A chi fa pubblicità Dio?

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Giuliano Zanchi è segretario generale della Fondazione Adriano Bernareggi (Bergamo). Si occupa di temi al confine fra l’estetica e la teologia ed è redattore della “Rivista del clero italiano”. Tra le sue pubblicazioni recenti: “L’arte di accendere la luce. Ripensare la chiesa pensando al mondo” (Milano 2015); “Le migrazioni del cuore. Variazioni di un’immagine tra devozione e street art” (Bologna 2017). Il testo che segue è tratto da Vita e Pensiero Plus apparso in data 17 Febbraio 2018.

Ennesimo caso di iconografia religiosa sfruttata a veicolo di persuasione pubblicitaria. A ogni occasione le polveri si alzano a fungo come se fosse la prima volta. Fin che la nuvola sta alta nel cielo della frenesia mediale, si dibatte all’impazzata, gli intellettuali scrivono, i polemisti da tastiera inveiscono, gli indignati si indignano, i libertari ironizzano, i benaltristi distinguono, gli intransigenti condannano: insomma, tutti fanno diligentemente la loro parte in questo rituale civile officiato dall’intatto potere delle immagini sacre e della loro intramontabile suggestione.

Dalle nostre parti, per la verità, siamo storicamente più a nostro agio con le contaminazioni fra sacro e profano. Un tempo era l’arte barocca a impadronirsi dell’erotismo classico per le sue sensuali scene devote. Si è sempre capito che il confine fra la cristallina purezza dello spirito e la densa umoralità dei sensi è tracciato da una linea il più delle volte indiscernibile. Quindi ha fatto un po’ di prevedibile rumore più di mezzo secolo fa la famosa réclame dei jeans di Oliviero Toscani, ma anche un po’ per nulla, perché l’attrazione reciproca è rimasta fatale. Basterebbe ricordare quello che hanno fatto Moschino e Dolce & Gabbana con l’immagine del Sacro Cuore, le “pietà” pubblicitarie di Kookaï, Pinko e Byblos, la sant’Anna di qualche tempo fa messa su giganteschi cartelloni per reclamizzare succhi di frutta, tralasciando l’interminabile antologia degli artisti che hanno fatto dell’immagine devota un must delle loro non necessariamente offensive ironie, da Pierre et Gilles, a Soasig Chamaillard, a David Lachapelle. In tutti questi fatti a risaltare è più l’intatto potere dell’icona che non il gesto di superficie che sembra trasgredirla.

Ma stavolta c’è di mezzo la Lituania, uno di questi strani paesi baltici ex sovietici che, dopo decenni di asfissiante totalitarismo, vanno tutti assumendo orientamenti vagamente autoritari. Nostalgia canaglia. Quindi, ecco come vanno le cose: il governo lituano condanna l’azienda colpevole di un atto lesivo della sensibilità credente e le istituzioni europee la assolvono, scatenando la solita questione di giurisprudenza comunitaria, che va dal diametro dei cetrioli alla lunghezza dei cacciaviti, glissando sulle quote profughi per nazione, ma sempre irremovibile quando si tratta della libertà di espressione. Ormai è un format. Ogni volta porta alla luce del sole l’impossibile quadratura del cerchio liberale che fa da perimetro alla nostra nuova ortodossia civile. Una storia lunga. Già nel Seicento, secolo madre del principio di tolleranza, ci si era cominciati a chiedere fin dove bisogna spingersi a tollerare. Questa vicenda parla più dei limiti interni ai protocolli culturali della nostra Europa democratica che delle offese recate da certe immagini alla sensibilità religiosa. Ovviamente non mancano quelli che ci fanno la cresta elettorale.

In tutto questo, a vincere la contesa sembra di sicuro la griffe al centro della bagarre, che non poteva sperare in una notorietà di più ampia diffusione, planetaria e gratuita. E a essere messa alla prova è anche la tenuta emotiva del mondo religioso, diviso fra tentazione allo strepito, conferma sociale di molti luoghi comuni, e un signorile contegno, frutto dell’intelligenza e munito del sorriso, cosciente del fatto che nulla può realmente offendere il Dio in cui si crede, se non l’incoerenza di chi lo testimonia, quindi anche attenta a non iniettare il botulino dell’importanza in qualcosa che di suo non ne ha granché. Questa signorilità renderebbe al mercato quel che è del mercato, e a Dio quel che è di Dio.

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