Gli esseri umani sono irrimediabilmente cattivi?
Il disastro della funivia Stresa-Mottarone, causato dall’avidità di guadagno dei responsabili della gestione, viene a rafforzare nell’immaginario collettivo l’idea che gli esseri umani sono irrimediabilmente egoisti e protesi esclusivamente a fare i propri interessi, anche quando questo comporta un danno, o almeno un rischio sproporzionato, per gli altri.
Ed è vero che, guardando alle logiche della nostra società, in cui si assiste quotidianamente ad una competizione selvaggia, alla ricerca del successo, del potere e del guadagno, è molto difficile dare torto a chi sostiene questa visione pessimistica e ne prende spunto, magari, per bollare come ingenuamente illusorie le proposte etiche e religiose – prima fra tutte quella cristiana – fondate sull’amore del prossimo. Il grido di papa Francesco, che denunzia il predominio, nei nostri Paesi «civili» di una «cultura dello scarto», che abbandona al loro destino i più poveri e i più deboli, non può non apparire, in questa prospettiva, come una nobile, ma utopistica protesta contro l’inesorabile legge della vita e della convivenza.
Le stesse vicende della pandemia ci parlano di persone che si sono arricchite – a volte anche sfruttando cinicamente le urgenze create dal Covid – e altre (la grande maggioranza) che sono state messe sul lastrico o che almeno si sono ritrovate più povere di prima.
Altrettanto falsa
Eppure, proprio ripensando l’esperienza della pandemia, è possibile rendersi conto che una visione univocamente negativa dell’essere umano è altrettanto unilaterale, e in sostanza falsa, di quella che vede in esso solo gli aspetti positivi.
Un esempio che mi sembra molto significativo, in questa direzione, è quello fornito dal personale sanitario – medici, infermieri, operatori che a vario titolo si sono impegnati e si impegnano quotidianamente nell’assistenza a chi soffre e, in modo particolare, ai malati di Covid.
Non è una scoperta che facciamo solo adesso. Da tempo i giornali mettono in luce lo spirito di dedizione e di sacrificio di questa categoria di persone, a cui le circostanze hanno richiesto, al di là del loro ordinario impegno professionale, di combattere in prima linea, di fronte a un nemico nuovo e sconosciuto, e per ciò stesso straordinariamente pericoloso, pagando sulla propria pelle il rischio di questa sfida.
Alla data del 18 marzo 2021 risultano morti per Covid 240 medici – di cui 68 in pensione, ma rientrati in servizio volontariamente, per «dare una mano» – e 83 infermieri. Molto maggiore il numero dei contagiati, alcuni dei quali sono a stento sono riusciti a farcela e sono sopravvissuti. È un bilancio pesantissimo, che però non dice ancora nulla circa la qualità umana dell’impegno profuso dal personale medico e paramedico per contrastare la pandemia.
Un’esperienza personale
E anch’io non sarei andato oltre i nudi dati statistici – e probabilmente non avrei scritto questo «chiaroscuro» – se, nel marzo scorso, non mi fossi ammalato di Covid. È stata questa esperienza che oggi mi spinge a parlare dello stile non soltanto professionale, ma anche semplicemente umano, di cui sono stato personalmente testimone nei quaranta giorni in cui sono stato ricoverato nell’ospedale di Partinico, nei pressi di Palermo, interamente dedicato alla cura del coronavirus. Uno stile che, da quanto mi viene riferito, non è esclusivo di questa struttura e può dunque essere menzionato come tipico dell’intera categoria del personale sanitario impegnato nella lotta contro la pandemia.
Se dovessi dire che cosa più mi ha colpito, durante questa lunga permanenza forzata, è stata la generosità e la gratuità dell’impegno di medici, infermieri, OSS (operatori socio-sanitari), nella cura dei degenti. Il contrario della «cultura dello scarto» vigente nella società. Ho visto vecchietti, vistosamente segnati dalle conseguenze della malattia e con ogni probabilità desinati a una prossima fine, accuditi con una dedizione, perfino con una tenerezza (ne ricordo uno che gli infermieri vezzeggiavano, chiamandolo «nonnino», imboccandolo quando non voleva mangiare), che è raro trovare perfino nelle nostre famiglie. Pazienti che a volte suscitavano in me, compagno di stanza, moti di stizza, per la loro ostinazione nel rifiutare e nel togliersi ad ogni occasione la mascherina dell’ossigeno, assediati dal personale, che non si stancava di insistere cercando tutti gli argomenti per convincerli a collaborare. Nessuno veniva abbandonato.
Certo, i rapporti umani erano filtrati dall’anonimato delle tute, tutte uguali, che proteggevano gli operatori dalla testa ai piedi, lasciando liberi solo gli occhi (anche quelli, però, protetti da una visiera di plastica). Qualcuno, col pennarello, aveva scritto sulle spalle il proprio nome o semplicemente la propria qualifica (medico, infermiere…). Ma in linea di massima era difficile capire chi si aveva davanti. Si sapeva soltanto che si poteva contare sulla sua disponibilità e sulla sua pazienza nel venire incontro ai più disparati bisogni e nello svolgere i servizi anche più ingrati richiesti da persone per lo più immobilizzate nei loro letti.
In qualche caso – ma questo dipendeva dal carattere del singolo operatore – era evidente lo sforzo di sollevare il morale dei malati con scherzi e battute, senza far pesare la fatica estenuante di un lavoro per cui spesso il personale era insufficiente.
Al di là delle motivazioni religiose
Mi sono chiesto quale fosse la motivazione comune a queste persone nell’offrire non soltanto l’assistenza richiesta dal loro ruolo, ma qualcosa di più, che non rientrava nelle regole dello stretto dovere professionale. In alcuni mi è sembrato di cogliere, da certi accenni, quella religiosa. Ma la mia sensazione è che alla base di questo stile condiviso ci fosse una interpretazione del proprio ruolo che andava molto al di là della pura funzionalità e ne valorizzava l’aspetto umano.
Una qualità che ho riscontrato, peraltro, anche nel personale della struttura privata dove, dopo le dimissioni dall’ospedale, ho trascorso altri venti giorni per la riabilitazione. Anche là medici, infermieri, oss, avevano a cuore il benessere dei pazienti con una generosità che andava molto al di là delle semplici esigenze de “il cliente ha sempre ragione”.
No, gli esseri umani non sono condannati ad essere egoisti e «cattivi». Anche perché in fondo la gratuità del dono – di questo si tratta, anche quando si fa un sorriso o si compie senza farlo pesare un servizio dovuto – rientra a pieno titolo nella realizzazione delle persone. «Niente è più necessario del superfluo», ha detto qualcuno. Ciò che gli specialisti chiamano «super erogatorio» rende più felice il destinatario, ma anche il soggetto che lo pone in essere. Invece, la logica del «do ut des», la chiusura nel puro utilitarismo, che non va oltre il proprio stretto interesse, impoverisce innanzi tutto chi la pratica. Ci si può illudere di essere, così, «realisti», ma chiudere gli occhi sulle nostre esigenze più positive è, invece, una assurda mutilazione del nostro essere.
Il grano e la zizzania
Tutto ciò non cancella la dimensione oscura della nostra vita. La verità è che il bene e il male sono inscindibilmente mescolati in ognuno di noi. L’esempio di generosità dei medici e degli infermieri dei nostri ospedali nella lotta contro il Covid non esclude che alcuni di loro possano, sotto altri profili, essere responsabili di comportamenti sbagliati o addirittura ignobili. È come nella parabola evangelica del grano e della zizzania, che crescono insieme.
Tocca a ciascuno di noi decidere cosa far prevalere nella propria vita, senza illudersi di poter esorcizzare l’altro aspetto. Nessuno sarà mai così «buono» da eliminare da sé inclinazioni cattive. E nessuno – nemmeno il gestore della funivia – può essere demonizzato, dimenticando ciò che di buono comunque c’è in lui. Una persona è sempre di più dei propri atti, sia quando sono virtuosi, sia quando sono pessimi.
Perciò bisogna diffidare della logica dello «sbatti il mostro in prima pagina». Non esistono mostri. Esistono esseri umani, responsabili del loro destino e chiamati a scegliere cosa vogliono diventare attraverso i loro atti.
- Dal blog dell’autore pubblicato su Tuttavia.