Per quanto mi riguarda, i passi più interessanti de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (saggio che Max Weber pubblicò tra 1904 e 1905) non stanno nella discussione sui caratteri dello spirito capitalistico, o nelle pagine in cui l’autore dimostra come l’ascetismo intramondano a base religiosa ne sia una robusta radice, e nemmeno nella conclusione in cui Weber finisce con il lasciarsi andare a domande sul futuro che non ci aspetteremmo da un austero professore. Le argomentazioni che più mi colpiscono – per quanto secondarie esse potessero essere nel piano dell’autore – stanno invece là dove il sociologo descrive l’angoscia del credente. «Sì, proprio questo unico problema doveva insorgere ben presto per ogni singolo credente, spingendo sullo sfondo tutti gli altri interessi: sono io un eletto? Come posso io acquistare la certezza di questa elezione?» (p. 171 dell’edizione Rizzoli 1994).
Il credente calvinista/puritano del XVII e XVIII secolo, certo: ma anche il credente che ha una consapevolezza della grandezza divina tale da rendere le proprie azioni insignificanti rispetto al proprio personale destino eterno. Un sentimento che è stato proprio dei grandi convertiti, di Paolo, di Agostino, di Lutero, di Giansenio, e che si trova anche in tante correnti fatalistiche più recenti, più o meno direttamente connesse alla predicazione calvinista. Il credente, insomma, che sa che la sua salvezza o la sua perdizione dipendono solo dalla volontà divina, già stabilita dall’eternità; il credente che vive nell’angoscia di non sapere quale sia la Decisione che lo riguarda, mentre desidererebbe saperla. Egli si sente dunque in diritto e in dovere di chiedersi quale sia questa divina determinazione, alla quale nulla può opporre, dato che neppure la fede, che secondo Lutero salvava il credente, può essere considerata altro che un’inutile e quasi blasfema “opera”.
Max Weber dimostra come i predicatori puritani del Seicento – come quel Richard Baxter che è ampiamente citato ne L’etica protestante – abbiano insegnato a più generazioni come far fronte a questa angoscia. Non fuggendo dal “mondo”, come avevano fatto per secoli monaci orientali e occidentali: rimanendoci, invece, con un comportamento ascetico, che non si fa travolgere dalle passioni, e che vive quotidianamente il proprio lavoro (il termine usato è Beruf, “vocazione”) con onestà e con metodo. Il raggiungimento di questo comportamento non costituisce alcun merito, ma dimostra al credente che è stato benedetto da Dio. Il risultato, in termini economici, è inevitabilmente quello che già notava nel Settecento John Wesley, pure citato da Weber: «la religione deve necessariamente ingenerare sia laboriosità che parsimonia, e queste non possono produrre altro che ricchezza» (p. 234). Il fondatore del Metodismo ne traeva una conclusione amara: quella stessa ricchezza non poteva che corrompere il credente.
Su questo punto Wesley era però almeno parzialmente in errore. Tra il XVIII e il XX secolo tanti Ebenezer Scrooge (e tanti Uncle Scrooge: il pennuto personaggio di Disney/Barks è certamente noto almeno tanto quanto il protagonista del Christmas Carol di Dickens) hanno continuato a vivere in modo eroicamente ascetico, senza sperperi e frivolezze, senza pietà verso gli altri e verso se stessi, e grazie anche a tale stile di vita hanno accumulato capitali che, laboriosamente reimpiegati, hanno fatto nascere il mondo che conosciamo. E anche quando il tenere un comportamento ascetico, laborioso e razionale non è stato più considerato esplicitamente il segno della benedizione divina, ciò non di meno gli uomini di tante generazioni hanno trovato lì la propria “realizzazione” e dunque, in un certo senso, la coscienza di non aver vissuto invano. Di essere salvi.
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Nelle pagine di Weber appare inscindibile il nesso tra comportamento razionale e accumulazione capitalistica: anzi, proprio il capitalismo (generato da quella radice religiosa) sarebbe la massima espressione della razionalità formale, il punto di arrivo del disincantamento del mondo. Si postula, più o meno implicitamente, un legame tra comportamento razionale (duro lavoro, sobrietà), da un lato, successo economico, dall’altro.
Per l’epoca di Weber e per quella immediatamente precedente era vero, e sarebbe stato vero ancora per decenni. Una società che aveva smantellato o stava smantellando le distinzioni cetuali, che favoriva e additava ad esempio l’ascesa dei self made men, che si sentiva e si voleva fondata sul lavoro (e quest’ultima frase, agli italiani, dovrebbe ben dire qualcosa), non poteva che considerare ovvia questa connessione. Non solo l’imprenditore, ma anche il semplice operaio del XVII, XVIII, XIX o XX secolo, che ne fosse consapevole o no, viveva il suo ascetismo intramondano (il suo alzarsi presto al mattino, il suo lavorare duramente e onestamente, il suo risparmiare tempo e denaro, il suo rifiutare lussi e divertimenti, e anche il suo inventare vie nuove di successo e guadagno) come la premessa dell’ascesa economica e sociale. La sua “contabilità” registrava un certo numero di uscite – in termini di fatiche e rinunce – ma delle entrate eccezionalmente alte in termini di autostima, che implicitamente rispondevano all’angosciosa domanda sulla propria personale salvezza (o sulla propria personale realizzazione, il che è lo stesso).
Usando termini darwinisti, direi che la spinta a dare una risposta intramondana all’angoscia era divenuta, in quel particolare contesto, un “fattore di selezione” economico e sociale. Più lavoravi “razionalmente”, più guadagnavi, più salivi nella scala sociale, più ti sentivi realizzato.
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In quel particolare contesto. Il meccanismo sopra descritto si realizzava infatti in un panorama economico e sociale piuttosto diverso da quello che viviamo attualmente.
Il grado di complessità è aumentato al punto che scienza e tecnologia hanno contenuti quasi magici per la quasi totalità della popolazione. La ricchezza si è spostata dal lavoro alla rendita. Il sistema mondiale dell’informazione “crea” il potere secondo logiche che non hanno a che fare con quelle che potevano determinare ricchezza e successo ai tempi di Benjamin Franklin (autore citato in apertura dello studio weberiano). L’ascesa economica e sociale non si deve più al lavoro metodico, ma alla rendita di posizione, alla “fortuna”, perfino alla spudoratezza nel mentire.
Essere ascetici non rende più, fa perfino perdere buoni affari: ostentare il lusso serve più che la sobrietà e la compostezza. Neppure il “credito” che Franklin esaltava sembra poi tanto importante, se si pensa come nascono le bolle che generano le crisi economico-finanziarie. L’innovazione, in un pianeta che dubita del proprio futuro ambientale, è ormai vista con occhio critico. L’ascesi intramondana, la razionalità, la metodicità da fattore di selezione positivi rischiano persino di trasformarsi in fattori di selezione negativi. E se la razionalità non ci dà più la salvezza (nel senso ampio di cui si è detto), che cosa ce ne facciamo?
Non stupisce allora che dal mondo economico-sociale questa disistima si sia trasferita ad altri settori dell’attività e del pensiero umano: la politica, la cultura, la filosofia, la religione (in senso stretto). La razionalità ha cessato di essere un/una fine, un punto di arrivo, da intendersi teleologicamente come ciò che l’umanità doveva raggiungere; e si è essere rivelata (anche? solo?) un mezzo che ha permesso, in una determinata epoca, l’emersione di un particolare tipo umano, o di una particolare psicologia umana.
Chi ritiene, oggi, che l’uomo debba considerare la razionalità scientifica come l’unico modo possibile di interpretare il mondo vive le difficoltà di quei missionari che, persa la superiorità tecnologica del “bianco” nei confronti del “negretto”, devono predicare il Verbo a uomini che non provano più alcun senso di inferiorità nei loro confronti.
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Weber, prima di scrivere la pagina conclusiva del suo studio, proponeva al lettore una celebre metafora: se per il predicatore puritano gli interessi per i beni materiali dovevano essere solo un «leggero mantello che si potrebbe sempre deporre», per l’uomo del suo tempo questi erano divenuti una «gabbia di durissimo acciaio»: perso il suo “spirito”, «il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica» (p. 240). Giudizio singolare: e non tanto per l’immagine della “gabbia” – che oggi potrebbe perfino apparire a molti più un simbolo di protezione che di prigionia – ma per quell’osservazione sul fatto che dello “spirito” il capitalismo, come meccanismo economico ormai funzionante, non avrebbe più bisogno.
Il fatto che l’individuo rinunciasse a interpretare (sono ancora parole di Weber) la radice profonda della spinta all’arricchimento non implicava certo che questa non esistesse; sotto altri nomi, la necessità di sentirsi salvo/realizzato/appagato aveva continuato ad agire, e continuava a trovare un senso nel nesso tra comportamento razionale e successo economico. E tutto ciò, secondo me, non può essere definito un fatto razionale, ma solo una diversa forma di credo religioso.
È noto che, di fronte al fatto religioso, Weber si dichiarava unmusikalisch, che non significa semplicemente “stonato”, ma proprio “incapace di comprendere la musica”. Forse anche incapace di capire che di musiche ce ne sono tante, e molto diverse l’una dall’altra. Sarà forse per questo che nei suoi scritti l’opposizione tra religione e scienza appare tanto netta? Che al di fuori del tempo della religione egli vede solo un tempo senza Dio? E sarà per questo che il lettore che invece è religiosamente musikalisch sente tanto rozza questa contrapposizione, così come ogni ragionamento che parli genericamente, per il tempo attuale, di un “ritorno della religione”?
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Ringrazio il lettore che mi ha seguito in queste divagazioni sul tema “weberiano”, e giungo a qualche (discutibile!) conclusione, cercando di non lasciare troppo all’implicito.
- Tra gli anni di Max Weber e i nostri è intervenuta una grande trasformazione socio-economica: è andato in frantumi il nesso causale tra razionalità e arricchimento.
- Dato che l’arricchimento, o il successo professionale, erano (almeno implicitamente) la “prova” del favore divino, si è indebolito anche il nesso tra razionalità e religione (intesa ampiamente e laicamente come motivazione profonda e prerazionale dell’azione umana). C’è stato un tempo in cui vi erano forme “religiose” che trovavano nella razionalità che arricchisce la propria prova di verità: quel tempo non è il nostro.
- La “religione” ha conseguentemente cambiato strada: la certezza della salvezza (detto in altri termini: la certezza di non aver vissuto inutilmente) non la si ottiene partendo dal presupposto che la realtà abbia un Logos.
- Il fatto di credere che “in principio” (alla base, all’origine, alla sorgente) stia il Logos (la ragione, il senso, la logica) è, o torna ad essere, solo e solamente il risultato di un atto di fede. La religione – ogni religione – chiede oggi di essere vissuta senza “prove”, senza “miracoli”, senza “sapienza” (1 Corinzi 1,22).
Articolo pubblicato su Il Margine, n. 5, 2010.
L’ho letto tempo fa, mi sembra che nel calvinismo sia razionale l’organizzazione della vita e del lavoro, ma questo rimane solo un modo per tenere sotto controllo l’angoscia.
Irrazionale rimane il rapporto con il divino di cui nulla è dato conoscere e il cui giudizio rimane imperscrutabile all’uomo. Si può dire che alla lunga anche questa irrazionalità sia passata nel capitalismo moderno. (In America ad esempio si parla in certi contesti di anarco-capitalismo) .
Mi è piaciuto molto sul rapporto fede ragione un testo di Villey sulla nascita del pensiero giuridico moderno. E’ vero che alla fine si ritorna al solito tomismo però credo che riesca a mettere bene in evidenza le spinte irrazionali che sono derivate dalla riforma.
https://www.puf.com/content/La_formation_de_la_pens%C3%A9e_juridique_moderne