I commentatori delle cose ecumeniche si sono abituati da molto tempo – e in particolare dall’uscita del decreto del Vaticano II Unitatis redintegratio (21/11/1964) – a far ricorso a metafore atmosferiche, per indicare lo stato del cammino di incontro tra le Chiese cristiane. Così, negli anni immediatamente seguenti al concilio, prevaleva l’indicazione, densa di speranze, di una prossima primavera ecumenica, nella sensazione – in effetti assai diffusa – che in questo ambito il tempo si stesse mettendo al bello; mentre, nell’ultimo decennio, dopo la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), è diventato comune il riferimento ad un autunno, o addirittura un inverno ecumenico, ben distante dalle attese postconciliari. Proprio a Sibiu, del resto, era stato il card. Kasper, allora presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, a fare presente che «un ecumenismo di coccole o di facciata, in cui si desidera solamente essere gentili gli uni con gli altri, non aiuta a compiere progressi; solamente il dialogo nella verità e nella chiarezza può sostenerci nell’andare avanti».
Le ripetute affermazioni identitarie che sono affiorate persino nell’appuntamento romeno, a chiusura del Processo conciliare su Pace, giustizia e salvaguardia del creato, potevano ritenersi un autentico segno dei tempi, sia pure palesemente ambiguo: tempi complessi per l’ecumenismo, di timori verso le derive relativistiche, di necessità di discussioni franche su questioni percepite come strategiche, a partire dalla morale pubblica e dalla bioetica…
E ora, dieci anni dopo Sibiu, quale stagione stiamo attraversando? È legittimo, come a me sembra, sostenere che, se non proprio una nuova primavera a tutto campo, quanto meno stia chiudendosi l’inverno più cupo, e vada aprendosi una fase comunque ricca di potenziali sviluppi?
Un papa di nome Francesco
Alcuni dati. Il primo: e venne un papa di nome Francesco. Nomen omen: con la sua elezione, il popolo del dialogo, non solo cattolico – reduce da stagioni segnate più da delusioni che da attese compiute – ha risollevato il capo, tornando a coltivare speranze. Grazie a segnali emersi all’impronta, dalla cordialità inattesa del saluto al mondo al suo strategico autodefinirsi vescovo di Roma, prima di papa: perché si è papi in quanto vescovi della Chiesa che presiede nella carità tutte le Chiese (Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani I,1); e non viceversa. Un’opzione carica di significati, soprattutto nella grammatica dell’ecumenismo, se le modalità con cui si percepisce il primato petrino sono a oggi fra gli ostacoli più ingombranti in vista dell’unità: l’aveva già ammesso Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995).
Da allora, per Bergoglio sarà un susseguirsi inesausto di gesti, incontri, dichiarazioni, con uomini e donne di Chiese diverse, forte di una sensibilità largamente maturata in terra argentina. Con tanti momenti forti: i ripetuti incontri con il patriarca ecumenico Bartolomeo I, ormai partner abituale delle più rilevanti iniziative pontificie, o quello, storico, a Cuba con Kirill, patriarca ortodosso di Mosca; ma anche, per restare a casa nostra, la visita al Tempio valdese di Torino il 22/6/2015, mai avvenuta da parte di un papa dall’età di Valdo, oltre otto secoli fa, letta a buon diritto come un punto di non ritorno nelle relazioni fra le due Chiese.
La sensazione diffusa è che la spinta di Francesco su questo versante – ma forse ancor più il suo stile (C. Theobald) – stia cominciando a fare breccia presso una Chiesa, la sua, abituata a pensare ben di rado alle questioni ecumeniche; e di considerarle, inoltre, elementi marginali, ininfluenti nella costruzione di un’autentica identità cattolica.
Turning point?
Un secondo elemento riguarda il fatto che il 2017 è stato un anno di svolta del movimento ecumenico, dato che, mentre in tutto il mondo si sono celebrati i 500 anni della Riforma, protestanti e cattolici hanno dato vita a eventi capillari di incontro, scambio e confronto, come mai era avvenuto prima d’ora. Il bilancio di tali celebrazioni smentisce clamorosamente la profezia di un declino ecumenico.
Anche grazie alla svolta imposta dallo stesso Francesco (camminare insieme…) nella promozione di nuove e più intense relazioni, oltre che con gli ortodossi, con i protestanti delle Chiese storiche e con gli evangelici che si ritrovano nella galassia pentecostale, il 2017 potrebbe cambiare lo scenario ecumenico e avviare una nuova fase delle relazioni tra le diverse Chiese cristiane.
Certo, non tutto è lineare, e talora il dinamismo di Francesco può rischiare di mettere in ombra le lentezze e i residui pregiudizi di certi settori della base cattolica. Così, come in ambito evangelico, resistono qui e là solidi pregiudizi antiecumenici. Tuttavia, nello scenario post-moderno e post-secolare che ogni giorno si consolida, l’ecumenismo si conferma come una realtà che cresce silenziosamente nei fatti e nei comportamenti dei cristiani. Per qualcuno è addirittura la strada obbligata di un cristianesimo che voglia restare significativo nella sfida del pluralismo e della globalizzazione.
Per capirlo meglio, torniamo all’evento di Lund (31 ottobre – 1° novembre 2016), inaugurazione ufficiale dell’anno giubilare luterano e verosimile turning point sul piano ecumenico. Un viaggio ecclesiale, che la gente deve capire bene: così l’aveva descritto lo stesso Francesco, durante il volo di andata, rivolto ai giornalisti. Due sottolineature autorevoli, e tutt’altro che casuali, per un ennesimo passaggio di questo pontificato per il quale l’aggettivo epocale, per quanto abusato, non appare esagerato.
Ecclesiale, nel senso che a Lund si sono incontrati i rappresentanti di due fratelli, figli di altrettante Chiese (e non di una Chiesa e di una comunità ecclesiale, come ancora si esprimeva timidamente il Vaticano II nell’Unitatis redintegratio, aprendo la via a decenni di ecumenismo a doppio binario, a privilegiare il rapporto con il mondo ortodosso); ma anche nel senso che quanto accaduto racchiude un evidente risvolto su cosa s’intenda per Chiesa, se, ad esempio, si è trovata la forza per ringraziare Lutero per quanto operò affinché la lettura della Bibbia plasmasse qualsiasi identità ecclesiale, non solo quella protestante; oltre che per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma.
Un evento – inoltre – che la gente deve capire bene, per evitare fraintendimenti o l’idea di qualsiasi cedimento al nemico, assai diffusa sul web presso siti ultraconservatori, per cogliere invece nell’abbraccio fra papa Bergoglio e il vescovo palestinese Munib Younan, presidente della Federazione Luterana Mondiale, un momento squisitamente evangelico: dove entrambi i protagonisti possono legittimamente considerarsi padri misericordiosi e figlioli prodighi reciprocamente bisognosi dell’altro, ritrovatisi, infine, dopo cinque secoli di ferite vicendevoli in cui, come hanno sottoscritto congiuntamente con ammirevole franchezza, «le differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti e la religione è stata strumentalizzata per fini politici». Proseguendo nei seguenti termini: «Attraverso il dialogo e la comune testimonianza non siamo più estranei. Esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere lo straniero, per venire in aiuto di chi è costretto a fuggire a causa di guerre e persecuzioni, e per difendere i diritti dei rifugiati e di coloro che cercano asilo».
Ma deve capirlo bene, la gente della base, anche perché le ripetute accelerazioni sul versante intercristiano, cui si è accennato sopra, si facciano storie vissute concretamente a livello di Chiese locali, parrocchie, comunità e singoli cristiani. Esperienze che precedono e accompagnano il dialogo teologico, rendendolo meno traumatico e liberandolo da possibili derive ideologiche, freddezza diplomatica e logiche politiciste, in un itinerario ecumenico in cui Francesco sta immettendo quasi un senso di fretta, e una svolta umana dai riflessi ecclesiali, più che di diplomazia; fino a coinvolgervi anche le voci della terra e del popolo.
La posta in gioco, del resto, com’è ben chiaro al papa argentino, non è da poco, ma addirittura la possibilità, o meno, di risultare credibili, da parte dei credenti nel Signore Gesù, agli occhi del mondo.
Segnali dalla base
Un terzo punto su cui è necessario soffermarsi riguarda i riflessi di quanto già notato a livello di vertice sull’ecumenismo di base. Soprattutto perché qui i segnali di un fermento inedito sono davvero numerosi: non andranno sopravvalutati, come potrebbe sostenere chi è abituato a vedere il bicchiere mezzo vuoto, ma sarebbe ingiusto, e miope, sottovalutarli.
Il 5 dicembre scorso si è registrata la firma dei rappresentanti di tutte le principali Chiese di un documento che sancisce ufficialmente l’avvio di una Consulta ecumenica delle Chiese cristiane presenti in Italia, che segue le tante esperienze analoghe partite negli ultimi anni in diverse città, grandi e piccole.
Non si tratta di cose di poco conto, ma di realtà, alcune già ben consolidate, che abituano a pensare il cristianesimo come un evento plurale; che fanno emergere le ovvie differenze (persino numeriche) e normali conflitti, che però vengono affrontati e gestiti sempre più spesso insieme, come un’occasione preziosa per misurare il grado della comunione in atto.
Il nuovo organismo, su cui si sta ancora lavorando per definirlo meglio, non sarà in ogni caso una struttura giuridica, ma un punto stabile di incontro che, come spiegano i promotori, è «segno della volontà di continuare insieme il cammino intrapreso negli ultimi anni dalle Chiese, con l’intenzione di avere un organo di collegamento e consultazione il più veloce e agile possibile per poter intervenire come cristiani su temi di attualità o di emergenza e promuovere iniziative comuni; un organismo però che possa anche venir riconosciuto in via ufficiale da ciascuna delle parti in causa, da ciascuna Chiesa quindi».
Contestualmente, l’attivismo intelligente dell’UNEDI (Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso) della CEI, guidato da qualche anno dal presbitero trentino Cristiano Bettega, sta producendo, o favorendo, una gran messe di iniziative: da una convegnistica di livello (nel corso del 2017, a contrappuntare l’anno luterano si sono svolti convegni, intensi e partecipatissimi, a Trento, due volte, e Assisi, ad esempio) alla nascita di organismi regionali che raggruppano gli uffici diocesani per l’ecumenismo (ultimi casi, la Liguria e l’Emilia-Romagna).
Certamente il Giubileo della Riforma ha rappresentato una notevole spinta a far passare il discorso della riscoperta dell’altro anche a livello di base. «Ci sono stati centinaia e centinaia di incontri, c’è stata un’evangelizzazione ecumenica molto forte», ha detto don Bettega. «Anche appuntamenti di non grandissima risonanza, molto semplici ma appassionati: sono è un bel segnale di una mentalità ecumenica che piano piano sta passando».
Non solo. Appuntamenti tradizionali e consolidati confermano, e anzi, migliorano, la loro capacità di attrazione. I convegni ecumenici di Bose, da molto tempo un punto di riferimento qualificatissimo soprattutto sul versante ortodosso, e quelli dell’Istituto di studi ecumenici di Venezia, che attualmente sta lavorando ad un progetto ecumenico sulla teologia dell’ospitalità, e quelli costantemente promossi dall’Istituto di teologia ecumenico-patristica San Nicola di Bari.
E poi il lavoro del SAE (Segretariato attività ecumeniche), l’organismo più antico esistente nel Paese, nato nei dintorni del Vaticano II per merito di una donna coraggiosa, Maria Vingiani, e oggi guidato dal ferrarese Piero Stefani, che è a sua volta succeduto alla veronese Marianita Montresor, scomparsa prematuramente poco più di un anno fa. La cui Sessione di studi estiva ha da qualche anno trovato una sede felice a Santa Maria degli Angeli/Assisi, e appare in progresso anche sul piano del numero dei partecipanti, oggi oltre 250, provenienti da quasi tutte le regioni.
Vi si aggiunga l’impegno di alcune realtà associative, dalla FUCI all’Azione cattolica che, a livello locale ma anche nazionale, sta investendo su corsi di formazione a carattere ecumenico, favorendo fra l’altro una certa risposta a un problema che da sempre colpisce il movimento ecumenico, la questione della trasmissione generazionale e la presenza di giovani in esso.
Tutto questo, e molto altro, è poi puntualmente registrato dal bollettino on line Veritas in caritate, curato da Riccardo Burigana che, proprio nelle settimane scorse, ha raggiunto il bel traguardo dei cento numeri. Che va segnalato per il gran servizio che – minuziosamente, pazientemente – sta offrendo, con un obiettivo prezioso: fornire un quadro il più possibile esaustivo di quanto si muove nel mondo dell’ecumenismo in Italia, a partire da quanto accade, in genere senza speciali clamori, nelle Chiese locali, le parrocchie e le altre comunità. Ed è tanto, molto più di quello che si aspetti un osservatore non coinvolto direttamente nel movimento ecumenico.
Ut unum sint
Potremmo allora fotografare l’esistente, parafrasando la bella espressione della costituzione conciliare Gaudium et spes: uniti nell’essenziale, liberi nelle cose dubbie, diversi nell’esprimere in molteplicità di forme lo stesso vangelo (n. 92). Perché già oggi – nonostante tutto! – le diverse Chiese vivono insieme, fra insperati successi e perduranti delusioni: una coabitazione che non somiglia alla rarefatta delicatezza di una sororità monastica, ma piuttosto alla caotica e litigiosa sororità di una vera famiglia.
Da questo punto di vista, come esortavano i teologi del Gruppo di Dombes, le Chiese, tutte, sono chiamate a entrare in un «dinamismo di conversione» (1991); e a «superare l’autosufficienza» confessionale, come invita a fare la Charta oecumenica (2001), al n. 3.
Sì, per noi, cristiani immersi nella cultura della postmodernità che viviamo l’esperienza dell’essere Chiesa a oltre cent’anni dall’avvio del movimento ecumenico e a oltre cinquanta dal Vaticano II, il dialogo ecumenico non dovrebbe essere un’opzione fra le tante, da perseguire o meno a seconda delle stagioni, bensì la forma comune dell’essere cristiani oggi.
La ricerca dell’unità, da parte dei cristiani, non andrebbe letta come una pura questione strategica, adottata per il conseguimento della forza ritenuta necessaria contro gli altri, i non cristiani o i (cosiddetti) non credenti. Come dichiarava apertamente Giovanni Paolo II nell’Ut unum sint: «L’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche appendice che si aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo» (n. 20).
E come ha ricordato qualche anno fa (15/11/2010), aprendo l’Assemblea plenaria del 50° anniversario del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, il suo presidente card. Kurt Koch: «La speranza ecumenica è alimentata soprattutto dalla convinzione che il movimento ecumenico è l’opera grandiosa dello Spirito Santo; saremmo persone di poca fede se non credessimo che lo Spirito porterà a compimento ciò che ha cominciato, quando, dove e come lui vorrà. Con questa speranza continuiamo il cammino ecumenico, passo dopo passo. E questo, davanti alle difficoltà innegabili della situazione odierna, è già molto: è esattamente ciò che ci viene richiesto. Ed è l’essenziale».
Tutto risolto?
Tutto è risolto, dunque? Evidentemente, no. Come ha notato correttamente il liturgista Andrea Grillo a margine delle nuove relazioni fra cattolici e luterani, riflettendo dal punto di vista cattolico, «senza una teologia dell’eucaristia e del ministero all’altezza della sfida, non si farà molta strada». A suo parere, è evidente che il gesto storico compiuto da Francesco a Lund è comunque assai più avanti delle parole con cui si sia potuto commentarlo; mentre la fraternità e la sororità che ha saputo esprimere e far sperimentare sta molto oltre i concetti e le rappresentazioni che possiamo utilizzare per descriverlo e per valutarlo.
Sta di fatto che, in neppure un quinquennio, Bergoglio, coraggiosamente, si è lasciato ormai alle spalle il modello della pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II, che traduceva la traiettoria inaugurata da Nostra aetate, e il dialogo delle culture di Benedetto XVI, in risposta all’irrigidimento causato dal timore dello scontro di civiltà dopo l’11 settembre, per abbracciare un’autentica teologia dei gesti: ridisegnando così radicalmente il paradigma dell’incontro fra le Chiese, puntando sui tratti dell’esperienza spirituale, della preghiera, dell’ascolto, del servizio ai poveri, della carità. Del camminare insieme. In una parola: della teologia, non quella dei manuali ma quella – francescanamente – della vita vissuta.
Nel quadro tracciato sinora, sia pur per sommi capi, quanto emerge è che, oggi, non si può essere cristiani senza essere ecumenici: l’ecumenismo è inscritto nel futuro del cristianesimo tutto; e il suo futuro può solo essere ecumenico.
Purtroppo, però, bisogna altresì riconoscere che l’ecumenismo è ancora, in tutte le Chiese, un fatto in crescita ma tuttora largamente minoritario. E che, se tanti dialoghi tra le Chiese sono in corso, esse ragionano e agiscono ancora troppo spesso nel senso del monologo, come se ciascuna di esse fosse l’unica Chiesa esistente.
Anche per questo qualche commentatore, a margine dell’evento svedese, ha correttamente posto in luce la necessità urgente di lavorare anche su un tipo particolare di ecumenismo, forse il più difficile e delicato, quello – per dir così – intra-cattolico: tra credenti di devozioni e fedeltà diverse, che lo stesso Francesco sta insistentemente spingendo a trovare il coraggio del confronto con l’altro e a rigettare le paure legate al settarismo.
Navigando per la rete, infatti, come si accennava, in quegli stessi giorni non era raro imbattersi in interventi di cattolici profondamente scandalizzati per quanto avvenuto, come se la visione ecumenica di Bergoglio e la sua cultura dell’incontro – autentiche cifre di questo pontificato – non fossero altro che un arrendersi allo spirito dei tempi, o persino un indizio trasparente di un vero e proprio segnale di relativismo… in chiave di progressiva protestantizzazione del cattolicesimo attuale.
E non mancò chi giunse persino a sfruttare i crolli delle chiese per il terremoto nel Centro Italia del 30 ottobre 2016, per attaccare frontalmente il papa nella sua decisione di andare incontro ai fratelli luterani.
Schegge impazzite o segnali di una frattura che sta ampliandosi, che andrebbe affrontata con la dovuta parresìa?
Difficile rispondere; mentre resta in fatto che ora, comunque, ancor più che in altri casi, la palla è nel campo di chi è chiamato a tradurre le istanze di apertura palesatesi in campo ecumenico nell’occasione nel quotidiano delle nostre comunità: vescovi, parroci, pastori (durante la consueta Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, dal 18 al 25 gennaio, ma non solo).
Sapranno essi mostrarsi all’altezza di questo progetto, tanto ambizioso quanto necessario e indilazionabile? O preferiranno proseguire sulle strade sicure del già noto, senza aprirsi al dettato del futuro?
Ecco le domande, letteralmente cruciali, che ci consegna il combinato disposto fra la “due giorni” di Lund e l’anno giubilare luterano, potenziale chiusura di quello che ci eravamo rassegnati a chiamare l’inverno ecumenico. Perché ogni parola e ogni gesto, nei mesi trascorsi, sono state come una pietra, una pietra usata per tracciare un cammino nuovo, percorribile non solo dagli addetti ai lavori dell’ecumenismo, ma da ogni uomo e da ogni donna benedetti dalla grazia di Dio. Dopo tante pietre utilizzate per distruggere, nuove pietre per costruire. Beninteso, se lo vorremo davvero.