione cristiana, e ne abbiamo fatto un progetto ecclesiale complessivo, a partire dal concilio Vaticano II, era inevitabile che la “forma tridentina” del sacramento subisse una sostanziale rilettura. Comprendere oggi che “fare penitenza” è un’esperienza che matura nell’esperienza battesimale/eucaristica, la quale trova nel IV sacramento il rimedio ad una “patologia” della vita cristiana, è una grande sfida con cui la tradizione riscopre quella parola forte con cui s. Tommaso diceva che il sacramento della penitenza riguarda la vita cristiana non “di per sé”, ma “in modo accidentale”.
La parola di Dio che perdona è uguale in tutte le forme del sacramento. Ciò che muta è come viene considerata la “risposta” che soggetti e comunità possono dare a questo dono inesauribile di misericordia. Su questa risposta è importante, è legittimo aspettarsi molto di più di ciò che il Codice prevede. Per questo, un dibattito teologico e pastorale sulla III forma e sulla “forma fondamentale” del sacramento è così prezioso. Riscoprire con urgenza la differenza del sacramento della penitenza dalla virtù della penitenza, e ritrovare il primato della seconda sul primo, è un compito che ci è stato consegnato dall’indicazione conciliare a dar nuova voce alla “natura” e all’”effetto” del sacramento.
La “pace” nel conflitto di interpretazioni sulla III forma è possibile solo riconsiderando la I forma e la sua adeguatezza: uno sbilanciamento “giudiziario” sull’assoluzione e una scarsa considerazione del complesso degli “atti del penitente” induce a trovare, anche grazie alla pandemia, una nuova pertinenza al “fare penitenza” delle assemblee penitenziali.
Non per “universalizzare il perdono”, ma per “personalizzare il percorso” con cui la vita riscopre la comunione con Dio, nel cuore, sulla bocca e nel corpo. Anche oggi, anche dopo e ancora dentro la pandemia, sappiamo che al cammino personale di riabilitazione del fedele non c’è alternativa. Ma ora sappiamo che la “forma normale” del sacramento non è meno priva di problemi della III forma. E che le risorse per riaccendere, di fronte al “dono di grazia”, il gusto del “lavoro su di sé” – nella preghiera, nella conversione e nell’azione – si trovano forse più in comune che in solitudine. E questo non è poco.
Che fare penitenza riguardi non anzitutto i singoli individui davanti al ministro, ma un cammino comune di cura per il cuore, la parola e il corpo, è una scoperta che, per paradosso, rinasce proprio in un tempo di “sospensione comunitaria”. La storia non finisce di stupire, nel farci riscoprire il tatto ecclesiale proprio quando è vietato toccarsi!
- In collaborazione con il blog Come se non di Andrea Grillo.
Sulla terza forma del sacramento della penitenza – cf. SettimanaNews
Assoluzione comunitaria per Natale
Penitenza: la pratica della terza forma
Penitenza: note sulla terza forma
Assoluzione generale: fare chiarezza
Dare futuro alla confessione comunitaria
Penitenza: terza forma e diritto liturgico
Terza forma della penitenza: percorso storico