Uno stile interlocutorio e una certa inconcludenza sono state caratteristiche evidenti non della prima Assemblea del Sinodo dei Vescovi, ma del suo documento di sintesi (= RS).
La sintesi non era conclusiva e pertanto è rimasta, in larga parte, molto, forse troppo, indeterminata. Questo, pur non autorizzando a confondere il documento intermedio con il risultato conclusivo, impone una riflessione necessaria. Occorre, quindi, evitare di spostare il giudizio sul documento come giudizio sull’esperienza sinodale.
Ma è altrettanto vero che, senza un salto di qualità, il rischio di dispersione e di irrilevanza minaccia non poco il lavoro dei prossimi 10 mesi. Per evitare di essere «come un parlamento», la assemblea sinodale rischierebbe di cadere nel peggiore dei difetti dei parlamenti: emendare le proposizioni in modo tale da ottenere il massimo consenso con il massimo di irrilevanza.
Senza alcun dubbio, una certa vaghezza del testo della RS è dipeso dallo scarso coinvolgimento teologico nel pensiero e nel linguaggio. Molte delle proposizioni, votate alla fine della prima fase del confronto, sono punti di equilibrio politico, ma teologicamente orientati alla stasi.
Se la Chiesa vuole «uscire», per farlo deve decidere da quale porta, con quale vestito, e in quale direzione. Se non decide nulla, resta dov’è.
Per questo, nella fase inter-sinodale che stiamo attraversando, sarebbe urgente un raccordo tra «ascolto del popolo di Dio» e «discorso teologico», per dare alla sintesi finale un profilo, un orientamento e una direzione, diversa dalla pur importante consapevolezza di essere messi in ascolto reciproco.
Su questo aspetto, tutt’altro che secondario per il buon esito del percorso sinodale, dovrebbero essere messi in chiaro alcuni punti, che provo qui a riassumere in cinque proposizioni.
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I teologi, o coloro che sono abituati a considerarsi tali, dovrebbero esprimere apertamente le loro convinzioni, nell’ambito di un clima di ascolto e di rispetto reciproco. Il rispetto è dovuto a tutti, anche a coloro che esprimono «compiutamente» la loro convinzione sui temi fondamentali su cui il Sinodo ha chiesto «approfondimento».
E bisogna riconoscere che molti sono gli aspetti su cui apertis verbis la RS ha chiesto uno studio vero. Chi di mestiere studia, deve farlo ora con particolare intensità, senza preoccuparsi di accontentare tutti, ma al fine di servire la verità.
Un approfondimento si realizza non semplicemente giustapponendo opinioni diverse, ma analizzando fino in fondo le ragioni che sorreggono le diverse opinioni, per operare un discernimento tra di esse. La teologia non è semplicemente una questione de gustibus, o un’ansia di polarizzazioni, ma un’accurata comparazione di autorità e di evidenze, che meritano un serio lavoro di confronto, per trovare una strada determinata (non una fusione indeterminata) su cui creare il consenso (un nuovo consenso) ed evitare le polarizzazioni, che discendono da scarsa formazione.
I teologi non possono semplicemente attendere che il magistero si pronunci. Questa sembra l’ideale sottaciuto di qualche teologo. Ma sistemare ordinatamente il magistero autentico è solo una parte del loro lavoro.
Nel rispetto dei ruoli irriducibili della cattedra pastorale rispetto alla cattedra accademica, coloro che svolgono il ministero della riflessione critica sulla tradizione sono chiamati ad esprimere con chiarezza i loro avvisi, in modo da alimentare un dibattito non fazioso, ma competente e informato. Lo studio non sta solo a valle del magistero autentico, ma sta anche a monte di esso, per poter offrire al magistero pastorale le parole più adeguate e i pensieri più accurati con cui fare esperienza e darne espressione.
Anche in teologia, come nelle altre scienze, non occorre essere autorizzati a pensare: il teologo non deve aspettare di essere imbeccato da un organo ufficiale, da una commissione o da una richiesta esplicita.
Può (anzi, io direi deve) offrire, di propria iniziativa, una lettura sintetica della tradizione sui temi urgenti dell’esercizio dell’autorità, dei soggetti del ministero, degli equilibri ecclesiali, delle forme della giurisdizione e delle norme canoniche, su cui siamo esplicitamente alla ricerca di nuove categorie. La fedeltà alla tradizione passa anche attraverso questa ricerca, inevitabilmente ardua e rischiosa.
Soprattutto negli ambiti dottrinali in cui l’elaborazione scientifica e argomentativa è ferma da decenni, un contributo teologico fresco e dinamico può aiutare la parola ecclesiale (del popolo come delle istituzioni) ad uscire da luoghi comuni che assicurano soltanto la stasi, l’immobilismo e la chiusura.
Una Chiesa in uscita esige pensiero fedele nella novità e audace nella fedeltà. Senza un’elaborazione coerente e compiuta delle questioni, non si potrà affidare soltanto all’ascolto quel compito di deliberazioni organiche e lungimiranti, che può scaturire soltanto da una sintesi teologica originale.
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Se, in questi dieci mesi, singoli teologi e gruppi di ricerca sapranno mettere a frutto la loro esperienza e il loro ingegno, la loro fedeltà creativa e il loro servizio audace, potranno favorire quel cammino di sapienza ecclesiale, che non si risolve mai nella fatica del concetto, ma che, senza l’esercizio ministeriale di tale fatica, rischia di convincersi che quando fa uso dei concetti (perché dei concetti non si può mai fare a meno, anche quando li si nega), possa semplicemente ricorrere a concetti vecchi.
Ed è questa una tentazione alla quale si può sfuggire solo pensando più in grande, correndo il rischio di inaugurare un paradigma veramente nuovo. Solo questa audacia fedele potrà custodire il depositum fidei.
Io non sono una teologa, ma credo che una seriaricerca teologica sia necessaria per il magistero e questo ancora più in questo momento storico caratterizzato da una fluidità sempre crescente. Se il Sinodo porterà frutti a tutta la Chiesa sarà necessario un approfondimento teologico altrimenti tutto almeno nella sostanza rimarrà senza frutti.
Dov’è Dio? Dove lo Spirito (pur tirato in ballo a sproposito ad ogni piè sospinto)? Dov’è il discernimento? Tutte le valutazioni sono immanenti e rigidamente orizzontali, direi quasi solo secolari. Bisogna solo ascoltarsi e ascoltare il mondo intorno. Va focalizzato il target. Mancano solo la vision, la mission, l’output e l’outcome e siamo all’economia aziendale…
Il sinodo era sulla “sinodalita’”, non sugli argomenti trattati. La sinodalita non prevede che alla fine si debba scegliere l’opinione più giusta, ma che tante opinioni diverse sono tutte espressioni del Popolo di Dio alla ricerca della Verità. È questa la vera e unica novità. La dottrina e la teologia non dicono la Verità, ma aiutano i credenti a ricercare la Verità, che però non conosciamo ancora.
Guido Lanciano
Ma certo che conosciamo la Verità.
La conosciamo da più di duemila anni.
Questa Verità è Gesù Cristo.
“Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche mio Padre; e fin da ora lo conoscete, e l’avete visto”.
Fin da ora
Fidiamoci di Gesù piuttosto che dei sapienti di questo mondo.
La Chiesa fa fatica a discutere e parlare, per non dire paura. I preti e i vescovi non vogliono mettere in discussione niente e poi si lamentano che le persone non li seguono. È chiaro che con questo quadro la Relazione di sintesi sia vaga, come per esempio non si dice a quali principi si possa ispirare la proposta di riforma del Codice di Diritto Canonico. La Relazione di sintesi è un programma di riforma da sviluppare, ma è il progetto di riforma più ampio e più profondo da 1000 a questa parte.
La tradizione è sempre da “reinventare” ad ogni cambiamento di ciclo culturale (Ch. Theobald).
Grazie Andrea per il tuo testo. Credo che il tema del dichiararsi apertamente da parte dei teologi sia molto importante, sebbene i rapporti di forza (potere) che danno forma alla teologia (sapere) pregiudichino l’esercizio di una certa franchezza.
Ci tengo inoltre a sottolineare (cosa tra l’altro che Andrea Grillo ha scritto lucidamente in diversi scritti) che anche il non dichiararsi o anche il voler lasciare le cose in una fase di stallo, significa optare per un cambiamento. Anche i discorsi universalistici o insistenti su linearità e continuità sono operazioni di cambiamento. Anche i discorsi sulla Chiesa che non è una democrazia sono operazioni di cambiamento. Non esiste un punto di equidistanza e di immobilità, perché siamo tutti sollecitati dal nostro presente. La differenza la fa soltanto il modo con cui ci poniamo di fronte al nostro tempo: se lo vogliamo accogliere e ascoltare (discernimento) o se lo vogliamo rifiutare. Tutti partecipiamo politicamente al nostro presente. Cambiano solo i nostri “stili”, ovvero i nostri “modi” di abitare un mondo (valori, opzioni, paure, desideri).
Forse Andrea Grillo fa degli esperimenti per dimostrare la veridicita’ delle sue Opinioni teologiche? O puo’ in altro modo dimostrare come infinitamente veri i suoi assiomi ? O puo’ dimostrare almeno che cio’ che lui, Andrea Grillo ,sostiene e’ ,universalmente verificato e verificabile, nonche’ falsificabile? ?
Se non puo’ fare questo non puo’ definire la teologia una scienza. Sono scienze la matematica ,la fisica, la chimica .Le opinioni teologiche, anche quelle del migliore dei teologi,rimangono indimostrabili.
“Anche in teologia ,come nelle altre scienze “.
Da quando la teologia e’ una scienza ?
La definizione di scienza e’ scienza è un sistema di conoscenze ottenute attraverso un’attività di ricerca prevalentemente organizzata con procedimenti metodici e rigorosi, coniugando la sperimentazione con ragionamenti e esperimenti logici condotti a partire da un insieme di assiomi,tipici delle discipline formali. Uno dei primi esempi del loro utilizzo lo si può trovare negli Elementi di Euclide, mentre il metodo sperimentale, tipico della scienza moderna, venne introdotto da Galileo Galilei, e prevede di controllare continuamente che le osservazioni sperimentali siano coerenti con le ipotesi e i ragionamenti svolti.