Il “patrimonio demografico” attuale
Le tendenze degli ultimi anni hanno introdotto nel bilancio demografico della popolazione italiana verso un saldo negativo che un tempo era inimmaginabile. Per effetto delle dinamiche in atto il patrimonio demografico del nostro Paese ha smesso di crescere. L’espressione utilizzata – patrimonio demografico – identifica la quantità di futuro, in termini di numero complessivo di anni-vita, che una popolazione ha innanzi a sé (in base alla sua numerosità e composizione per sesso ed età). Si tratta di una grandezza la cui variazione è dovuta alla differenza tra il numero degli anni-vita “attesi” che si aggiungono alla popolazione in un dato arco temporale – per effetto dei nuovi ingressi per nascita e immigrazione – e i corrispondenti anni-vita che quest’ultima perde a seguito delle morti e delle emigrazioni, o che semplicemente “consuma” nel sopravvivere (invecchiando).
In tal senso, si è calcolato che la popolazione italiana al 1° gennaio 2017 poteva contare complessivamente su un patrimonio demografico che, alle attuali condizioni di sopravvivenza, risultava pari a 2,4 miliardi di anni-vita (equivalenti a un’aspettativa di 40 anni di vita residua pro-capite) di cui 1,3 miliardi da spendere in età attiva (tra i 20 e i 67 anni) e 1 miliardo da vivere da pensionati.
Ma va anche segnalato che già nel corso dell’ultimo biennio 2015-2016 tale grandezza ha accusato un arretramento (con 35 milioni di anni-vita in meno), che è stato affiancato da un aumento della quota di futuro che la popolazione italiana vivrà in condizione di quiescenza (dal 40,6% del totale degli anni-vita attesi si è passati al 41%) e dalla corrispondente diminuzione della quota potenzialmente da dedicare all’attività lavorativa (dal 54,7% al 54,3%).[1]
Cosa significa tutto ciò? In primo luogo, questo orientamento richiama sempre più l’attenzione sul problema della sostenibilità del sistema di welfare.
Il segnale trasmesso dai dati è che le riforme pensionistiche già approvate, e le ulteriori proposte di modifica che ci aspettano, dovranno innanzitutto tutelare, attraverso opportuni meccanismi correttivi, le giovani generazioni.
Le strategie pubbliche, mirate al rilancio del patrimonio demografico nazionale, dovranno andare in parallelo a lungimiranti misure per garantire gli equilibri di un sistema previdenziale oggi ancora eccessivamente complesso, inutilmente rigido e insufficientemente riformato.
Va messo in conto come la contabilità demografica nell’Italia che verrà sarà inevitabilmente destinata – in assenza di ingenti contributi sul fronte migratorio – a colorarsi di saldi sempre più negativi tra la quantità di futuro “prodotto” e il complesso di anni-vita persi o consumati.
Si tratta di un progressivo indebolimento di cui è solo parzialmente responsabile la tanto discussa perdita di vitalità degli italiani conseguente al forte processo d’invecchiamento della popolazione autoctona; oggigiorno si sta infatti anche esaurendo l’azione propulsiva derivante dai flussi migratori stranieri.
Il passaggio dalla stagnazione al regresso demografico non ha ancora fatto vedere le sue conseguenze peggiori: occorre dunque muoversi con urgenza e pragmatismo, proprio a partire dal tema della denatalità.
Una politica del “dopodomani”
In proposito, dalla ragionevole convinzione che sia in arrivo un nuovo primato al ribasso sul fronte della bassa natalità (primi otto mesi del 2017 mostrano un calo del 2,2% rispetto agli stessi mesi del 2016), unita alla consapevolezza che, in assenza di contromisure radicali, gli effetti sociali ed economici della persistente crisi demografica saranno sempre più difficili da gestire, prendono vita le questioni su “cosa” e su “chi” deve fare.
Non vi è dubbio che l’auspicabile cambio di rotta richieda un maggior livello di attenzione e di risorse a favore di azioni concrete e incisive di supporto alla natalità, con espliciti interventi orientati, innanzitutto, a recuperare equità nell’imposizione tributaria e nelle politiche tariffarie; a favorire la conciliazione nel mondo del lavoro; a rendere accessibili i servizi di cura; a sviluppare politiche abitative a misura di famiglia.[2]
La politica demografica e familiare andrebbe, inoltre, dotata di carattere universale, e non circoscritta alla sola sfera dell’emersione dalla povertà e dalla esclusione sociale. Gli interventi andrebbero poi avviati in tempi brevi, senza illudersi di poter semplicemente compensare il problema della denatalità attraverso il solo contributo dell’immigrazione, importante ma certo non sufficiente.
Ma quali soggetti sono chiamati oggi a progettare e realizzare queste azioni?
Il ruolo degli attori politici e istituzionali è evidentemente decisivo; tuttavia, le logiche di costruzione del consenso politico oggi dominanti andrebbero, se non proprio superate, perlomeno mitigate per affrontare l’emergenza.
Ogni iniziativa pubblica con riflessi in ambito demografico richiede un’ottica lungimirante, coerente nelle scelte e paziente nell’attesa dei frutti: seminare oggi per raccogliere dopodomani. I tempi della demografia sono la distanza tra due generazioni, circa trent’anni; quelli della politica tendono invece a guardare, nel caso migliore, alla durata di una legislatura, cinque anni.
Chi rischia il consenso in nome dei destini demografici del Paese, ad esempio promuovendo una redistribuzione delle poche risorse disponibili, vorrebbe quell’immediato riscontro che, viceversa, la natura stessa dell’intervento diluisce nel tempo. Il cortocircuito decisionale che blocca sistematicamente gli interventi di lungo respiro in Italia riguarda anche, in modo significativo, il tema della natalità.
Sulla base di quanto detto, pare sempre più necessario incentivare una cultura condivisa del cambiamento demografico come fenomeno da conoscere, nelle manifestazioni e nelle conseguenze, ma soprattutto da governare di comune accordo, accettando e ripartendo gli eventuali costi e sacrifici di scelte orientate al bene della collettività.
Il sistema Paese, in tutte le sue articolazioni istituzionali e territoriali, si dovrebbe idealmente mobilitare in modo coeso e armonico sulla questione della denatalità: è soprattutto a livello locale, infatti, che i problemi demografici sono avvertiti e vanno gestiti.
La dispersione scolastica
Come si è visto, il patrimonio demografico italiano ha smesso di crescere: la natalità non accenna a rialzarsi riducendo la portata delle prossime generazioni di giovani.
Con tali premesse, è facile rendersi conto come valorizzare le giovani risorse demografiche disponibili nel Paese, trasformandole in capitale umano scolarizzato, costituisca una priorità irrinunciabile.
Nell’ambito degli obiettivi nazionali e europei il tema della dispersione scolastica è certamente prioritario specie in un Paese, quale è il nostro, dove il numero delle uscite precoci dal sistema scolastico, benché in calo, è ancora largamente in eccesso rispetto agli obiettivi fissati.
D’altra parte, è utile ricordare come gli effetti della dispersione scolastica non siano solo in termini di costo economico per la collettività ma riguardino anche:
* la coesione e l’inclusione sociale, per evitare di alimentare situazioni di povertà e di fragilità nelle fasce più a rischio della popolazione;
* la valorizzazione dei giovani che saranno presto chiamati a sostenere, con le competenze acquisite fin dall’infanzia e col proprio lavoro, il peso di una società sempre più anziana;
* le trasformazioni culturali e identitarie, soprattutto delle aree metropolitane che ambiscono a diventare città globali con un forte orientamento all’economia dell’informazione e della conoscenza.
Tra le possibili azioni indirizzate al contrasto della dispersione scolastica si segnalano quelle
- di rendere più affidabili indicatori e strumenti di rilevazione per misurare tale dispersione in modo preciso e definire profili più accurati dei soggetti a rischio;
- di adottare una strategia di prevenzione precoce già dalla scuola media;
- di intervenire sulla qualità degli apprendimenti in questo ciclo e curare, grazie a un migliore orientamento, la critica fase di passaggio alle superiori;
- di passare da un’ottica di “lotta all’abbandono” a quella di “lotta all’insuccesso scolastico”, perché i percorsi di studio irregolari e in ritardo non sono ancora dispersione, ma spesso ne sono l’anticamera;
- di monitorare e valutare l’impatto degli interventi fino a oggi realizzati nei diversi territori;
- infine, in una visione di medio-lungo periodo, di superare la prospettiva finora adottata, che guarda alla dispersione nei termini dei titoli conseguiti (o non), per abbracciare l’approccio per competenze, che a livello internazionale ormai informa le più innovative politiche scolastiche.[3]
Parallelamente, sembra necessario sviluppare adeguate iniziative per contrastare l’altra forma emergente di dispersione del capitale umano nazionale, con incentivi ad hoc per richiamare in Italia i cervelli fuggiti dall’estero.
L’idea di rendere strutturale un sistema di agevolazioni fiscali per i ricercatori italiani emigrati, nel caso scegliessero di tornare a vivere e lavorare in Italia, pur se positiva, avrebbe tuttavia probabilmente un impatto limitato. Il punto chiave sarebbe invece di ricreare, anche in Italia e non solo limitatamente a poche eccellenze, condizioni favorevoli alla ricerca d’avanguardia in termini di fondi, strutture e cultura scientifica.
I Paesi più avanzati da questo punto di vista – europei (Germania, Regno Unito, Francia) e non (Stati Uniti in primo luogo) – tendono altresì a garantire maggiori riconoscimenti ai ricercatori in termini di remunerazione economica e progressione di carriera, aspetti anch’essi fortemente incentivanti.
La lettura dei dati statistici
Come si possono raccontare i dati statistici, demografici e non solo, in modo corretto e allo stesso tempo giornalisticamente accattivante?
Il proliferare di dati di ogni tipo, big e open secondo il paradigma emergente che spinge verso la data revolution,[4] favorisce effettivamente la comprensione della realtà?
Oppure sta aumentando un “rumore statistico” sempre più frastornante e difficile da gestire?
Come possono i mass-media fare filtro nella pubblicazione di dati che andrebbero in realtà sempre accuratamente verificati?
Come possono gli organi della Statistica Ufficiale supportare i media e tutti i cittadini per favorire un più semplice accesso a informazioni indispensabili in un periodo così delicato per il Paese?
E, infine, come interfacciarsi con tutti gli enti non ufficiali che talvolta tendono a esprimere, attraverso i dati che cercano di promuovere, interessi, posizioni, speranze piuttosto che visioni neutrali dei fatti?
Il tema di come i dati statistici vengano trattati “sui” e “dai” mass-media ha lunga tradizione e ha dato sistematicamente luogo ad accese polemiche.
Occorre considerare come le statistiche siano uno dei possibili strumenti, non solo per raccontare la realtà, ma anche per costruirla, promuovendo visioni talvolta semplicistiche, emotive, parziali o strumentali dei fatti.
Il tentativo, evidente in alcuni casi, è di accreditare pubblicamente punti di vista specifici attraverso informazioni a cui la maggior parte dei cittadini tende a riconoscere valore di oggettività e scientificità.
Gli attori che, a vario titolo, hanno accesso ai media commentano, interpretano, mettono in discussione le statistiche, fornendo al pubblico diverse cornici interpretative a cui poter fare riferimento.
Nell’arena dei media, si sta osservando una crescente tendenza a enfatizzare, non sempre in modo opportuno, dati demografici, di fonte ufficiale e non, così che spesso tendano a prevalere nell’opinione pubblica letture emotive della realtà, avvalorate da dati non necessariamente certificati e documentati.
D’altra parte, le statistiche demografiche non sono esenti, per gli usi che se ne possono fare, dai rischi che tipicamente corrono i dati economici, una volta entrati nei circuiti comunicativi dei media e della politica. Basti pensare, in questo senso, alla crisi economica e alle informazioni che, di volta in volta, vengono utilizzate per cercare di dimostrare, a seconda delle posizioni in campo, che: la crisi è finalmente finita; che siamo sulla strada giusta ma non si è fatto ancora abbastanza; che la situazione è invariata da anni; che l’andamento economico è ulteriormente peggiorato e siamo al collasso.
Anche i dati demografici, specie se dovesse venire a mancare la possibilità di interpretarli in modo semplice e lineare, rischiano di diventare terreno fertile per contese simili.
Gli organi della Statistica Ufficiale hanno storicamente una grande responsabilità in questo senso e, oggi più che mai, sono chiamati a fare ulteriori passi in avanti rispetto alla capacità di comunicare le statistiche a diverse utenze rispettando le loro esigenze conoscitive.
I maggiori media nazionali hanno, a loro volta, un ruolo cruciale: pubblicare dati verificati e verificabili, anche per favorire una maggiore interazione con i cittadini più attenti e vogliosi di approfondire le questioni pubbliche, comprese quelle di natura demografica. Solo in questo modo, il rumore statistico potrà essere ridotto a favore di dati attendibili, controllabili, significativi e realmente “informativi”.
Italia: patrimonio demografico al 1° gennaio 2017 (anni-vita)
Fonte: elaborazioni su dati Istat
Italia: movimento naturale della popolazione residente. Anni 2003-2017
Fonte: elaborazioni su dati Istat
[1] Per effettuare questo calcolo, sono convenzionalmente state adottate le seguenti soglie: a) Formazione: si resta in formazione sino alla fine dell’anno solare nel corso del quale si sono compiuti 20 anni. b) Lavoro: Si entra nel mercato del lavoro dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui si è raggiunto il 20° compleanno sino all’istante in cui si raggiunge il 67° compleanno; c) Quiescenza: si entra nell’universo dei pensionati a partire dal raggiungimento del 67° compleanno.
[2] Cf. Piano Nazionale per la Famiglia, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le politiche della famiglia, 2012.
[3] Sono questi alcuni dei temi trattati dalla Fondazione Agnelli nell’audizione parlamentare presso la VII Commissione della Camera dei Deputati (Cultura e Istruzione) del 2014.
[4] www.undatarevolution.org
Un articolo dal titolo “Le sfide demografiche per rilanciare il Paese” che non contiene, neppure una volta, la parola “aborto” dimostra solo la sua inutilità. Senza la 194 avremmo infatti circa 6 milioni di italiani in più. Credo che aiuterebbero il rilancio del nostro paese… oltretutto senza bisogno di nuova immigrazione (fenomeno, questo sì, citato nell’articolo).