«C’è chi ama gli animali e la natura ed è tanto sensibile / che sogna un mondo senza più umani». Con questi due versi Luca Carboni (Luca lo stesso, 2015) ha sintetizzato quella che è una delle più diffuse, se non l’unica vera, seria, grande utopia al momento in circolazione. L’utopia che immagina un pianeta azzurro libero (o liberato) dalla specie umana, rea di portare alla Terra solo squilibri e devastazioni e di spingerla verso la distruzione, a fronte di un “resto” della Natura (l’iniziale maiuscola è d’obbligo) che senza l’homo sapiens sarebbe invece in grado di autoregolarsi e svilupparsi in modo armonico, sostenibile, “giusto”.
L’enunciato ha bisogni di tre precisazioni. La prima riguarda la collocazione di tale prospettiva. Va detto infatti che essa è davvero un’utopia, e non una distopia. Nel corso del XX secolo sono nate tante utopie negative (= distopie); tante immagini del futuro sono state create per spaventarci, per metterci sull’avviso, per far cambiare una direzione che sembrava segnata; le aspettative positive, i “soli nascenti”, con i loro fondamenti socio-ingegneristici o tecnologici (concepiti nell’Ottocento e rinati per breve tempo nel secondo dopoguerra), si sono invece quasi dissolti. Coloro che, in modo più o meno consapevole, pensano a una Terra senza umanità non considerano però tale scenario come un approdo disastroso (una distopia, appunto), ma lo vedono come la via d’uscita per porre termine ad un antropocene che sta invece devastando il pianeta. L’era geologica causata dall’iniziativa umana deve finire appena possibile.
Tale tesi non viene diffusamente esposta e sarebbe ben difficile associarla in modo nitido a una posizione politica o sociale, ma si colloca implicitamente sullo sfondo di tanto animalismo estremo e più in generale di una “sensibilità” che sembra capace di ignorare il dolore dei propri simili (o persino il proprio) più di quanto sia capace di sopportare il dolore animale o lo squilibrio dell’ecosistema. Ma ci si può chiedere se la scelta, che molti fanno, di non dare un seguito alla vita umana attraverso il fluire delle generazioni (qualcosa come: «Visto quel che abbiamo fatto e che facciamo, non è il caso di avere figli») non abbia a che fare anche con un’adesione implicita a tale posizione.
Una seconda precisazione riguarda la responsabilità della nostra specie. Per quanto schematico e semplificato, è difficile dire che il ragionamento sopra esposto sia insensato. Si può certo dare un giudizio più o meno drastico circa la stupida avidità o la gratuita crudeltà che uomini e donne dimostrano, non da oggi, nella gestione dei rapporti con i loro simili e con il resto della creazione. Ma è indiscutibilmente vero che da settant’anni gli umani sarebbero in grado di rendere inabitabile il pianeta (inabitabile non solo per essi stessi, ma anche per tutti i vertebrati e gran parte degli invertebrati), e che si ostinano a mantenere pronto all’uso il potenziale distruttivo che permetterebbe tale risultato. Anche volendo sperare che gli homines sapientes non scateneranno mai le armi nucleari contro sé stessi, la miopia che mostrano nella gestione quotidiana dei beni della terra – con i conseguenti inquinamenti, avvelenamenti e bruschi mutamenti dell’ecosistema – mette in dubbio, sul medio periodo, la vita per come l’abbiamo finora conosciuta. Si può aggiungere che l’utopia dis-umana non ha neppure bisogno di interrogarsi se nel fare tutto ciò l’azione umana sia libera (e dunque responsabile) o determinata intrinsecamente dalla sua “natura”: se nel primo caso meritiamo di essere puniti, nel secondo il nostro destino è di essere scartati dall’evoluzione stessa, considerati un “errore” che perturba una creazione altrimenti ordinata.
La terza precisazione riguarda l’atto di fede nei confronti del (resto del)la Natura: un atto di fede implicito, e talvolta esplicito, nell’esposizione in termini generali dell’utopia in questione. L’utopista a-umano porta infatti alle estreme conseguenze il culto della Vita (sul tema si veda quanto ho scritto anche su Settimana News, nell’articolo In-regime-di-biolatria). Dopo aver individuato, come detto, nell’essere umano il colpevole del male che esiste sulla Terra (un male del quale la Vita non sarebbe responsabile), vede nel mondo animale il luogo dell’innocenza, della purezza, dell’armonia. Si tratta, a suo modo, di una ricerca di Dio nell’immanenza, per trovare ciò che si ritiene non sia stato corrotto e compromesso dalla civiltà umana. In passato tale ricerca aveva portato dapprima all’elaborazione del mito del “buon selvaggio”, capace di conservare un rapporto armonioso con la Natura, rapporto che l’Occidente aveva perduto; poi all’esaltazione delle classi subalterne come portatrici, attraverso la sofferenza, di un riscatto per l’intera umanità e come possibili fondatrici di un ordine giusto; infine all’identificazione tra i bambini e gli esseri angelici non ancora guastati dal mondo degli adulti. Si è trattato di entusiasmi cui sono corrisposte cocenti delusioni (detto en passant, solo chi non ricorda di essere stato bambino può davvero pensare che i bambini siano naturalmente “buoni”).
Come si è detto sopra, l’utopista a-umano vede allora nell’animale la purezza, perché l’animale è (presuntivamente) privo di libertà e dunque innocente; vede nell’ecosistema solo armonia e stabilità, ossia l’opposto di ciò che l’uomo avrebbe saputo e voluto imporre al pianeta negli ultimi millenni; non vede affatto, invece, gli aspetti più violenti e distruttori di una Natura della quale si apprezza solo ciò che vive accanto a noi mostrandoci dolcezza e devozione. Non lo vede fino al punto di pensare e dire che il “nostro” animale – quello “domestico”, appunto – sia più vicino al disegno divino di quanto l’uomo potrà mai essere.
Un’immagine nitida di questa utopia (o per lo meno dei presupposti che la fondano) sta in uno dei capolavori di Bruno Bozzetto, un film uscito alla metà degli anni Settanta: Allegro ma non troppo. All’interno di quello che si presenta un po’ come una parodia e un po’ come un remake del disneyano Fantasia si colloca una lunga sequenza in cui Bozzetto applica un disegno animato al celebre Bolero di Maurice Ravel. La sequenza si apre con un’ironica Genesi (la vita arriva sulla terra sul fondo di una bottiglia di bibita abbandonata da chissà quali alieni); quella goccia è il brodo primordiale dal quale nasce il primo essere. Dapprima con lentezza e prudenza e poi con sempre maggiore energia egli – seguendo le note del celebre “bolero” – prende a muoversi, e poi a camminare, a evolvere, in una marcia che è un vortice di forme viventi di sempre maggiore compiutezza e bellezza… fino al punto in cui un essere simile a una scimmia si stacca dal gruppo, comincia a servirsi degli altri, a tendere agguati, a uccidere; infine fa terminare quella marcia trionfale in un recinto di mura e filo spinato, al di sopra del quale si erge, mostruosa, un’enorme statua antropomorfa (dentro la quale, peraltro, si cela ancora la disgustosa e avida scimmietta). Insomma: il vero problema della Terra siamo noi.
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Sia i grandi scenari, sia la cronaca quotidiana sembrano fatti apposta per condurci ad assentire, implicitamente, a queste tesi “utopiche”; davvero l’uomo non sembra all’altezza del suo compito di “coltivare il giardino”.
Per reagire non basta fare appello a una sorta di “patriottismo biologico”, a uno “specismo” che ci spingerebbe emozionalmente a difendere i “diritti dell’uomo” contro quelli della Natura. È un atteggiamento che ha dato per secoli dei risultati ma che oggi rischia di essere debole sia sul piano dialettico, sia di fronte all’evidenza che il rispetto dell’ecosistema e degli altri esseri viventi è presupposto all’esistenza stessa dell’uomo, in una solidarietà cosmica che non ammette sconti. Non basta neppure fare riferimento alla capacità umana di creare arte, scienza e pensiero. È ben vero che – a quanto ci è dato sapere – l’essere umano è il primo e finora l’unico esempio di essere auto-cosciente, l’unica parte dell’Universo capace di riflettere su di sé e di conquistare la consapevolezza della sua condizione; è evidente che le creazioni spirituali, artistiche, scientifiche prodotte dagli uomini e dalle donne di questo pianeta non sono comparabili con alcuna bellezza e grandezza “naturale”, e che la rete di rapporti presente in qualunque società animale non è paragonabile con la complessità che mantiene in vita una famiglia, una comunità, una società. Perfino la capacità, tutta umana, di sublimare le proprie debolezze e i propri limiti in imprese belle e meravigliose potrebbe non bastare. La possibilità, nemmeno tanto remota, che la grande avventura umana si concluda con l’autodistruzione getta infatti un’ombra su tutto il percorso, e qualunque risultato parziale può venire annichilito da quello finale.
L’utopia anti-umana non può dunque essere semplicemente negata: va presa sul serio. La sensatezza ultima dell’agire umano non può (più) essere considerata un presupposto indiscutibile. La convinzione che l’umanità sia e sarà capace di usare responsabilmente le propria capacità e – per dirlo con linguaggio biblico – sappia e saprà «dare gloria a Dio» è davvero un atto di fede, la cui possibile “verità” sarà nota solo escatologicamente.
Chi scrive deve riconoscere che in tempi recenti, per rinnovare tale atto di fede, è stato aiutato da un film, ovvero Il sale della terra di Wim Wenders (2014). La descrizione del percorso biografico del fotografo brasiliano Sebastião Salgado è, nella pellicola, il punto di partenza per un ragionamento sulle responsabilità e le possibilità dell’essere umano sulla terra. Salgado ha potuto fare quello che ha fatto – la laurea in economia, la carriera di fotografo, i viaggi per documentare e denunciare le atrocità e le ingiustizie del Novecento – grazie alla ricchezza della sua famiglia, e in particolare quella prodotta da suo padre, che aveva messo a frutto un ampio territorio, tagliato gli alberi, fatto pascolare il bestiame fino a trasformare in un deserto quello che era stato un paradiso. Tornato, in età matura, al suo paese natale, Salgado si è reso conto di quello che era successo e ha avviato (con il decisivo aiuto della moglie) un processo inverso, fatto di lenta rinascita della stessa foresta che il padre – un padre capace di vivere con orgoglio, ma non con gioia – aveva desertificato. L’apologo, che dà senso al film al di là della sua natura apparente di “documentario”, è chiaro: abbiamo compromesso il pianeta per riuscire a raggiungere un più alto livello di conoscenza e di coscienza; sta ora a noi fare uso di quanto abbiamo imparato per riparare ciò che abbiamo danneggiato.
È qualcosa di più di un colpo di scena all’interno di un film: è un atto di fede nella possibilità che il Logos continui ad accompagnarci, spostando la sua tenda pur di rimanere in mezzo a noi. Anche al di là di ciò di cui saremmo degni. D’altronde i versi che, nella canzone di Luca Carboni, seguono quelli citati in apertura, sono questi: «C’è chi pensa che l’amore debba andare solo a chi se lo merita / ma non conosce giustizia l’amore».