Probabilmente è troppo presto per capire se l’epidemia del coronavirus (per gli amici, Covid-19) è un “incidente di percorso”, in una storia che sembrava avviata sui binari della necessità, o se pone le premesse perché questa storia abbia una svolta imprevista e imprevedibile. La sola certezza è che lo shock di questa esperienza ci costringe fin da ora a uscire dai nostri schemi consolidati e a guardare le cose in modo diverso.
Un fulmine (e che fulmine!) a ciel sereno
A rendere traumatica tutta questa vicenda sono stati il suo carattere repentino e le sue dimensioni planetarie. Fino all’inizio di gennaio – solo due mesi fa! – nessuno avrebbe potuto sospettare che il mondo fosse sul punto di essere coinvolto in una sfida che lo avrebbe riguardato nella sua totalità, mettendo in crisi l’economia, gli stili di vita, la sicurezza non solo di un Paese, o anche di un continente, ma dell’intero pianeta.
La sorpresa è stata dovuta alla velocità del contagio. Dal 9 gennaio 2020 – il giorno in cui le autorità cinesi hanno comunicato ufficialmente l’apparire, nella città di Wuhan, di un’infezione respiratoria causata da un virus finora sconosciuto – ad oggi, il Covid-19 si è diffuso con una rapidità incredibile, prima in Cina, poi nel resto del mondo, facendosi beffe dei “cordoni sanitari” che tentavano di confinarlo nel suo luogo, o, almeno nel Paese, di origine.
Così, a differenza di altre varianti di coronavirus apparse nel recente passato – la Sars (più di 8.000 persone contagiate, con 800 morti) e la Mers (solo 840 contagi, ma con 320 decessi) – questo nuovo virus non si è limitato a imperversare prevalentemente in Asia, ma oggi è diffuso in tutti i continenti, con quasi 100.000 contagiati e più di 3.000 morti (numeri ancora provvisori e purtroppo in costante aumento). Dove è evidente la minore percentuale di decessi rispetto alle precedenti epidemie, ma lo è anche l’immensa sproporzione tra la rispettiva capacità di propagazione, da cui deriva un numero maggiore di morti.
Gli effetti sull’economia
Ma, se l’impatto di Covid-19 è probabilmente senza precedenti, negli ultimi cent’anni, per estensione, ancora più impressionante è la sua incidenza in profondità sulla vita delle persone.
A cominciare dall’economia. Dalla fine del secolo scorso il sistema capitalistico, dopo il crollo dei regimi socialisti, si era ormai affermato senza alternative. A scuoterlo non era valsa neppure la grande crisi del 2008.
Covid-19 scompiglia i giochi perché non opera al livello delle merci e del denaro, ma a quello delle persone. Come conferma il fatto che neppure l’iniezione di liquidità realizzata da alcune banche centrali, agendo sui soliti meccanismi finanziari, riesce ad arginare la crisi. E il motivo è semplice. È in gioco qui l’umana fragilità.
Produttori di beni o servizi e consumatori si scoprono minacciati nella loro salute e, a cominciare dai cinesi, abbandonano i ruoli loro assegnati dal mercato, i primi assentandosi dai loro posti di lavoro per la malattia o per motivi di sicurezza, i secondi facendo crollare la domanda, soprattutto in settori come il turismo, la ristorazione, lo spettacolo e i trasporti.
Il Covid-19 smaschera il punto debole del capitalismo
Dietro la logica del profitto, dietro i numeri del PIL, appare improvvisamente il volto di esseri umani che hanno paura, che soffrono, che muoiono. L’economia mondiale, certo, prima o poi si riprenderà. Ma una crepa si è aperta nel ritmo frenetico di una società in cui i ritmi di lavoro erano dettati da regole puramente aziendali. Ora molti sono costretti a fermarsi, perché infettati o perché in quarantena.
E fermarsi è incompatibile con la grande legge della nostra società per cui “il tempo è denaro”. Come lo è l’astenersi dallo shopping, dalle serate in discoteca, dalle crociere. Da tutto quello che faceva funzionare la grande macchina del consumismo. Colpendo le persone – quelle che producono e quelle che acquistano – l’epidemia mette a nudo l’importanza del fattore umano che i numeri mascheravano e lo mette in crisi.
Il virus, oltre ad essere cattivo, è sovversivo.
Il Covid-19 irride il sovranismo
Ma anche la politica è interpellata da questa epidemia. Il risorgere delle chiusure nazionalistiche, con l’affermazione più o meno esplicita del sovranismo, ci stava quasi facendo dimenticare che la globalizzazione è incompatibile con la logica del “prima noi”.
E di questa dimenticanza vediamo tuttora gli effetti nel gioco meschino dei tentativi di scaricare sugli altri Paesi le colpe e i danni dell’epidemia, cercando di trarne perfino dei vantaggi per il proprio. L’Italia, dove i sostenitori del sovranismo hanno trovato in questi ultimi due anni un fertile terreno propagandistico, all’insegna dello slogan “prima gli italiani”, dopo una fase in cui ha creduto di poter ancora alzare illusorie barriere protettive, sta ora sperimentando sulla propria pelle, in questi giorni, la vergognosità di questa corsa a demonizzare gli “altri” e l’umiliazione di vedere i propri cittadini respinti indietro.
Ma il coronavirus, nella sua corsa spietata, sta dimostrando di non essere impressionato dalle frontiere e, con la sua malvagità, ci costringe a ricordarci di essere affratellati nella sventura dal nostro essere uomini. Torna alla mente che Einstein, entrando negli Stati Uniti, nel modulo che bisognava riempire, alla voce “razza”, scrisse: “umana”.
Proprio perché non ha nazionalità, Covid-19 ci attacca non perché cinesi o italiani, ma perché esseri umani, in un mondo globalizzato dove si rivelano più che mai vere le parole del poeta inglese John Donne (1573-1651):
«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso./ Ogni uomo è un pezzo del continente,/ una parte del tutto./ Se anche solo una zolla fosse portata via dal mare,/ l’Europa ne è diminuita,/ come se lo fosse un promontorio,/ o una magione amica,/ o la tua stessa casa./ Ogni morte d’uomo mi sminuisce,/ perché io sono parte dell’umanità./ E dunque non mandare mai a chiedere/ per chi suona la campana:/ essa suona per te».
Il virus è cattivo, ma non è sovranista.
Sì, nessun uomo è un’isola
Questo si è verificato anche nei rapporti personali. Qualcuno ha creduto di poter vedere nelle regole di prudenza imposte dal diffondersi dell’epidemia un fattore che conferma e rafforza la tendenza, oggi sempre più diffusa, a prendere le distanze dagli altri.
In realtà, quello che sta succedendo smentisce il mito liberale secondo cui “la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro” , e per cui quindi ognuno, nella sua sfera, è padrone di fare ciò che vuole, purché non valichi il confine che lo separa dall’altro. Il trentottenne di Lodi passato alla cronaca come “paziente 1” non aveva fato altro che esercitare la propria più che legittima autonomia svolgendo una serie di attività che non implicavano alcuna invasione della sfera vitale altrui.
Il risultato però è stato che le vite di molte altre persone sono state egualmente condizionate in modo decisivo dal semplice contatto con lui. E oggi sappiamo tutti che una persona, facendosi “i fatti suoi”, può contagiare altri e, in casi estremi, condannarli a morte. Vale anche per i singoli la verità che “nessun uomo è un’isola”, e che dunque ognuno di noi è responsabile degli altri. E non solo sul piano sanitario.
Il virus è cattivo, ma non è individualista.
Riscoprirsi popolo
Un ultimo sconvolgimento che il Covid-19 sta producendo è, in Italia, l’esplodere delle tensioni fra l’accentuato senso dell’autonomia di alcune regioni e l’unità nazionale, che trovano un riscontro nelle polemiche dei partiti di opposizione, fautori di quell’autonomia, nei confronti di un governo centrale che spesso dà l’impressione di non avere l’autorevolezza e la compattezza per fronteggiare in modo adeguato l’emergenza.
La sfida stessa del coronavirus ci costringe, oggi, ad andare oltre queste conflittualità non sempre disinteressate. Lo ha detto nel suo discorso alla nazione il presidente Mattarella: «Il momento che attraversiamo richiede coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti (…). Alla cabina di regia costituita dal Governo spetta assumere – in maniera univoca – le necessarie decisioni in collaborazione con le Regioni, coordinando le varie competenze e responsabilità. Vanno, quindi, evitate iniziative particolari che si discostino dalle indicazioni assunte nella sede di coordinamento».
Un messaggio chiaro, che richiama, al di là delle legittime autonomie, a riscoprire l’unità nazionale.
Il virus è cattivo, ma non è separatista.
Forse c’è qualcosa che varrebbe la pena di non dimenticare
Probabilmente, quando saremo liberati dal flagello del Covid-19, tutto riprenderà come prima. Potremo di nuovo vivere la nostra vita all’insegna della corsa al profitto e ai consumi, illuderci di “difendere” le nostre frontiere da altri esseri umani, rivendicare i nostri sacri diritti senza chiederci che cosa comportano per gli altri, continuare a litigare sull’“autonomia fiscale” delle regioni del Nord.
Non rimpiangeremo certo questi mesi di passione, in cui le nostre vite sono state sconvolte. Forse però dal coronavirus sta venendo una (dolorosa) lezione che può far aprire i nostri occhi sulla relatività di quelle logiche e degli schemi mentali che le supportano. Una lezione che varrebbe la pena di non dimenticare.
I dati statistici presentati nell’articolo rislagono alla data della sua prima pubblicazione (6 marzo 2020).
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Il mondo non sarà più lo stesso. La società, più povera non per tutti, rischia un conflitto per le disuguaglianze che si creeranno. Mi auguro, dalla pandemia, si riesca a trarne del buono.