Il maldestro Salvini e le leggi del mare

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Sea Watch e Salvini

Due teste dure a quel che sembra. Matteo Salvini, con la sua cocciuta fermezza nel rifiutare l’ingresso delle imbarcazioni dei migranti nei porti italiani, e Carola Rackete con altrettanta aspra durezza nel certificare che, all’occorrenza, rifarebbe esattamente tutto quel che ha fatto al comando della Sea Watch per ottenere lo sbarco dei profughi africani sulle sponde di Lampedusa. Il tutto nel pieno di un bombardamento verbale sull’imbarcazione con bandiera olandese: siete pirati, lavorate per gli scafisti, fate il loro giuoco.

Pareggiato – il bombardamento – dal fermo ancoraggio della posizione dei marinai alle regole del diritto del mare che impone il salvataggio delle persone in mare prima di ogni altro dovere di chi, per mare, va in cerca di un porto che sia davvero sicuro.

I fatti in breve. Il 12 giugno la Sea Watch soccorre 53 persone davanti alla Libia. 11 sbarcano per motivi sanitari. Gli altri restano sull’imbarcazione della ong tedesca fino al 29 giugno, quando la capitana Carola Rackete tenta l’attracco a Lampedusa. Durante la manovra d’attracco la Sea Watch entra in contatto con la motovedetta della Guardia di Finanza che tenta  di impedirle la manovra. La comandante viene arrestata e messa ai domiciliari.

Infine, il 2 luglio il Gip di Agrigento non convalida l’arresto e restituisce la libertà alla comandante. Con la motivazione: «non c’è reato, perché ha agito in adempimento del dovere di salvare vite umane».

La contesa giuridica

Sugli intrecci delle scie di questa contesa si sono sovrapposte quelle del dibattito giuridico tra le opposte tesi: nel confronto tra le ragioni della terraferma, chiamiamole così, e quelle del naviganti, a chi attribuire la prevalenza nel caso specifico?

Qui è venuto al pettine il nodo della legislazione italiana costituita dalle norme volute da Salvini, e precisamente quella che, al fine di garantire la sicurezza delle coste italiane, impone alle forze dell’ordine nazionali di intervenire con ogni mezzo perché l’offensiva dei pirati si infranga su una barriera difensiva: un muro, un vallo antislamico.

Quest’ultimo episodio della saga di Lampedusa costringe a riflettere sulla distanza che corre tra la cultura laica e religiosa che circondò le prime tragedie del mare, quella dei naufragi di massa, e il disinteresse – per non dire l’indifferenza – in cui affondano questi ultimi episodi, dei quali sono protagonisti manipoli di decine di profughi e stivati su minuscole imbarcazioni a paragone delle prime. E ciò pur considerando che, da allora ad oggi, il numero dei rifugiati è sensibilmente ridotto per le politiche di «trattenimento» in Libia, per quanto equivoca sia la loro genesi, come riflesso degli interessi dei paesi in giuoco.

Parentesi: il blocco navale

E qui una parentesi va fatta per fare un piccolo ingrandimento sulla posizione dell’onorevole Giorgia Meloni, la quale, con insistenza degna di miglior causa, da tempo ormai immemorabile insiste nel richiedere che sia dia corso al «blocco navale» sulle coste libiche in modo da stroncare partenze e arrivi da quelle contrade e così, implicitamente, tagliare il male in radice o, come si dice, la testa al toro. Ma dove c’è anche la riprova dell’inapplicabilità ai tempi e ai luoghi del presente di misure che potevano essere tollerate, caso mai, ai tempi di Napoleone; e quindi della antistoricità delle nozioni di pratica fascista alle esigenze delle economie sviluppate e globalizzate.

Ora la comandante Carola può vantarsi di aver abbattuto il muro voluto dai sovranisti. Lo ha fatto correndo, lei e l’equipaggio e i passeggeri, il rischio della collisione con la guardia costiera italiana schiacciata contro il molo del porto proibito. Ma ha ottenuto un effetto di portata più ampia disarmando una legge particolaristica, come quella che, con animo provinciale, aveva assimilato il mare alla terra, come se sul mare potessero edificarsi muri di separazione, come quelli che Orban fa erigere in Ungheria, cioè come se le leggi del mare potessero equivalere a quelle della terre. Il tutto blindato da sentenze autorevoli di tribunali italiani che hanno smantellato le pretese di equiparazione sostenute dai primi provvedimenti dei procuratori.

Difficile ripetere

Sarà difficile che in un caso analogo (ma vi sarà un caso analogo?) un Pubblico ministero si azzardi a contestare ad un marinaio gli stessi reati che in prima istanza sono stati contestati alla capitana Rackete. C’è un muro di giurisprudenza più solido di qualsiasi muro di cemento. E quanto a Salvini, l’altro «capitano», va detto che, per quante divise, le più svariate, possa indossare, al tirar delle somme lo sconfitto, il grande sconfitto è lui.

Va aggiunto che le leggi generali sono più importanti di quelle particolari e che c’è un divieto generale, mondiale, di violare i diritti umani e le libertà fondamentali, quale che sia il livello di potere che si esercita nel proprio orticello. Per quanto proclami di voler reiterare imprese come quelle del blocco dei porti, anche Salvini incontrerà difficoltà notevoli nell’esercitarsi su questo terreno; perché a nessuno è consentito di impedire ad una nave che cerca un porto sicuro per un carico di profughi di portarlo al riparo nel sito ritenuto più idoneo.

Il mare e la Costituzione

Ma soprattutto dall’insieme delle tessere di questo mosaico di giugno risulta una combinazione inoppugnabile dei principi già scritti come fondamenti delle leggi del mare… e della loro combinazione con quelli della Costituzione italiana. Questa stabilisce che le leggi italiane si ispirano ai principi sanciti dalle leggi internazionali, tra cui, in primo luogo, quelli stabiliti dalle leggi che regolano la navigazione. Se ne deduce che una legge che voglia regolare un aspetto specifico della materia, senza però osservare le norme generali di cui trattasi, violerebbe la Costituzione. Chi ha messo mano alla legislazione sui porti dimenticando tutto questo è dunque da considerare, quantomeno, maldestro.

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