Il prossimo Sinodo sui giovani accelera ormai la sua preparazione. Ma c’è un aspetto di questo Sinodo che non va trascurato, e attiene alla seconda parte del suo titolo: “… il discernimento vocazionale”. Evidentemente, il “discernimento vocazionale” non riguarda solo la preparazione al sacerdozio né è l’atto di uno scrutinio valutativo, ma un intero processo educativo solido e continuamente rinnovato. Qui, si intende dare un aiuto sull’aspetto riguardante la formazione seminaristica. “Settimananews” dedicherà quattro articoli al tema, a firma del nostro collaboratore, don Michele Giulio Masciarelli, che attinge alla sua esperienza quarantennale di docente di pedagogia nei licei pedagogici, di teologia in seminario, in facoltà teologiche e di preside per diversi turni nell’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano (Chieti), ma anche in qualità di cultore della pedagogia, sulla quale ha scritto diversi libri, fra i quali: “Il grido di Benedetto. Dall’emergenza educativa alla pedagogia del cuore”, Tau Editrice, Todi (PG) 2009.
Due premesse necessarie
- Serve un’educazione seria. Va detto a premessa: bisogna credere che l’educazione in tutti i suoi aspetti (umano, spirituale, teologico, pastorale) vada posta nell’ordine del principio.[1] Di tutto si può fare a meno, anche del pane e dell’acqua, ma non dell’educazione. E, in termini meno astratti, nessuno è più importante nella vita degli uomini dell’educatore, il più grande benefattore dell’umanità. Egli è insostituibile perché, se è possibile essere autodidatti nei saperi, non è possibile in nessun modo l’autoeducazione: nessuno può essere consigliere, correttore, giudice di sé. A pretenderlo si diventerebbe al minimo ridicoli, al massimo blasfemi: chi vuol essere precettore e maestro di sé finirà per inginocchiarsi goffamente verso se stesso.[2]
Nei seminari l’educazione (non molle, permissiva, episodica, discontinua, astratta, formalistica, carente di motivazioni forti…) è tema primario, naturalmente essa va promossa da educatori all’altezza del compito e richiede alte qualità, lunga e forte esperienza di vita pastorale-parrocale, competenza pedagogica assai seria, non solo giovanile, perché è vero che in seminario si educano giovani (e spesso non solo giovani), ma li si educano a stare al mondo e ad essere pastori nella Chiesa, due spazi che non sono composti solo da giovani…
- La psicologia non sostituisce l’educazione. Subito un’osservazione: la pur buona attenzione alle problematiche psicologiche dei candidati al sacerdozio, col ricorso ad esperti preparati nelle scienze psicologiche, può essere un discorso solo d’appoggio all’opera educativa. La psicologia (è bene ricordarlo) non è la pedagogia: quella è certamente nell’ordine dei mezzi, questa piuttosto nell’ordine dei fini, anche se a questa non si dà pari attenzione come a quella.
La psicologia nei seminari può avere un ruolo discretamente ancillare nei confronti della complessa e multidimensionale opera educativa, che è il di più, che è l’oltre, che è lo scopo della vita seminaristica. In un tempo costretto a guardare ad un orizzonte esistenziale sempre più sfibrato e mesto, connotato dal pensiero debole e dalla caduta di molte certezze etiche,[3] si fa impellente la necessità di riprendere, in tutti gli ambienti dell’educazione cristiana, soprattutto nei seminari, il discorso (salva la difficoltà del come poter fare[4]), sui valori eterni, assoluti o almeno forti come quello della persona e di quanto essa esprime, costruisce e rappresenta.[5]
Vincere lo scetticismo educativo
È innegabile. Oggi si è incerti circa la possibilità di un progetto educativo; talora non s’attinge neppure la certezza minimale riguardo alle strategie educative da adottare; si finisce per dubitare perfino della stessa idea educativa. È questo terzo punto che preoccupa maggiormente.
Le responsabilità di una crisi così vasta, come quella sopra descritta, non è facile rinvenirle in particolari soggetti personali. Occorrono ragioni forti, motivazioni convincenti, previsioni rassicuranti e, più ancora, esempi convincenti che dispongano a coltivare il momento pedagogico come valore in sé, ma anche nel convincimento che, così, si prepara la ricostruzione del tessuto lacerato della vita sociale.
Lo scetticismo e lo scoramento scuotono come vento gelido tutti gli spazi educativi, soprattutto la famiglia e la scuola che non sempre sono coscienti di poter e dover essere il primo soggetto dell’educazione, e di poter e dover disporre esse stesse di un vero progetto educativo. Ma è vincibile la sfiducia che colpisce il mondo dell’educazione, che avverte il rischio concreto dell’impoverimento di ogni autentica progettualità educativa e di un diffuso scetticismo che arriva a toccare le radici dello stesso educare. Una ragione di questa fiducia in una ripresa di una feconda esperienza educativa va scorta nella qualità umana dell’educazione stessa, che è capace di essere emendata, ripensata, cambiata anche profondamente, perché dipende dalla libertà dell’uomo.
Educare è “conservare” (H. Arendt)
Dinanzi a quella che Edgard Morin indica come «policrisi»,[6] si tenta di trovare strade educative che portino non anzitutto ad imparare come risolvere problemi (cosa pur necessaria e da fare), ma ad essere ed a crescere nell’essere in vista della soluzione dei problemi che di mano in mano la vita pone dinanzi. È una prima forma di libertà, che può cambiare dall’interno l’esperienza educativa.
Ma c’è un’altra innovazione che va operata in campo educativo ed è la personalizzazione dei valori che provengono dalla tradizione. Educare significa tramandare valori, stili di vita, ragioni di fiducia negli uomini e di speranza verso il futuro.
Educare significa conservare e tramandare la sapienza di vita, ossia la verità, la bontà, la bellezza che le generazioni passate hanno espresso, per accrescerle e rinnovarle.
È sottile quanto insegna la Arendt circa l’apparente contraddizione fra tradizione e innovazione: «Non vorrei essere fraintesa: secondo me il conservatorismo, o meglio “il conservare”, è parte essenziale dell’attività educativa, che si prefigge sempre di custodire, proteggere qualcosa: il bambino dal mondo, il mondo dal bambino, il nuovo dal vecchio, il vecchio dal nuovo».[7]
Certo, abbandonate la ricerca del vero e la coltivazione dei contenuti, è inevitabile lo scivolamento verso il “come” metodologico. È la situazione penosa in cui viene a trovarsi oggi in cui l’elemento tecnologico è diventato omnipervasivo nella proposta educativa dei nostri ordinamenti scolastici. È l’unica cosa che interessa.
Ricordando il “grido” di Benedetto XVI sull’emergenza educativa
Occorre tenere necessario conto della tradizione, la cui dimenticanza va colmata con intelligenza. Osserva, in proposito, il matematico Giorgio Israel in un’intervista a Monica Mondo sulla Lettera di papa Ratzinger sull’emergenza educativa del 21 gennaio 2008:[8] «è chiaro che il richiamo alla tradizione non può essere conservativo, un ricorso al passato per restaurarlo. Ma gli strumenti della tradizione vanno offerti, proprio perché l’insegnamento non diventi pura metodologia. È il dramma che viviamo oggi. Cartesio, che ha rivoluzionato il pensiero filosofico, è stato formato al collegio gesuita di La Flèche. Galileo era un aristotelico, in fondo. Ora si pensa, invece, che occorra proiettarsi in avanti, cioè nel vuoto, sostituendo ai contenuti la metodologia, “la scelta dei nullatenenti”, diceva Lucio Colletti»[9].
Di là delle battute, la metodologia e le tecnologie non sono l’educazione. Bisogna tornare alle domande sul perché e a qual fine educare, su quale uomo si vuole educare, su quali valori si vuole tramandare e coltivare. In una Lettera agli studenti, ai genitori e alle comunità educanti, i vescovi italiani scrivevano qualche anno fa: «La comunicazione sarà tanto più costruttiva quanto più saprà abbracciare – nei modi culturali propri della scuola – tutte le dimensioni della persona, sottolineandone le attese più profonde ed esplicitando quei significati che facilmente vengono trascurati dalla mentalità corrente: la ricerca della verità, la comprensione dell’identità e della dignità propria delle persone, l’educazione alla responsabilità e alla solidarietà, il senso religioso».[10]
[1] Cf. Arciv. E. Menichelli, Primo, educare. Sei «messaggi» sui giovani, Leumann (TO), 1998.
[2] Cf. M. Donati – M. Malfatti (a cura), L’educatore indispensabile, Milano 1992.
[3] Cf. A. Del Noce – U. Spirito, Tramonto e eclissi dei valori tradizionali?, Milano 1971; G. Fichera, Crisi e valori ed altri saggi, Padova 1958.
[4] Sulla problematica della scomparsa dei valori e sulla possibilità de loro ritrovamento, cf. J. Stoetzel, I valori del tempo presente. Un’inchiesta europea, Torino 1984; Aa.Vv., L’Occidente ha ancora valori da proporre?, Palermo 1986; Aa.Vv., Per una cultura del valore, a cura di A. Rigobello, Roma 1989; Fondazione Internazionale Nova Spes, Per una carta dei fondamentali valori umani, Roma 1993).
[5] Cf. G. La Pira, Il valore della persona umana, Firenze 1962.
[6] Cf. E. Morin, Terra-Patria, Milano 1993, pp. 92-94.
[7] H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano 19992, p. 250.
[8] Cf. L’Osservatore Romano (24.1.2008), p. 8.
[9] L’Osservatore Romano (23.2.2008), p. 5.
[10] Commissione Episcopale CEI per l’Educazione Cattolica, la Cultura, la Scuola e l’Università, Per la scuola (29.4.1995), n. 6.
Credo che, al di là delle molte riflessioni che si possono e si devono fare, sarebbe opportuno che la Chiesa si lasciasse provocare ed interrogare profondissimamente dai presbiteri che, ad un certo punto del loro ministero, hanno scelto di abbandonare la missione pastorale. E non basta dire: forse non aveva fatto sufficiente discernimento all’epoca e, quindi, nel tempo precedente l’ordinazione presbiterale. La formazione seminaristica è spesso poco liberante e molto inquadrante! Il ruolo diventa, spesso e volentieri, il centro su cui aggrapparsi per sentirsi realizzati ed essere qualcuno. La formazione seminaristica è troppo “chiusa” e necessita di essere, a mio avviso, abbandonata per dare vita a presbiteri scelti effettivamente all’interno delle comunità cristiane, eletti dal popolo di Dio e non solo auto-eletti perché “chiamati”!