I rischi del Sinodo

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Una voce ricorrente con grande frequenza, proveniente dall’alto, e poi replicata infinitamente anche dal basso, è che i sinodali devono porsi continuamente in ascolto e saper ascoltare.

Ascolto sì, ma…

Si indovina, dietro all’insistita raccomandazione, la paura che in Sinodo ciascuno si faccia portatore di un suo determinato giudizio sulle cose, che si creino gruppi di consenso su una o un’altra tesi e che, alla fine, si giochi alla creazione e alla verifica di una maggioranza, che risulti decisiva in ordine alle proposte finali da presentare al papa.

Eppure è proprio così che si è svolto ed è pervenuto alle sue conclusioni il concilio Vaticano II, come tutti gli altri concili della Chiesa. La vivacissima dialettica che lo ha animato nel confronto, a volte duro e doloroso, fra opinioni e proposte diverse, è stata il segreto della sua fecondità.

Nonostante che i moderatori e la segreteria lo vietassero, nell’atrio della Basilica di San Pietro, ogni tanto si faceva addirittura del volantinaggio. Gruppi di vescovi dello stesso orientamento diffondevano i loro ciclostilati per creare vaste zone di consenso intorno alle loro proposte. Né mai io ho potuto constatare che qualcuno, nell’immensa letteratura dell’indagine storica e del commento ai documenti e all’evento conciliare, abbia deplorato questo genere di andamento che ha caratterizzato i lavori conciliari.

L’insistenza dell’invito all’ascolto crea alla fine un quadro, in cui collocare i lavori sinodali, alquanto paradossale, visto che ascoltare si può, solo se c’è qualcuno che parla. L’invito all’ascolto, quindi, deve essere accompagnato da un invito, ugualmente insistito, da rivolgere ai sinodali, affinché ciascuno si assuma la responsabilità di dire esplicitamente ciò che veramente pensa e giudica nel suo discernimento e nella sua coscienza.

Il fatto che il Sinodo sia consultivo non significa che debba esercitare una funzione di sostegno e conforto a ciò che già pensa il papa, ma suo compito è piuttosto quello di presentargli le attese delle loro popolazioni e di avanzargli proposte nuove e anche diverse, che lo aiutino a quel continuo ripensamento delle proprie convinzioni, che è segno di saggezza e di testimonianza di fede nell’azione imprevedibile dello Spirito.

È proprio a partire dall’incrocio fra le posizioni, anche le più diverse, che ci si pone in ascolto dello Spirito, il quale non parla esclusivamente nell’ispirazione che ciascuno sperimenta nella sua interiorità, bensì nell’insieme dell’evento ecclesiale, sacramento, segno e strumento dell’opera di Dio nella storia.

Uno stile senza contenuti?

Una seconda preoccupazione che ogni tanto prende la parola nello spazio della pubblica conversazione è che il Sinodo debba necessariamente pervenire ad una qualche decisione concreta, mentre il suo scopo sarebbe semplicemente quello di sperimentare e proporre alle Chiese uno stile di azione, un modello da replicare nei processi decisionali che qua e là si mettono in opera.

A dire il vero, si potrebbe fare anche un ragionamento a rovescio e dire che il Sinodo deve imparare e riprodurre lo stile dei processi decisionali che alcune comunità stanno adottando, in fedeltà alla dottrina conciliare del popolo di Dio, popolo messianico, strumento della redenzione, di Lumen gentium 9, nonostante il Codice di Diritto canonico non imponga al vescovo e al parroco alcuna pratica veramente sinodale.

A dire il vero, è proprio alla decisione di proporre al papa una riforma dell’ordinamento canonico, che il Sinodo dovrebbe pervenire, in modo che vi si preveda l’obbligatorietà dell’istituzione di organi sinodali, senza il consenso dei quali, in alcune materie, parroco e vescovo non possano pervenire ad una decisione definitiva. Senza questa riforma, qualsiasi discorso sulla «corresponsabilità» dei fedeli nella missione della Chiesa resta carente o vuoto del tutto.

È vero che, senza il formarsi di una mentalità sinodale diffusa, sia fra i pastori che tra i fedeli, anche una nuova normativa rischia di restare sterile. Però è tanto più vero che, alla prova dei fatti, praticare oggi la sinodalità richiede di muoversi al di fuori di un ordinamento che non prevede alcuna distribuzione delle responsabilità nelle decisioni da prendere e le accolla sempre e comunque sulle spalle del parroco e del vescovo. Al punto che il pastore resta responsabile delle decisioni anche nelle materie per le quali il sacramento dell’Ordine non gli ha conferito alcuno specifico carisma e nelle quali egli non ha alcuna determinata competenza.

Il coraggio delle decisioni

Un terzo pensiero, non tanto espresso quanto diffusamente implicito, è che, comunque sia, il Sinodo è un organismo puramente consultivo, quindi non gli compete di prendere alcuna decisione.

È questo un modo di pensare che frequentemente determina anche il funzionamento dei diversi consigli pastorali, che si riducono ad una sorta di forum, nel quale ciascuno esprime la sua opinione e poi si torna a casa senza aver deciso nulla.

Un organo consultivo non è che non debba decidere alcunché: deve decidere, invece, attraverso la verifica della maggioranza e delle minoranze che vi si sono manifestate, cosa intende consigliare al pastore. Non il giudizio dell’uno e dell’altro di tutti i membri che lo compongono, ma il giudizio del consiglio stesso in quanto organismo collegiale, così come risulta dal consenso della maggioranza dei componenti su una certa determinata proposta.

Il servizio che il Sinodo è chiamato a rendere al papa non è quello di sostenerlo nel suo giudizio sulle cose da fare o da non fare, ma di esprimergli le attese del popolo di Dio, soprattutto quelle più innovative, che gli richiedano un’incessante opera di discernimento per il bene della Chiesa, da inseguire di tempo in tempo con un’attenta lettura dei «segni dei tempi».

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