Il giudice è il Figlio essenziale
1. Il Padre ha affidato il giudizio a Cristo in quanto Figlio essenziale. A Gesù, in quanto Figlio essenzale, il Padre dà il potere indivisibile di risuscitare i morti e di giudicare, perché è Figlio dell’uomo (cf. Gv 5,21-28). «Non si tratta poi tanto, come pare, di due poteri, ma piuttosto dell’unico potere, quello di risuscitare i morti e, risuscidandoli, giudicarli. “Come il Padre risuscita i morti e li vivifica, così il Figlio. […] Il Padre non giudica nessuno, tutto il giudizio l’ha rimesso al Figlio”. Cristo esercita la giustizia in forza della sua azione risuscitante».[1]
Con particolare sottigliezza la cosa appare chiara nel Vangelo di Matteo, dove i posse salvifici di Gesù appaiono concentrati nella sua condizione e nel suo agire di giudice: «Si direbbe allora che, per Matteo, la risurrezione stessa, più che collocare Gesù in un ruolo salvifico, non abbia fatto altro che ribadirne l’immagine di maestro-legislatore, integrandola più esplicitamente con quella regale del giudice eterno. I due aspetti si compenetrano in un’unica immagine coerente e compatta».[2]
Dicendo che Gesù è il Figlio essenziale, si qualifica il rapporto di unicità di Gesù con il Padre. Dio – afferma san Paolo – «ha stabilito un giorno nel quale sta per giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, accreditandolo di fronte a tutti, col risuscitarlo da morte (At 17,31; cf. 1Pt 4,5; Eb 6,2). La filialità è, cioè, la qualità distintiva della persona, dell’essere e dell’operare di Gesù. Tutto questo lo sappiamo perché Gesù si è presentato agli uomini come il Cristo, come il Messia-Figlio, rivelando, coerentemente, un nuovo senso della paternità divina mediante i segni di un’estrema familiarità fra Dio e lui,[3] di una loro intima conoscenza reciproca,[4] di una perfetta compiacenza del Padre nei suoi confronti (cf. Mc 1,11; 9,6), di una relazione in sostanza ineguagliabile (cf. Mc 12,6) col Dio che mostra di aver avuto sempre per Padre[5] e di essere, quindi, Figlio di Dio per natura (cf. Rm 8,29).
2. La “filialità”, verità del Salvatore e dei salvati. La conseguenza del fatto che il Figlio essenziale sia il Salvatore degli uomini è che quel Salvatore sia anche il giudice di quegli stessi uomini. Ed è vero anche il rovescio evidentemente: dire che da quel Salvatore gli uomini sono giudicati è un altro modo per dire che da lui sono salvati. Giudicare significa, infatti, giustificare, nel senso di fare giustizia rendendo giusti.
Ci si chiede: perché il giudice è Cristo? La risposta è nelle cose (di Dio): perché lui è il salvatore e non altri.
Si potrebbero, perciò, porre domande retoriche al riguardo: Chi mai dovrebbe essere il giudice degli uomini? Chi dovrebbe giudicare gli uomini se non colui che il Padre ha scelto come causa, forma e fine della creazione (cf. Col 1; Ef 1)? E ancora: Chi dovrebbe essere il giudice dell’uomo se non il Cristo, l’Adamo buono, colui che è Adamo più di Adamo (cf. 1Cor 15,22-45; Rm 5,12-21)?
Il Cristo è un fondamento della Chiesa che non può essere cambiato: «Il fondamento già posto è Gesù Cristo. Nessuno può metterne un altro. Su quel fondamento altri costruiranno servendosi di oro, di argento, di pietre preziose, di legno, di fieno, di paglia. Ma nel giorno del giudizio Dio rivelerà quel che vale l’opera di ciascuno» (1Cor 3,11‑12).
Il Giudice è il Messia pasquale
1. Nel cuore della storia il giudizio pasquale. I giorni della vicenda pasquale si pongono, in tal modo, come momenti centrali del giudizio di Dio sulla storia, come sua intima e permanente giustificazione, come coronamento di tutti gli eventi che li ha preceduti e preparati e, infine, come premessa e prolessi di un giorno, destinato a inverare in pienezza, alla fine dei tempi, tutte le promesse fatte da Dio.
Partendo da questo scenario, sarà possibile comprendere agevolmente per quali motivi la Tradizione cristiana tenga a proporre una molteplicità di giudizi, pensati in modo graduale e gerarchizzato, che attraversano tutta storia umana, l’intera creazione e sfoceranno nel giudizio universale, che chiude, alla fine dei tempi, l’unica storia della salvezza.
La storia dell’Israele antico e nuovo (la Chiesa) e, nella loro mediazione, quella dell’intera famiglia umana, è segnata per intero dal giudizio di Dio in quanto da lui è stata liberamente ideata, amorosamente avviata, sapientemente strutturata, provvidenzialmente accompagnata, profeticamente orientata alla gloria eterna.
I segni del giudizio divino della storia salvifica si mostrano in modo particolare in alcune vicende del popolo ebraico (ad esempio, nell’esilio e nell’esodo) e, più ancora, sono contrassegnati dagli eventi del tempo intermedio, inaugurato dalla vicenda pasquale e dall’ascensione di Cristo.
2. Gesù giudica con la sua morte. Il giudizio escatologico è tanto legato alla crocifissione di Gesù che è parso di poter esserne considerato un «corollario».[6] «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). In altri termini, Gesù diventa sulla croce salvatore per poterci giudicare o giustificare. La salvezza passa per il giudizio della croce, o meglio per il cuore aperto e le mani ferite del Crocifisso Risorto, al quale va data una piena adesione di fede per essere salvati: «Credi nel Signore Gesù e sarai salvato» (At 16,31).
L’uomo si salverà per una sola ragione: se crederà nel Figlio di Dio come al suo unico, completo e definitivo Salvatore,[7] che sulla croce ha offerto al Padre la sua vita per liberare l’uomo dal peccato e della morte e – nome estremo della salvezza cristiana – per farlo figlio.
Ora tutto questo è traducibile ed è da tradurre in termini di giudizio. «In quanto evento di salvezza, la crocifissione contiene anche il giudizio sulla nostra empia e abbietta esistenza. Nella dura fatticità della croce non si manifesta solo la verità, ma anche l’inevitabilità del giudizio».[8] Se ben si riflette, la croce rende serio il giudizio e questo è, da parte sua, il segno più eloquente della drammatica austerità della croce stessa.
Ma c’è una seconda ragione della severità della croce e del giudizio: l’una e l’altro sono gli eventi seri con cui Dio fronteggia il mysterium iniquitatis che s’espande nelle esistenze degli uomini, pervadendo anche le loro aggregazioni e perfino le strutture.
3. Gesù giudica come il Risorto. Gesù giudica nella sua morte e nella sua risurrezione: giudica comunicando la giustizia-santità-salvezza nella quale è stato sacrificato e s’è offerto al Padre e nella quale è stato anche glorificato (cf. 1Tm 3,16). Fra l’uno e l’altro evento c’è un legame interno e profondo, tanto da dover dire che «la vita nuova che si aprì con la risurrezione fu possibile solo dopo che le forze distruttive della morte si furono letteralmente sfogate su Cristo fino a esaurirsi».[9]
Quando il Padre risuscitò Gesù, lo stabilì giudice universale (cf. At 10,42). Cosicché, nella sua pasqua, è lui stesso «il giudizio che Dio pronuncia sul mondo: “È ora il giudizio di questo mondo” (Gv 12,31). Giudizio pronunciato in permanenza, in Gesù eternizzato nella sua pasqua».[10] Gesù porta in Cielo la sua morte eternizzandola quale atto massimo del suo amore per il Padre, quale Figlio essenziale e, per gli uomini, quale Fratello necessario; parimenti egli eternizza la sua pasqua quale giudizio di salvezza per tutti i soggetti che il Padre gli ha affidati. Egli, infatti, «fu risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25).
4. Gesù giudica come l’Asceso. Al mistero kenotico-glorioso del Signore è chiamata a conformarsi la vicenda salvifica dei cristiani chiamati, come il Cristo, all’esperienza di sofferenza, di dolore, di umiliazioni e di limiti prima di accedere all’esperienza della gloria escatologica: perciò la confessione della fede dei cristiani non è bloccata su avvenimenti passati, ma si apre all’avvenire di speranza della venuta di Gesù Signore e Giudice.[11] Gesù va in Cielo con tutto se stesso, portando anche la sua umanità e il frutto dei suoi misteri che intessono – tutti – il suo giudizio eternizzato di salvezza. In modo del tutto speciale, comunque, il giudizio è un atto di signoria pasquale-pentecostale di Gesù e vi è pertanto impegnato come il Signore: in questa costituzione di Gesù “in potenza”, come si esprimevano gli scolastici, o nella formazione del suo stato signorile e di glorificato, lo Spirito ha un ruolo attivo insieme al Padre: Gesù è risuscitato e glorificato nello Spirito (cf. 1Tm 3,16). Così, per l’irruzione dell’onnipotente forza creatrice dello Spirito per risuscitare il Cristo (evento congiunto con il giudizio), accade la glorificazione dei giusti.
5. Gesù col giudizio apre un varco per il Cielo. Gesù glorificato implica non solo la risurrezione ma anche l’ascensione, il mistero di Cristo più prossimo alla nostra condizione di popolo pellegrino, di popolo vigiliare che va verso l’ultimo giorno incontro al Signore Gesù che verrà a giudicare e chiudere la storia degli uomini e del mondo per riconsegnarla al Padre. Questa gloria che Gesù, costituito in potenza, ha avuto alla destra del Padre, egli la impegna salvificamente per noi.
Come in tutte le opere della salvezza, anche nel giudizio universale Dio agisce come Trinità: su incarico del Padre, il Figlio celebra il giudizio sugli uomini e la loro storia dinanzi al Padre e, nella forza luminosa dello Spirito, gli uomini partecipano all’evento di grazia del giudizio con speranza. «Attraverso il giudizio di Cristo e la conversione per opera dello Spirito Santo, alla fine le creature sono accolte definitivamente nella comunità dell’amore di Dio. E, di conseguenza, nell’eternità della pace e della beatitudine del Signore».[12]
Gesù, mediatore di salvezza
1. Gesù non è venuto a giudicare, ma a salvare. Gesù prende la parola su di sé, questa volta non per parlare della sua identità personale, ma sul senso e il fine della sua missione, e si esprime in modo oppositivo: dicendo che cosa non fa parte della sua missione e, in positivo, per affermare che cosa di fatto fa parte di essa. Gesù afferma: «Non sono venuto a condannare, ma a salvare» (Gv 12,46-50). E, fra l’altro, esprime il suo proposito salvifico con la volontà di essere una luce che vuole illuminare: è «luce da luce» (Credo), venuto «per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Cristo è Salvatore per sempre e fino alla fine.
Motivo principale della sua venuta è salvare tutti gli uomini: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Egli reca una salvezza radicale, che tocca l’inizio del nostro essere e della nostra esistenza: «Noi esistiamo grazie a lui» (1Cor 8,6). In tal modo, Gesù non ha cuore solo con l’uomo che salva, ma anzitutto col Padre al cui servizio si pone: «Nel Nuovo Testamento, la volontà salvifica universale di Dio viene strettamente collegata all’unica mediazione di Cristo: “[Dio] vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,4-6)».[13]
2. Gesù è un Figlio e un Fratello di cuore. Cristo è un Figlio di cuore, che corrisponde all’infinito amore del Padre, rallegrandolo in pienezza. Cristo è un Fratello di cuore che assume su di sé, con generosità sovrabbondante, il peso dei peccati, dei dolori, dei bisogni e dei desideri degli uomini, amandoli «fino alla fine» (Gv 13,1).
Gesù assomma in sé le due caratteristiche della salvezza: ha cuore per l’uomo e vuole salvarlo, ha la forza sufficiente per farlo: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale dobbiamo essere salvati» (At 4,12). Perciò, l’uomo non può fare mai a meno di Cristo, per cui, «dov’egli non è, oggi manca qualcosa dell’uomo, nell’uomo».[14] È l’inconsapevole, ma lucida profezia del Concilio: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo ad ogni uomo».[15]
Il Cristo, quale Adamo perfetto, è il più grande estimatore del cuore dell’uomo: lo apprezza come il luogo di seminagione della Parola, di germinazione della fede, di conversione o di contrizione (è l’essere triturato nel cuore), di filiazione che lega l’uomo da cuore a cuore con il Padre ed è il nome più elevato della salvezza cristiana.
3. Gesù salva e giudica col metodo del “cor ad cor”. Il Cristo non salva l’uomo dal di fuori, opponendosi o proponendosi a lui, ma entrandovi dentro, stabilendo una relazione fra il suo cuore e il cuore dell’uomo sul punto di riferimento che è l’amore. Questo significa che l’amore è la parola che lega il Redentore dell’uomo e l’uomo redento. Più di ogni altra parola, l’amore è il nome che dice, insieme, il Creatore e la sua creatura, il Padre e l’uomo da lui redento.
Egli è il Salvatore di tutti i cuori degli uomini. Le testimonianze neotestamentarie lo attestano con chiarezza: «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14); «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Pietro lo afferma in modo diverso ma assai esplicito: Gesù Cristo «è il Signore di tutti»; «è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio»; per cui, «chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome» (At 10,36.42.43).
[1] X. Durwell, Cristo nostra Pasqua, 180.
[2] V. Fusco, La casa sulla roccia. Temi spirituali di Matteo, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano (VC) 1994, 15.
[3] Cf. Mt 14,36 (Padre riferito in forma aramaica); Mt 11,25‑26; 26,42; Lc 10,21; 22,42; 23,34.46.
[4] Cf. Mt 11,25; Gv 17. Sull’unicità della conoscenza che il Figlio ha del Padre, cf. L. Bouyer, Il Figlio eterno. Teologia della parola di Dio e cristologia, Paoline, Alba 1977, 331‑335.
[5] Gesù fin dalla sua nascita è Figlio di Dio (cf. Lc 2,49), mentre gli altri uomini debbono diventare figli di Dio (cf. Mt 5,44‑45; Lc 20,36).
[6] Ibidem, 57.
[7] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Dominus Iesus (6.8.2000), nn. 1-15.
[8] M. Zeindler, Dio giudice. Un aspetto irrinunciabile della fede cristiana, 54.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Cf. B. Sesbüé, Dopo la vita. Il credente e le realtà ultime, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1992, 67-68.
[12] M. Zeindler, Dio giudice. Un aspetto irrinunciabile della fede cristiana, p. 113.
[13] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Dominus Jesus (6.8.2000) (= DJ), n. 13.
[14] G. De Luca, Per un articolo del senatore Croce, in Perché non possiamo non dirci “cristiani”, La Locusta, Vicenza 1966, 56.
[15] Concilio Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 22.