Prosegue la rubrica di don Armando Matteo, «Verso il Sinodo sui giovani», pubblicata sulla rivista Vita pastorale. Di seguito gli interventi finora pubblicati: Crescere in una società senza adulti /1; Se credere non è più di moda /2; Ripartire dagli adulti /3; La vocazione all’adultità /4; La domenica al centro /5; Insegna a pregare /6; Credi di più nella Bibbia /7; Una fede a schemi non funziona più /8; Sacramenti e solidarietà /9; Scommettere sulla creatività digitale /10.
La mia frequentazione di comunità monastiche mi suggerisce la formulazione di un ulteriore principio di Pastorale giovanile vocazionale: nel nostro lavoro con le nuove generazioni dobbiamo andare a scuola dai monaci. Io stesso ho potuto, più e più volte, constatare la forza di attrazione che la comunità monastiche esercitano sui più giovani. Sarà per la maggiore libertà rispetto a schemi pastorali nazionali e diocesani o a tradizioni popolari risalenti alla notte dei tempi, sarà per il ripetuto contatto con persone che li cercano a partire da cammini personali i più disparati, in ogni caso, i monaci appaiono dotati di una particolare disposizione all’accoglienza, all’ospitalità. In una parola, a far sentire «a casa» chi si reca da loro.
In particolare, desidero sottolineare alcuni aspetti che mi hanno sempre colpito dalle mie soste «monastiche». E che potrebbero diventare oggetto di meditazione in vista del rinnovamento della pastorale giovanile che ci attende. Innanzitutto, ricordo il largo spazio concesso all’esperienza del silenzio, unito all’offerta di uno stile di preghiera più essenziale e contemplativo. Rammento, poi, la centratura decisa di ogni meditazione sulla pagina del Vangelo e la speciale attenzione ai canti e alla possibilità che tutti i presenti possano partecipare attivamente ai momenti liturgici. Faccio ancora memoria della minuziosa cura estetica di tutti gli spazi, segno visibile di una presenza umana, segnata certamente da sobrietà e semplicità ma anche da bellezza. Non posso dimenticare le tante iniziative di riflessione o di approfondimento rivolte al mondo giovanile e normalmente indirizzate a recuperare i tratti veramente umanizzanti della nostra esistenza.
Proprio grazie a tutto questo, i monaci offrono a coloro che si recano da essi l’opportunità di recuperare prezioso terreno su esperienze fondamentali e fondanti della nostra umanità, cosa che trova particolare apprezzamento proprio tra i più giovani. Vorrei ricordarne due, di queste esperienze.
La prima è quella della capacità di stare da soli. Che non è soltanto la capacità di abitare il tempo in cui non si è con gli altri. Ma più radicalmente, è il tempo di poter stare con se stessi. E forse è più che provvidenziale il fatto che, in molti monasteri, sia davvero complicato avere campo per i cellulari. La seconda esperienza è quella della capacità di attendere. O, più precisamente, di vegliare. Che è la capacità di rallentare il passo, di misurare fino in fondo i movimenti interiori della propria anima. Senza questa abilità, è davvero difficile, per chiunque, capire che cosa veramente sia frutto di un suo reale desiderio e cosa, invece, non sia precipitato residuale delle numerose sollecitazioni che di continuo il mondo esterno della comunicazione di massa rilancia.
Ancora oggi, i monaci offrono a tutti l’occasione di assaporare quel «rientra in te stesso» di agostiniana memoria, che non ha perso la sua validità. Abbiamo molto da imparare dai monaci, per rendere davvero le nostre comunità sempre più in grado, come ci chiede Francesco, di interpretare e dare risposte alle «inquietudini, necessità, problematiche e ferite» (EV 105) delle nuove generazioni.