Un anno fa nell’isola di Creta si è celebrato il Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa. L’assise ha concluso un laborioso periodo preconciliare iniziato negli anni Sessanta (in un clima, tra l’altro, di grandi speranze ecumeniche) ed ha emanato sei documenti, unitamente a un’Enciclica e a un Messaggio indirizzati «al popolo ortodosso e a ogni persona di buona volontà», auspicando che lo spirito e la volontà del Sinodo trovassero accoglienza nel cuore, nella preghiera e nella vita del pleroma delle Chiese ortodosse.
Un passo avanti
Si ricorderà che il Concilio è stato marcato dall’assenza di quattro patriarcati (Antiochia, Russia, Bulgaria, Georgia), assenza che ne ha indebolito il prestigio «pan-ortodosso», ma non ha condizionato il regolare svolgimento dei lavori sinodali, che sono stati garantiti dalla presenza di dieci Chiese.
L’attitudine dei padri sinodali è stata, in generale, aperta e positiva. Nessuna condanna della modernità, ma conferma del ruolo «centrale» dell’Ortodossia nel ristabilimento dell’unità dei cristiani nel segno della tradizione apostolica, dottrinale e conciliare del primo millennio; messa in evidenza della natura profetica della missione cristiana e legittimazione dell’uso dell’economia riguardo all’osservanza del digiuno e al riconoscimento dei matrimoni misti; maggiore collaborazione tra le Chiese della diaspora; valorizzazione del dialogo e della collaborazione interreligiosi.
Senza dubbio, a Creta si è registrato un importante passo in avanti nella riaffermazione della conciliarità quale criterio supremo dell’unità e della comunione ecclesiali e nell’aggiornamento della considerazione dei problemi e vicissitudini mondiali del XXI secolo.
La ricezione, «evento ecclesiale»
Un anno dopo sono ancora diversi i nodi da sciogliere. In primo luogo, la preoccupazione per la recezione effettiva del Concilio, soprattutto da parte delle correnti più conservatrici dell’Ortodossia e delle Chiese che non vi hanno preso parte. Inoltre, non mancano controversie bilaterali, come quella tra Antiochia e Gerusalemme sullo statuto giurisdizionale del Qatar, oppure quella riguardante la richiesta del parlamento ucraino al Patriarcato Ecumenico di conferire l’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina di orientamento avverso a Mosca. C’è chi teme che proprio tali fattori potranno ostacolare l’applicazione dei decreti sinodali.
Si deve tuttavia notare che per l’Oriente cristiano il prestigio morale di un Concilio non viene imposto, ma si considera indispensabile criterio il sensus fidelium, ovvero l’accoglienza da parte della base ecclesiale. Si tratta di una graduale, lunga – si potrebbe dire «bizantina» – acquisizione degli emendamenti conciliari da parte delle gerarchie, del popolo e del clero, che ne fa risaltare il vero senso pratico-normativo. In fondo, il processo di recezione è «un evento ecclesiale» che necessita la partecipazione attiva del popolo di Dio.
Ben consapevole di questo, il Concilio di Creta si è voluto rivolgere a tutta l’Ortodossia e non solo a quella parte che ha aderito alla sinassi, o a coloro che ne potevano accogliere le decisioni.
Le Chiese dopo il Concilio
Su questa linea, un’enciclica della Chiesa di Cipro, resa nota dopo il Concilio, notava che le decisioni conciliari devono essere accolte con rispetto, nella varietà dei carismi ecclesiastici e con senso di responsabilità. Accettare la legittimità del Concilio di Creta, notava l’enciclica, significa meditare sulle responsabilità di ognuno nel piano salvifico di Dio; solo così le decisioni sinodali possono divenire indicative per tutti i fedeli in modo che essi accolgano la volontà di Dio di farli diventare suoi cooperatori nell’edificazione della Chiesa.
Sulla medesima linea, il Sinodo del Patriarcato di Alessandria (novembre 2016) ha evidenziato che la sinodalità preserva la fede ecclesiale da ogni deformazione ideologizzante (esclusivismo, conservatorismo, fondamentalismo) e mette l’agire cristiano in contatto con problemi reali, in contesti concreti e in condizioni evidenti.
Anche la Chiesa di Grecia, riconoscendo la posizione «organica» che ha l’istituzione conciliare nella vita ecclesiale, si è espressa circa la necessità di comunicare le decisioni conciliari alle commissioni sinodali, alle scuole di teologia, alle diocesi, ai gruppi catechetici, ai vari canali di informazione della Chiesa ellenica. Il patriarcato di Romania, dal canto suo, ha condannato lo zelotismo anti-conciliare e ogni tentativo di rottura della comunione all’interno di una Chiesa, o tra le Chiese, a nome di una presunta difesa della fede.
Zelotismo anti-ecumenico
Si tocca qui un aspetto delicato e considerato da molti il più critico del cammino post-conciliare: lo zelo anti-ecumenico di alcune correnti che, con una dura e incessante critica anti-conciliare, hanno inteso prendere le distanze dai prelati e teologi che appoggiano Creta, arrivando in certi casi anche a rompere la comunione canonica con alcuni vescovi.
Tali gruppi si sono eretti a difensori della purezza dell’Ortodossia avversando ogni contatto con i cristiani «eterodossi». È proprio a questi ambienti che fa riferimento il Patriarcato rumeno, ricordando che un cristiano ortodosso «può rimanere fedele all’ortodossia anche quando dialoga o coopera con altri cristiani, senza essere fanatico, arrogante o aggressivo».
Il partito degli zeloti, piuttosto variegato nella sua composizione e forte in alcuni paesi, non ha trovato però il consenso della comunità monastica del Monte Athos (nota per le sue prese di posizione anti-ecumeniche). In un Messaggio del 30 giugno scorso, la comunità atònita parlava di «disordini fumanti causati dalla reazione contro il Santo e Grande Concilio di Creta» e dell’«interruzione della commemorazione» da parte di alcuni vescovi, esortando tutti ad affidarsi all’amore di Cristo e non alle «credenze individuali», che conducono fuori dalla Chiesa e seminano «la tentazione dell’eresia».
Ciò non significa che la presenza dello zelotismo nell’Ortodossia sia marginale. Marginale è invece il suo criterio di azione, in quanto rinuncia a un principio fondante dell’identità e dell’agire ecclesiali (la sinodalità), in favore di quella che per l’arcivescovo di Albania, Anastasios, è la «madre di tutte le eresie», che «avvelena i rapporti umani e ogni forma di convivenza armoniosa e creativa»: l’egocentrismo religioso.
Ellenofili vs russofili
Non sorprende, invece, la reazione del Patriarcato di Mosca, senza dubbio la più emblematica delle quattro assenze di un anno fa. Attraverso un’enciclica (datata 15 luglio 2016), il Patriarcato russo affermava che l’«incontro» di Creta era stato un evento importante nel cammino sinodale dell’Ortodossia e come tale poteva «contribuire alla preparazione del Santo e Grande Concilio» di tutte le Chiese autocefale. E tuttavia, aggiungeva Mosca in sintonia con il Patriarcato di Antiochia, il Concilio di Creta non poteva essere considerato «panortodosso» e nemmeno i documenti approvati in quella sede erano frutto di un consenso panortodosso. Nella stessa enciclica, una commissione veniva incaricata di prendere nota delle osservazioni ai documenti da parte dei teologi, sacerdoti, monaci e laici della Chiesa russa.
In termini di geopolitica ecclesiastica c’è chi vede la contrapposizione tra un blocco ellenofono e un partito russofilo, un contrasto che rispecchierebbe i diversi interessi politici in gioco nelle aree del Medio Oriente e dell’Europa orientale. Tale lettura, anche se fornisce indizi stimolanti per gli analisti di politica internazionale, non prende in esame la natura e la finalità specificatamente ecclesiali del Concilio di Creta, per cui offusca il tentativo di comprenderne il vero proposito.
La condanna categorica dell’«etnofiletismo» (nazionalismo religioso) da parte dei padri sinodali, come pure la cornice multi-ecclesiale del Concilio, non sembrano sostenere l’idea di Chiese in contrasto a causa del rispettivo profilo nazionale. Il merito del Concilio è stato, casomai, proprio quello di aver reso netta la distinzione tra un’Ortodossia ancorata al paradigma dell’intesa tra Chiesa e stato e un’Ortodossia, invece, propensa ad accogliere profeticamente le sfide della modernità pluralista e globalizzata, reimpostando la propria missione oltre l’orbita delle enunciazioni etnocentriche.
Verso un’Ortodossia ecumenica?
L’Ortodossia ha dimostrato così di essere un organismo vivo, capace di aprirsi alle nuove periferie dell’ecumene. In questo senso, il patriarcato di Alessandria, che negli ultimi decenni svolge un’attività evangelizzatrice di non poco conto in Africa, incoraggiando la creazione di un episcopato e un clero indigeni, ha deciso di ripristinare l’antica istituzione delle diaconesse e di inserirla nelle attuali esigenze della missione.
Il Patriarcato Ecumenico, da parte sua, assicura il proseguimento dei dialoghi ecumenici, come mostra la convergenza tra il patriarca Bartolomeo e il papa Francesco in una serie di temi, quali la sinodalità, la tutela del creato, la pace fra le religioni. In Albania, l’arcivescovo Anastasios, prelato di ampio respiro pastorale, ha riportato in vita la comunità cristiana dalle ceneri delle persecuzioni hoxhiane ed ha rifondato la Chiesa coinvolgendo la popolazione locale, sia greca sia albanese. Simile è l’esempio di un’altra Chiesa ortodossa missionaria, quella di Corea (dipendente dal Patriarcato Ecumenico), la quale prosegue il proprio cammino di inculturazione nella realtà coreana più che importare un modello di Ortodossia di stampo greco.
Il dibattito post-conciliare proseguirà in modo acceso. Va ribadito che il Santo e Grande Concilio non ha formalizzato alcuna spaccatura all’interno dell’Ortodossia, indicando piuttosto il criterio che ne accompagnerà l’avvenire: il passaggio dal «plurale» delle ortodossie nazionali al «singolare» di un’Ortodossia ecumenica che dà testimonianza del Regno che verrà, senza condannare il mondo e senza abbracciare Cesare, senza indottrinare la propria disciplina, ma rimanendo libera di annunciare il Vangelo nelle angosce umane, senza appoggiare quelle logiche che sconvolgono la storia, frantumano l’umanità e perpetuano la divisione dei cristiani.