L’eucaristia e il principio della sovrabbondanza
1. Ratzinger e la “legge della sovrabbondanza”. Convinzione consolidata del cristianesimo è che Dio sia e si mostri da sempre come il Dio della sovrabbondanza. Questo pensiero, di fatto, tematizza teologicamente una preghiera liturgica: «O Dio, fonte di ogni bene, che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito, effondi su di noi la tua misericordia: perdona ciò che coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare».[1]
A tale convincimento di fede la Chiesa è stata educata anche dalla frequentazione della teologia patristica,[2] oltre che dalla sua esperienza delle Scritture che, senza bisogno di dimostrazioni, fanno del sovrabbondante amore della misericordia un primo principio fondante dell’intera rivelazione.
Ha scritto Joseph Ratzinger che «l’autentica definizione della storia della salvezza si può sintetizzare nella parola “sovrabbondanza”».[3] È un’affermazione di non poco conto: in essa egli impegna un carico di responsabilità teologica notevole perché pone su una sola parola (“sovrabbondanza”) il peso di sintetizzare il senso dell’intera storia della salvezza, anzi d’assurgere a sua micro-definizione.
Ratzinger scrive ancora: «Il Regno dei cieli dovrebbe restare una vuota utopia. E in effetti, dovrà rimanere una vuota utopia, sintanto che esso sarà lasciato unicamente in balìa della buona volontà degli uomini. […] In tal modo però, la constatazione della magra “giustizia” dell’uomo assurge, al contempo, a richiamo alla giustizia di Dio, la cui sovrabbondanza è impersonata in Gesù Cristo. Egli è davvero la giustizia di Dio che si spinge ben oltre la mera obbligatorietà, che non s’immiserisce in calcoli meschini, ma è invece veramente sovrabbondante, incarnando l’immensa generosità del suo amore, tramite la quale egli sopravanza infinitamente il fallimento dell’uomo».[4]
2. L’eucaristia, sacramento della “sovrabbondanza”. Nell’eucaristia Cristo sintetizza questa sua «sovrabbondanza incarnata»: in nessuna esperienza cristiana e in nessun altro sacramento, infatti, come nell’eucaristia, è presente il «mistero dell’Incarnazione» perché lì è la persona di Gesù, essenza del cristianesimo.[5] L’eucaristia – quale memoria della croce – ne conserva tutti i meriti ed è il principio attivo perché, insieme all’altro aspetto del mistero pasquale-ascensionale-pentecostale, possa iniettare nella vita dell’uomo la carica redentrice.
Questo l’eucaristia compie conservando in sé «l’immensa generosità del suo amore, tramite la quale egli sopravanza infinitamente il fallimento dell’uomo», di cui ha scritto Ratzinger.
L’eucaristia fa assai di più in quanto non s’accontenta di rimediare al «fallimento dell’uomo», poiché essa non è solo seme di redenzione, ma di salvezza, che ha il suo punto apicale, il suo vertice nella filialità adottiva e nella conseguente gloria celeste: infatti, «se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,14-23).
L’eucaristia fa ancora di più: essa si fa principio salvifico, non solo dei singoli uomini, ma della Chiesa, della comunità umana, dell’intera creazione. In terra e nel tempo tutto è imperfetto: le cose, le situazioni, i tempi, gli spazi, i progetti, le opere, gli uomini, le donne, le relazioni, le religioni, le chiese, gli uomini di Chiesa, il bene compiuto, le virtù coltivate. L’eucaristia, come “coppa della sintesi”, raccoglie e conserva tutto questo e ne fa la caparra della gloria.
Sulla strada del mistero si salvano la vita e la morte, invece fuori di essa la morte diventa brutale e la vita insensata: «Dove c’è realmente una fine, di per sé, non c’è alcun mistero. Ma dove c’è mistero non c’è quella che chiamiamo “fine”. C’è piuttosto una sovrabbondanza di realtà che non riusciamo a scandagliare. Così si deve dire che la morte è mistero, mentre non siamo autorizzati a dire che sia la fine».[6]
L’eucaristia e il principio del dono
1. L’eucaristia, vertice della storia del dono. L’eucaristia è inscritta nella storia del dono; lo è a tal punto da poter dire che essa è essenzialmente dono (il Pane donato) e il dono è essenzialmente eucaristico (fuori della prospettiva del dono, l’eucaristia non è decifrabile). Dell’esperienza del dono, che in fondo è il nome dell’intero cristianesimo,[7] l’eucaristia è il punto apicale, il vertice inoltrepassabile. Gesù pronuncia le parole che annunciano l’eucaristia, dopo aver sfamato la folla nel deserto (cf. Gv 6,1-15). Il dono, che egli promette e oppone alla manna (cf. Gv 6,31s.49s.), s’apre a stella in tre direzioni.
– verso il passato della salvezza, ricordando le meraviglie dell’Esodo; l’eucaristia evoca la manna imbandita da Dio nelle steppe del Sinai, «cibo degli angeli» capace di procurare ogni delizia e di soddisfare ogni gusto, manifestazione della dolcezza (di Dio) verso i suoi figli (cf. Sap 16,20-21). Sarà lo stesso Gesù a far balenare questo riferimento alla vicenda dell’Esodo e all’eterna “terra promessa”, che è il cielo di Dio.
– verso il futuro della gloria, alludendo al banchetto messianico, familiare immagine giudaica della felicità celeste (cf. Is 25,6; cf. gli scritti rabbinici): «Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste».[8] È Gesù stesso a farci gustare nell’eucaristia il duplice sapore di cibo del pellegrino e di cibo della pienezza messianica nell’eternità (cf. Is 25,6).
– verso il presente della grazia, riferendosi al tempo della seconda Alleanza, il tempo in cui il Pane donato acquista il suo significato più denso di mistero, dal momento che diventa memoria del dono di vita avvenuto sulla croce da parte del Padre agli uomini e da parte di Cristo al Padre e ai suoi fratelli (cf. Mt 8,11; 22, 2-14; Lc 14,15; Ap 3,20; 19,9).
2. L’eucaristia, dono del Padre in Gesù Cristo. Il Padre rivela e mostra il suo amore donandoci il Figlio (cf. Gv 3,16) e nel Figlio il Padre dona se stesso, perché Gesù è tutto ripieno della ricchezza del Padre (cf. Gv 1,14): tutto ciò che appartiene al Padre è dato al Figlio (cf. Gv 17). Egli è il «vero pane del cielo dato dal Padre», egli dà «la sua carne per la vita del mondo» (Gv 6,35.51; Lc 22,19). Gesù nel mistero natalizio-pasquale è donato e si dona, perché è offerto e si offre. Alla fine della dinamica di dono celebrata sulla croce, il Risorto-Glorificato esercita la sua signoria pasquale e celeste inviando sulla Chiesa e sul mondo lo Spirito, dono di Dio per eccellenza (cf. At 8,20; 11,17).
3. L’eucaristia, dono al Padre in Gesù Cristo. nel sacrificio della croce passa il dono del Padre all’umanità (cf. Gv 3,16), ma anche il dono dell’uomo a Dio (cf. Eb 3,3; 9,14). In tal modo il dono si fa unico e ineguagliabile, diventa dono essenziale: la vita di Cristo offerta in un sacrificio perfetto e radicale dura per sempre (cf. Eb 7,17). Quanti si uniscono al dono essenziale del Figlio essenziale, divengono dono sacrificale (cf. Rm 12,1) per gli altri (cf. Eb 13,16). Così il dono di grazia del Cristo non serve solo a quelli che lo ricevono, ma diventa fecondo e fruttuoso per molti (cf. Gv 15; Mt 25,15-30).
Questo conferma un’antica regola: il dono non si consuma, ma si moltiplica offrendosi. Il primo segno miracoloso e misterioso di questo l’abbiamo nella moltiplicazione dei pani operata da Gesù: alla fine, a popolo sfamato e a cesti ritirati, c’erano più pani e più pesci di quanti ve ne fossero prima che venissero distribuiti. Ma il segno insuperabile che il dono si moltiplica donandolo ce lo dà Gesù nell’eucaristia: è un pane donato, un vino versato, che bastano sempre e per tutti.
L’eucaristia e il principio del perdono
1. L’eucaristia ricorda il perdono della croce. L’arco di senso dell’eucaristia è ampio quanto l’arco di senso della croce. In termini diversi, nell’eucaristia passa l’intero mistero della croce. Perciò, la misura dell’amore espresso sulla croce da Gesù al Padre come “Figlio essenziale” (Fr.-X. Durrwell) e come “Fratello universale” (R. Voillaume) è misteriosamente conservato e significato, in tutta la sua potenza e tenerezza, nell’eucaristia, il Pane donato che conserva gli infiniti dinamismi caritativi che s’intrecciato intorno alla croce di Gesù nella “nona ora”.
C’è un modo per far durare nel tempo degli uomini l’evento di perdono accaduto sulla croce (Gesù ha chiesto perdono), oltre la croce (il Padre ha accettato la richiesta di perdono del Figlio), dalla croce (lo Spirito s’è lasciato inviare dal Messia morente quale Sapienza di perdono), sotto la croce (Maria, quale Chiesa nascente, ha consentito all’evento martiriale del perdono del Figlio come madre messianica)?
La risposta a questa complessa domanda c’è: il modo più potente per far durare per sempre l’evento del perdono sulla terra e nei giorni degli uomini è l’eucaristia, che è memoria di perdono e ricorda che Gesù sulla croce ha iscritto il perdono nell’ordine del principio: egli nel cuore dell’“ora” propone il perdono come principio di vita.
L’eucaristia educa al perdono, che la croce ha consacrato quale principio di vita e di missione. Il perdono non va, dunque, ridotto all’esercizio privato d’una virtù pur difficile – è un «dovere terribile […] perdonare i nostri nemici»[9] –, ma va compreso come un principio costitutivo della stessa vita ecclesiale.
2. L’eucaristia, fermento di perdono. Il pane eucaristico dà la forza di grazia per poter perdonare. Il perdono ha anche una dimensione antropologica: esso non è possibile per chi non ha cuore (si potrebbe dire, per chi non ha cuore eucaristico), né può compierlo chi ha un cuore piccolo (che non s’ispira alla generosità dell’eucaristia, il Pane di salvezza offerto a tutti): per poter perdonare occorre avere un cuore grande e credente. Per perdonare bisogna avere, in un certo senso, il cuore di una madre, poiché il perdono ha una natura o una «fonte materna».[10]
Il perdono è, infatti, un amore “eccessivo”, che si manifesta come l’espressione di un cuore materno, da cui scaturisce un amore che si fa riconoscere: quale amore sconfinato, che dà misure alte alle sue manifestazioni, nella sola logica del disinteresse; quale amore estroverso, che sa anteporre l’altro a sé con determinazione al massimo forte e convinta; quale amore sapiente, che sa rispettare lo smisurato valore dell’altro anche in situazioni di conflitto.
Per questi motivi l’amore materno ha una funzione paradigmatica e matriciale rispetto a ogni altra forma d’amore. Dall’essere il perdono di natura materna discende la sua necessità. È un postulato cristiano: il perdono è obbligatorio, come è necessario avere una madre per essere.
La natura materna del perdono la si scorge, in un modo molto concreto, nella Chiesa, alla quale è stato affidato il potere di perdonare come uno degli aspetti essenziali della sua missione.[11] Fa pensare come i due poteri salvifici (posse salvifici) del sacerdote, da nessun altro cristiano sostituibile, siano proprio il potere eucaristico (la capacità di trasformare il pane nel corpo e il vino nel sangue di Cristo) e il potere di perdono (la capacità di trasformare un peccatore in giustificato).
Questo significa che la Chiesa deve avere cuore; diversamente sarebbe solo retorica la sua maternità: proprio perché madre, la Chiesa è capace di amare con cuore materno, il cui segno estremo è l’amore perdonante. Questo significa che la Chiesa dev’essere eucaristica fino in fondo.
[1] Messale Romano (Vetus ordo), Orazione-Colletta della 27ª Domenica del tempo ordinario – Anno C.
[2] Basti una sola esemplificazione: «Ricordiamole [alla Chiesa] la benignità di Dio, la sovrabbondanza della sua bontà e l’immensità della sua misericordia, per rallegrarci, ancor più che lei, dell’immenso dono del Dio di tutte le cose, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, e non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (Ez 18,23)» (Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 29).
[3] Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969, pp. 210-211.
[4] Ibidem, pp. 207. 208. 209.
[5] Cf. R. Guardini, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1962, passim.
[6] R. Mancini, Il senso della fede. Una lettura del cristianesimo, Queriniana, Brescia 2010, p. 94.
[7] Per iniziarsi alla teologia del dono, cf. O. Battaglia, La teologia del dono: ricerca di teologia biblica sul tema del dono di Dio nel Vangelo e nella I lettera di Giovanni, Assisi 1971; J. Navone, Dono di sé e comunione: la Trinità e l’umana realizzazione, Assisi 1990.
[8] Concilio Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Sacrosanctum Concilium, n. 8.
[9] C.S. Lewis, Il cristianesimo così com’è, Adelphi, Milano 1997, p. 149
[10] Cf. R. Mancini, Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Assisi 1996, pp. 133-138.
[11] Quando Gesù dà a Pietro il «primato», gli conferisce il potere di perdonare (cf. Mt 16,20). «La Chiesa è […] la comunità di uomini e donne segnati dal peccato, ma anche dalla grazia del perdono. La Chiesa vive del perdono di Dio e perciò è chiamata a far vivere gli uomini ministrando il perdono» (E. Bianchi, «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?», in Aa.Vv., «Non vi sarà più notte». Notte della fede, notte della Chiesa. Seminario di spiritualità della «Rosa Bianca», Milano, 28 ottobre 1995, Morcelliana, Brescia 1996, p. 49).