Il 30 novembre prossimo è programmata la consacrazione della nuova cattedrale di Bucarest (Romania). A croce greca, 120 m. di lunghezza, altrettanti in altezza, capace di 5.000 fedeli (ma nell’intero complesso molto di più, 125.000), 600 muratori e tecnici impiegati, 400 milioni di euro di spesa preventivata. Pensata per la durata di 500 anni e per resistere a terremoti fino all’8° grado della scala Richter, occuperà una superficie di 7.200 mq, con 600 finestre e vetrate. Sei le campane, la più grossa peserà 25 t.
Oltre alla chiesa, è previsto un ospedale, spazi per i pellegrini, per la curia patriarcale e un hotel. La costruzione, che oscurerà per splendore e bellezza il vicino parlamento, sarà la più grande cattedrale ortodossa del mondo e porterà il titolo «Salvezza della nazione» o «Cattedrale della redenzione nazionale». È già annunciata la partecipazione del patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo.
Nuova coscienza e grandi chiese
Dopo la caduta dei regimi dell’Est si è avviato un forte investimento delle Chiese ortodosse nella costruzione dei luoghi di culto. Decine di migliaia in Russia, migliaia in Romania (le due Chiese più consistenti come numero di fedeli), ma anche in Albania, Bulgaria, Serbia, Ucraina. Grossi investimenti anche nella diaspora, come la recente costruzione della chiesa ortodossa russa a Parigi. Rispetto alle tre grandi cattedrali ricostruite o completate (Cristo Salvatore a Mosca-Russia, San Sava a Belgrado-Serbia, Trinità a Tiblisi-Georgia), quella di Bucarest nasce ex novo.
Il parlamento concede lo spazio nel 2005, i lavori partono nel 2011, l’inaugurazione alla fine del 2018 con l’attuale patriarca Daniel. Nel 2005 il patriarca Teoctist, a 16 anni dalla rivoluzione anticomunista, riprende il sogno del re di Romania, Ferdinando di Hohenzollern-Sigmaringen, e del patriarca Miron Cristea del 1920, dopo che, nel 1918, il paese ha visto riconoscere i confini ancora attuali (la Grande Unione). Un monumento come luogo di sintesi per tutte le culture e tradizioni del paese.
La costruzione incrocia il tema della memoria della Chiesa nazionale e del passato comunista, la sua funzione anti-islamica, la questione della laicità e della politica e, infine, l’attuale momento ecumenico.
Una colata di cemento sulle ambiguità?
L’evangelizzazione del paese nasce all’incrocio fra tradizione della Dacia con l’elemento romano e i primi missionari sono di lingua latina. Il passaggio all’area di influenza di Costantinopoli e l’arrivo dei popoli slavi assieme alla lingua paleoslava per l’uso liturgico inducono la prevalenza orientale su un ceppo resistente e significativo di riferimento occidentale.
L’opposizione al calvinismo della Riforma porta al documento d’unione con Roma nel 1700 da parte del patriarca di Transilvania, dando forma, assieme alla maggioritaria tradizione ortodossa, a quella Latinitas orientalis che la Grande Unione formalizza.
Il deposito storico più recente è quello, assai pesante, del comunismo imposto dall’Unione Sovietica e dalla perversione degli animi alimentata dal regime. Le relazioni del governo con la Chiesa ortodossa sono state ambigue. Tutti i credenti sono stati perseguitati, ma una parte dei dignitari ecclesiastici ortodossi hanno collaborato strettamente con il comunismo. Una pagina non ancora chiarita.
La recente visita del patriarca Cirillo di Mosca (ottobre 2017), la prima dalla caduta del totalitarismo, se, da un lato, è servita al patriarca Daniel per tacitare la resistenza tradizionalista del monachesimo e per proporsi come punto di contatto fra ortodossia d’Oriente e d’Occidente, dall’altro, nella comune ed esibita memoria dei martiri del comunismo, si intravede una volontà di non approfondire le reciproche responsabilità. Rimane aperto il contenzioso giurisdizionale nell’area della Moldavia rivendicata da Mosca.
La potenza dell’edificio basilicale è la rivendicazione dell’egemonia dell’ortodossia su tutto il territorio nazionale (su 19 milioni di abitanti l’80% è ortodosso con una frequenza religiosa molto alta) e un simbolico baluardo anche nei confronti dell’islam.
Tradizionalmente e pacificamente presente con una minoranza turca (70.000) nell’area di Dobrugia, l’islam locale si è visto regalare su un piatto d’argento il progetto di una grande moschea nella capitale, totalmente sovvenzionata dalla Turchia di Erdogan. Scelta accettata dal governo e dalla Chiesa ortodossa, ma poco digerita dall’opinione pubblica preoccupata dal terrorismo fondamentalista.
I martiri diseguali
Le opposizioni più esplicite al progetto sono arrivate dal versante dell’associazione degli architetti, poco convinti della sua pertinenza nella tradizione locale, e dall’area umanistico-laica che denuncia l’impegno finanziario dello stato, il 70% della spesa, come improprio. E sulle eccessive spese affidate ai contribuenti trova un significativo consenso popolare. Il 61% è favorevole alla costruzione, ma il 58% è ostile ad un intervento finanziario dello stato.
Il percorso ecumenico ha conosciuto passi importanti: da figure di prestigio, ora rimosse, come il metropolita Nicolae Corneanu (1923–2014) all’assemblea ecumenica di Sibiu (settembre 2007). Ma oggi ha meno spinta. Ne è un segnale la dolorosa polemica sull’assenza nel ricordo dei martiri dei cattolici orientali e l’apparire di forme di negazionismo. È quanto è successo in una trasmissione televisiva del 23 ottobre 2017 quando il collaborazionismo del patriarca Justinian Marina, sintonico col nascente regime comunista e con l’azzeramento della Chiesa “uniate”, è stato presentato come attore di una «pedagogia divina» in ordine alla unificazione confessionale del paese.
I numerosi martiri della resistenza cattolica come i vescovo I. Hossu, J. Ploscaru e A. Todea, appaiono come doppiamente “perdenti”: rispetto alla forza del regime e al progetto dello Spirito che si sarebbe servito del comunismo.
Il vescovo greco-cattolico di Oradea, Virgil Bercea, commenta: «Ci fa male questo tentativo di riscrivere la storia della nostra Chiesa da parte della Chiesa ortodossa, come anche le riscritture della resistenza anticomunista che, ultimamente, si sono moltiplicate. Noi, greco-cattolici, ci assumiamo la storia così com’è stata e proviamo a rispettare i martiri e coloro che salvarono la dignità del popolo rumeno, a far guarire le ferite in spirito di fratellanza e non adottando posizioni di forza».
Negli oltre 150.000 metri cubi di cemento della costruzione si intrecciano molti e contrastanti elementi: dal cinismo di chi la definisce già la «perenne incompiuta» alla nuova consapevolezza confessionale gravata da un passato non digerito e da un futuro di evangelizzazione assai impegnativo.