Interrogativi sul Sinodo

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chiesa italiana

Non sono mancate le critiche all’Instrumentum laboris per la Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (prevista per ottobre 2024), pubblicato lo scorso 9 luglio. Ai rilievi e alle perplessità abbiamo risposto con un articolato commento firmato da Marcello Neri (cf. qui su SettimanaNews). Don Dario Vitali, ecclesiologo e consultore della Segreteria Generale del Sinodo, coordinatore degli esperti teologi alla prima Sessione dello scorso ottobre, ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande per dare conto del lavoro svolto e degli obiettivi dello stesso nella prospettiva del processo sinodale.

  • Don Dario, SettimanaNews ha ricevuto e pubblicato alcuni contributi critici nei confronti dell’Instrumentum laboris (IL) per la seconda sessione dell’Assemblea del Sinodo. Come giudica queste valutazioni lei che ha partecipato direttamente alla redazione del testo?

Devo dire che ho letto con una certa sorpresa gli interventi sull’IL. Non mi impressionano i giudizi, ma i giudizi affrettati e i pregiudizi. Molte considerazioni sono del tutto pertinenti per un’analisi sulla situazione attuale della Chiesa, ma danno la sensazione di una sostanziale ignoranza sull’istituto sinodale e le sue dinamiche.

La questione era già emersa in rapporto alla Relazione di sintesi pubblicata a conclusione della prima sessione dell’Assemblea: molti lamentavano la mancanza di decisioni da parte dell’Assemblea; come se quell’Assemblea potesse prendere una qualche decisione in autonomia e non fosse un passaggio del processo sinodale.

Il Sinodo dei vescovi, istituito da Paolo VI con il motu proprio Apostolica sollicitudo del 15 settembre 1965, era un organismo consultivo in aiuto del primato: il consenso dei vescovi convocati doveva aiutare il papa nelle decisioni circa i problemi più gravi e urgenti della Chiesa.

Il passaggio da evento a processo, voluto da Francesco con la costituzione apostolica Episcopalis communio del 15 settembre 2018, ha aperto alla partecipazione di tutta la Chiesa e non solo di alcuni vescovi alla dinamica sinodale, ma non ha trasformato il Sinodo in un parlamento che emana leggi o produce decisioni. Il Sinodo è il “luogo”, lo “spazio” istituzionale del discernimento ecclesiale, con le sue tre fasi di un’Assemblea:

  1. quella nelle Chiese locali e nei raggruppamenti di Chiese, attraverso la consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese e il successivo discernimento da parte delle Conferenze episcopali e delle Assemblee continentali;
  2. quella nell’Assemblea dei vescovi riunita intorno al papa;
  3. quella di restituzione dei risultati alla Chiesa tutta, chiamata ad avviare un processo di recezione.

Si tratta di un processo unitario, dove la stretta concatenazione delle fasi è finalizzata a far emergere il livello del consenso intorno alla questione fondamentale della sinodalità, e del ripensamento della comunione, partecipazione e missione in prospettiva sinodale. Più diventa maturo il consenso, più saranno non solo possibili, ma giustificate le possibili scelte di riforma del sistema. Scelte che però – è bene sottolinearlo – non spettano al Sinodo, ma al papa.

Anche le due sessioni in cui si articola la seconda fase di questa Assemblea sono “luoghi” di discernimento. Al Sinodo spetta indicare la via che emerge dall’ascolto dello Spirito attraverso le tappe del processo sinodale. Lamentare una mancanza di decisione da parte del Sinodo è pretendere dal Sinodo quello che il Sinodo non è e quello che al Sinodo non compete.

Una Chiesa dallo Spirito
  • Il testo prevede il passaggio dalla domanda “Chiesa sinodale: cosa dici di te stessa?” alla successiva “Come essere Chiesa sinodale in missione?”. Dalla sinodalità “percepita” alla sinodalità “in esercizio”. È così?

Sì e no. La sinodalità in esercizio non dipende dalla sinodalità percepita, ma dalla sinodalità effettiva. Dipende, in altre parole, dal fatto che la Chiesa è “costitutivamente sinodale”. Maturare il consenso intorno a questa semplice verità è più importante di tante decisioni isolate, che molti invocano su questa o quella materia.

Il tema della XVI Assemblea generale ordinaria è la sinodalità: molti sembrano averlo scordato. Se la Chiesa è costitutivamente sinodale, si impone la necessità di ripensare in chiave sinodale ogni aspetto della sua vita. Per questo sostengo che il fatto più importante di questo Sinodo non è questa o quella singola decisione, questa o quella riforma, ma la comprensione della Chiesa che sta al loro fondamento.

La sinodalità, infatti, non rimanda unicamente a una pratica di discernimento, ma a uno stile e a una forma di Chiesa, in evidente continuità con il concilio Vaticano II. In effetti, la sinodalità è la forma della comunione nella Chiesa-Popolo di Dio.

L’IL lo spiega nella prima parte del testo, quella sui Fondamenti. Lamentare che questa parte non dice nulla di nuovo sulla sinodalità è veramente singolare. Il senso di questa parte è di raccogliere quanto è emerso sul tema e costituisce la base sicura – i Fondamenti, appunto – per affrontare la domanda di fondo – “Come essere Chiesa sinodale in missione?” – e chiarire le questioni relative alle Relazioni, ai Percorsi, ai Luoghi, sulle quali l’Assemblea è chiamata a confrontarsi.

I Fondamenti sono la dichiarazione espressa che la Chiesa è costitutivamente sinodale. Lo dice bene la premessa:

«Questa sezione dell’IL cerca di delineare i fondamenti della visione di una Chiesa sinodale missionaria, invitandoci ad approfondire la comprensione del mistero della Chiesa. Lo fa senza pretendere di offrire un trattato completo di ecclesiologia, ma ponendosi a servizio del percorso di discernimento dell’Assemblea sinodale di ottobre 2024».

La sezione dei Fondamenti non proviene dalla comprensione originale di questo o quel teologo, e di questo o quel pastore, nemmeno dal papa, ma dal consenso della Chiesa maturato attraverso le fasi del processo sinodale. Su questi Fondamenti si è registrata la convergenza del Popolo di Dio, soggetto della funzione profetica nella Chiesa, e dei Pastori, che hanno esercitato la loro funzione di discernimento.

Non si tratta di sinodalità percepita (a meno che questo aggettivo non rimandi alla perceptio di Dei Verbum 8, quando, spiegando il progresso della Tradizione sotto l’assistenza dello Spirito Santo, sostiene che «cresce la perceptio delle cose e delle parole trasmesse»), ma di sinodalità affermata sul piano teologico come dimensione costitutiva della Chiesa. Su questo presupposto si fonda un esercizio condiviso del metodo sinodale, che va maturando attraverso l’esperienza sinodale in atto.

  • Nel contesto ecclesiologico del documento sembra emergere più la dimensione trinitaria e dello Spirito che quella cristologica. È così?

Certamente. E anche questo è un aspetto in evidente continuità con il Vaticano II. Sappiamo tutti del deficit pneumatologico della teologia latina del II millennio, che sta alla base di una comprensione gerarcologica della Chiesa. Il recupero dello Spirito Santo operato nel capitolo I di Lumen gentium determina l’emergere della Ecclesia de Trinitate.

Molto si è insistito sulla dimensione trinitaria della Chiesa, ripetendo – spesso più per retorica che per affettiva comprensione – la formula di Cipriano: la Chiesa è de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata. Ma se si accetta questo orizzonte trinitario, bisogna accettare pure che lo Spirito è presente e agisce nella Chiesa. E poiché «lo Spirito guida alla verità tutta intera, la unifica nella comunione e nel servizio, la edifica e la dirige mediante i diversi doni gerarchici e carismatici, e la arricchisce dei suoi frutti» (LG 4), il primo atto della Chiesa non può che essere quello dell’ascolto dello Spirito. Ascolto che si traduce nell’ascolto di quanti hanno ricevuto lo Spirito.

Si capisce in questa linea l’affermazione del papa nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo (17 ottobre 2015):

«Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto… Un ascolto reciproco, in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14,17), per conoscere ciò che “egli dice alle Chiese” (Ap 2,7)».

Tutto il processo sinodale, con la consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese particolari e le successive tappe di discernimento, si fonda su questo principio di ascolto dello Spirito nel Popolo di Dio, soggetto del sensus fidei, e dei Pastori nella loro funzione di discernimento. Anche qui siamo in linea con l’ecclesiologia conciliare (cf. LG 12). Tutto questo non fa che tradurre l’ecclesiologia conciliare, che l’IL legge attraverso una chiave di lettura originale.

Chi cerca una novità nel documento della Segreteria del Sinodo non potrà non riconoscerla nella scelta di aprire la riflessione sui Fondamenti con il riferimento alla «Chiesa Popolo di Dio, sacramento di unità».

Chi ha memoria di un’ecclesiologia di comunione che tutto faceva dipendere dalla Communio hierarchica, in nome della quale si era imposta una centralizzazione della Chiesa che aveva ridotto le Chiese locali a circoscrizioni amministrative della Chiesa universale e aveva cancellato totalmente l’ecclesiologia del Popolo di Dio, dovrebbe rendersi conto della portata enorme della scelta. Non solo perché recupera la categoria di Popolo di Dio, ma perché coniuga le affermazioni fondamentali dei capitoli I e II di Lumen gentium, predicando del Popolo di Dio tutto ciò che il capitolo I dice sulla Chiesa-mistero. In gioco è veramente la recezione dell’ecclesiologia conciliare e della sua “rivoluzione copernicana”.

Discernimento e gerarchia
  • C’è una forte insistenza sul processo di discernimento (premesse, condizioni, elementi spirituali, conversazione nello Spirito ecc.), meno spazio per possibili decisioni (cf. no al diaconato femminile n. 17, il semplice auspicio per superare la rigidità consultivo-deliberativo n. 70, il ruolo dottrinale delle Conferenze episcopali a data da destinarsi n. 91). Eppure si dice che, senza decisioni concrete, l’intero percorso non sarà credibile (n. 71). Bisognerà scegliere.

No. Non bisognerà scegliere, perché non esiste contrasto tra i due aspetti; piuttosto, uno implica l’altro. Mi spiego: se il processo sinodale è un processo di discernimento ecclesiale, e tale processo conclude a un consenso ecclesiale che è manifestazione dello Spirito e della sua azione nella Chiesa, non decidere in tal senso significa resistere allo Spirito. Ecco perché l’IL insiste tanto sulle condizioni del discernimento.

Per capirne l’importanza, basta rammentare il caso dei dogmi mariani: per Pio IX e Pio XII la singularis conspiratio dei fedeli e dei pastori è stata argomento sufficiente per definire rispettivamente l’Immacolata e l’Assunzione di Maria al cielo.

Allo stesso modo, il consenso emerso dal processo sinodale è argomento sufficiente per assumere una decisione: se la consultazione del Popolo di Dio vale come prova per un dogma di fede – era l’argomentazione di Newman –, vale a maggior ragione per un processo decisionale fondato sul discernimento ecclesiale. Disattendere questo discernimento, significa disattendere lo Spirito che parla alla Chiesa.

In una Chiesa gerarchica, la capacità decisionale era attribuita anzitutto a chi si supponeva costituito da Cristo stesso in autorità; in una prospettiva pneumatologica quelle autorità non vengono meno, ma sono forme di servizio all’interno di una Chiesa che partecipa tutta al discernimento, in quanto tutti hanno ricevuto lo Spirito. Il criterio più sicuro per una qualsiasi decisione nella Chiesa è il discernimento ecclesiale: «Non spegnete lo Spirito; non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5,19-21).

In questa prospettiva si capisce l’istituzione delle commissioni per studiare i dieci temi che non saranno argomento di discussione alla prossima Assemblea del Sinodo. Questa decisione del papa non è uno scippo al Sinodo, che, in merito a quei temi, ha già espresso il suo consenso pieno; al contrario, esprime un’autorevolezza e una forza del consenso maturato dall’Assemblea tali da aprire un processo concreto di ripensamento di quelle materie in una logica sinodale.

Ma bisogna riconoscere – come dimostra la discussione sulla natura meramente consultiva del Sinodo – che siamo solo ai primi passi nel ricomprendere i processi decisionali nella Chiesa nella modalità di una partecipazione differenziata.

  • La sinodalità è il frutto maturo della collegialità (Vaticano II) e del servizio primaziale (Vaticano I)?

Direi, più in generale, che la sinodalità è un frutto maturo del Vaticano II, una recezione più compiuta dell’ecclesiologia conciliare. Questo implica, naturalmente, la comprensione del rapporto tra primato, collegialità e sinodalità. Non è senza significato che le tre dottrine siano emerse in sequenza temporale: il primato al Vaticano I, la collegialità al Vaticano II, la sinodalità ora, dopo un processo travagliato di recezione dell’ecclesiologia conciliare che non può dirsi ancora concluso.

Era necessario risolvere la questione del primato prima della collegialità, e del rapporto tra primato e collegialità, prima che potesse riemergere il tema della sinodalità. Questo perché la Chiesa, dalla Riforma gregoriana in poi, si era costituita in una struttura piramidale, abbandonando la forma della communio Ecclesiarum del I millennio, che stava al fondamento della prassi sinodale antica. La scelta è stata allora necessaria per superare il sistema delle investiture laiche, che stava soffocando la Chiesa, riducendola a un ingranaggio del sistema politico del Sacro Romano Impero.

Ma la concentrazione di ogni potere nel papa e la conseguente identificazione della Chiesa con il suo capo visibile ha determinato che, anzitutto, bisognasse chiarire la dottrina del primato: lo ha fatto il Vaticano I, che ha lasciato in ombra il ministero episcopale; il Vaticano II ha riequilibrato le affermazioni, affermando la collegialità dopo un dibattito tesissimo in aula.

Se la nota explicativa praevia è la spia della fatica a comporre le due dottrine, le vicende della Chiesa dopo il concilio dimostrano la difficoltà a tradurre in atto la collegialità. Ad oggi non si può indicare con certezza un solo atto che si possa attribuire al collegio dei vescovi quale «soggetto di piena e suprema autorità su tutta la Chiesa» (LG 22): chi sostiene il contrario confonde collegialità effettiva e affettiva.

Tutto questo dimostra che, isolati dal Popolo di Dio, primato e collegialità finiscono per risultare due istanze in tensione tra loro. Solo recuperando la loro dimensione di servizio al Popolo di Dio, trovano senso e capacità di esercizio. Il che significa che non è la sinodalità a dipendere dal primato e dalla collegialità; piuttosto, sono questi a dipendere dalla sinodalità.

Ma sta qui il senso profondo della svolta ecclesiologica del Vaticano II, quando ha introdotto un capitolo sul Popolo di Dio che precedesse quello sulla gerarchia, affermando la radicale uguaglianza di tutti nella Chiesa prima di qualsiasi differenza di funzione o di stato di vita.

Il concilio, se si vuole essere precisi, non parla di sinodalità: non rientrava nel suo campo di interesse, concentrato com’era a risolvere la questione del rapporto tra primato e collegialità. Ma tutti gli elementi della sinodalità sono impliciti nel capitolo di Lumen gentium sul Popolo di Dio. Uno su tutti, il rapporto necessario tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, «ordinati l’uno all’altro, perché l’uno e l’altro partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo» (LG 10): questa correlazione recupera la capacità attiva del Popolo di Dio, chiamato ad esercitare la sua funzione profetica, sacerdotale e regale, ma rende di conseguenza ogni funzione ministeriale un servizio al Popolo di Dio.

Chiarito questo, si comprende come la sinodalità sia la condizione di esercizio del primato e della collegialità, non viceversa: come la condizione di uguaglianza nella Chiesa precede qualsiasi differenza di carismi, ministeri, funzioni, stati di vita, così la sinodalità, come dimensione costitutiva della Chiesa-Popolo di Dio, precede la funzione primaziale e quella collegiale dell’episcopato.

Dal recupero della sinodalità potranno ricevere nuova luce e nuovo impulso tanto il primato che la collegialità. Anche per questo è urgente sviluppare compiutamente la parte che spetta al Popolo di Dio nella vita ecclesiale, soprattutto sul versante della funzione regale, che implica la partecipazione attiva ai processi decisionali. Partecipazione che non consiste nel riconoscere il ruolo dei laici nella Chiesa (faccenda che finisce sempre per risolversi in una collaborazione subordinata al ministero ordinato), ma nell’affermare il primato del Popolo di Dio come soggetto, e perciò delle sue funzioni come prime (in ordine di tempo) e necessarie (in ordine alla verità dei processi ecclesiali) per la vita della Chiesa.

Dire Popolo di Dio come soggetto significa dire tutti: «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici», diceva sant’Agostino, citato in LG 12; noi dovremmo dire: dal papa fino all’ultimo fedele laico. Dire funzione del Popolo di Dio significa riferirsi a quelle che implicano questi “tutti”, cioè la Chiesa come Popolo di Dio: il sensus fidei, anzitutto, mediante il quale «la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dal Santo (cf. 1Gv 2,20.27) non può sbagliarsi nel credere» (LG 12). Qui si fonda l’affermazione della «Chiesa sinodale come Chiesa dell’ascolto» (Papa Francesco, Discorso nel 50° dell’istituzione del Sinodo, 17 ottobre 2015). Da questo ascolto del Popolo di Dio – che è ascolto dello Spirito – dovrebbe dipendere ogni discernimento ecclesiale e ogni processo decisionale nella Chiesa.

  • L’insistita conferma della struttura gerarchica (nn. 3, 35, 37, 38 ecc.) sembra prevalere sulla sua declinazione sinodale. E solo una questione di avvio verso un territorio ancora ignoto?

La dimensione sinodale della Chiesa non è alternativa a quella gerarchica. Se così fosse, varrebbe il detto evangelico della casa destinata a cadere perché divisa in sé stessa (Mc 3,25).

Il capitolo III di Lumen gentium parla di costituzione gerarchica della Chiesa. Sacrosanctum concilium descriveva la Chiesa come «sacramento di unità, vale a dire Popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi» (SC 26).

Esiste una linea interpretativa della sinodalità che intende il Popolo di Dio come contrapposto alla gerarchia. Ma questo è un vicolo cieco, che rischia di bloccare di nuovo il cammino della Chiesa, come è avvenuto per tre decenni, quando si è introdotta un’ecclesiologia di comunione per troncare le discussioni senza fine su una Chiesa “dal basso” contrapposta a una Chiesa “dall’alto”, una Chiesa di popolo a una Chiesa gerarchica.

L’IL, insieme all’affermazione che la Chiesa è il Popolo di Dio, del quale si predicano tutte le dimensioni costitutive (sinodale, gerarchica, comunionale, missionaria, sacramentale, carismatica, escatologica ecc.), sottolinea la circolarità tra communio Fidelium, communio Ecclesiarum, communio Episcoporum. La Chiesa come «corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica» (LG 23), poggia sul fatto che «il Vescovo sia principio e fondamento visibile di unità nella sua Chiesa particolare».

Christus Dominus 11 (ripreso alla lettera dal Codice al can. 369) dice che «la diocesi è quella portio Populi Dei affidata al vescovo coadiuvato dal suo presbiterio». Questa prospettiva della Chiesa come comunione di Chiese permette di pensare il Popolo di Dio non come una massa informe e anonima, incapace di assumere una qualsiasi funzione attiva, ma come un Popolo in un luogo, che vive la fede in un determinato contesto socio-culturale.

Tutta la parte III sui Luoghi dice questo aspetto decisivo, che fa del Popolo di Dio il soggetto reale della testimonianza evangelica. La Chiesa è una «comunità organicamente strutturata» (LG 11); è una Chiesa di relazioni, dove l’unità è armonia delle differenze (cf. IL 10-12).

«La sinodalità non comporta in alcun modo la svalutazione della particolare autorità e lo specifico compito che Cristo stesso affida ai pastori… Piuttosto, offre “la cornice interpretativa per comprendere lo stesso ministero gerarchico”» (IL 8). Si tratta adesso di riscrivere queste relazioni in una logica sinodale. Un esercizio del ministero petrino in senso sinodale è tutto da riscrivere; come è da riscrivere il ministero episcopale (pensiamo alla normativa relativa alle nomine, che non prevede alcuna parte del Popolo di Dio e del presbiterio; o a quella relativa alla fine mandato, consegnata oggi soltanto a un meccanismo burocratico).

Ma tutta la ministerialità ecclesiale è da ripensare, e non in termini di rivendicazione. La ministerialità ecclesiale non si risolve nel ministero ordinato e la discussione non può ridursi a questo stretto ambito: il rischio sarebbe di trasformare la questione in una discussione sulle condizioni di accesso al sacramento dell’Ordine (in ultima analisi, sulle condizioni di accesso al potere), spostando più a valle il problema del clericalismo.

Bisogna avere il coraggio di ripensare la ministerialità a partire dalla Chiesa, non dal ministero ordinato, e di collocare questo dentro l’orizzonte più vasto della ministerialità ecclesiale, perché il ministero ordinato non si appropri – come è avvenuto in passato – di ogni capacità attiva.

Approfondire singoli elementi è importante e la riflessione sulla natura del diaconato indica un fronte aperto a possibili sviluppi. Ma è la Chiesa ad essere ministeriale. E se la Chiesa è una comunione di Chiese, ogni Chiesa dovrebbe aprirsi a questa sfida di pensare una ministerialità a misura di quella specifica portio Populi Dei.

Sinodalità e trasparenza
  • L’enorme sforzo di riflessione e confronto, che ha coinvolto Chiese locali, Conferenze episcopali, Conferenze continentali, ma anche religiosi, dicasteri, parroci e oltre 200 istituzioni, corre ancora il rischio di risultare infecondo, di non impedire il ritorno all’indietro? Le molte assenze (n. 12) preludono a possibili separazioni?

Difficile dire se l’esperienza sinodale vissuta fino a questo punto impedirà un ritorno indietro. Credo siano molti quelli che desiderano e lavorano per un ripristino dello status quo; molti quelli che giudicano la sinodalità una moda del momento, che passerà con il passare di questo pontificato. Il malcontento mi sembra alimentato ad arte, ingigantendo ogni più piccolo elemento di dissonanza per gettare il discredito sul processo sinodale.

L’opposizione a questo papa in realtà nasconde l’opposizione non dichiarata e mai superata di alcuni ambienti all’ecclesiologia del Vaticano II. In gioco c’è l’eredità del concilio, che sarebbe ormai un patrimonio condiviso se alle frange che lo contestano rispondesse una Chiesa che il Vaticano II lo conosce, perché lo ha studiato, lo ha assimilato, lo vive. Esiste un’ignoranza del concilio pari alla supponenza di conoscerlo!

«L’enorme sforzo di riflessione e di confronto» che ha inteso coinvolgere tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa non è un sofisticato sistema di partecipazione parlamentare, ma la logica applicazione dei principi ecclesiologici affermati dal concilio: se la Chiesa è Popolo di Dio in cammino verso il Regno, la condizione di questo Popolo sarà di «camminare insieme» verso la pienezza della comunione.

E se questo Popolo è guidato nel suo cammino storico dallo Spirito di Cristo (o, correlativamente, se Cristo guida la sua Chiesa anzitutto donando lo Spirito), bisognerà porsi in ascolto dello Spirito per sapere dove e come affrontare il cammino; e se lo Spirito è dato al Popolo di Dio che è infallibile in credendo, e ai Pastori, bisognerà che tutti si pongano in ascolto gli uni degli altri per ascoltare lo Spirito che parla alla Chiesa.

Non sto a ripetere la descrizione fatta dal papa della Chiesa sinodale come Chiesa dell’ascolto. Faccio solo notare che il processo sinodale nelle sue varie fasi ha realmente riconosciuto la funzione del Popolo di Dio, soggetto del sensus fidei, e dei Pastori, sia personalmente nelle loro Chiese sia insieme nei raggruppamenti di Chiese.

In una Chiesa sinodale non solo non si dà contrasto o tensione tra il Popolo di Dio e i suoi Pastori, ma l’esercizio del ministero pastorale guadagna dall’esercizio della funzione profetica del Popolo di Dio. Mai i Pastori hanno svolto un ruolo così rilevante di discernimento ecclesiale come in questo processo sinodale, fondato sulla circolarità tra la funzione profetica del Popolo di Dio, chiamato a consultazione nelle Chiese particolari, e la funzione di discernimento pastorale dei Vescovi nelle Conferenze Episcopali e nelle Assemblee continentali. Chi deprezza tutto questo, in realtà deprezza la partecipazione, o perché non ci crede o perché la teme.

Questo Sinodo può mostrare come la Chiesa sia davvero in grado di rinnovarsi attraverso l’assunzione di un principio di corresponsabilità differenziata. Ma bisogna volerlo. E sono in molti a non volerlo. Salvo poi dire che il sistema non funziona, perché non tutti hanno partecipato. Ma c’è da chiedersi se quanti non hanno partecipato al processo sinodale, lo abbiano fatto per scelta propria, o piuttosto perché coloro che dovevano avviare e sostenere tale processo nella sua prima fase – troppi vescovi e troppi preti –, non si sono nemmeno degnati di informare il Popolo santo di Dio, giudicando inutile un Sinodo che veniva a disturbarli nell’esercizio di un ministero ormai ridotto, nella gran parte dei casi, alla custodia delle macerie.

Più che pensare a separazioni, io penserei a come rendere effettiva la partecipazione di tutti. Il processo sinodale è il “luogo” istituzionale in cui sinodalità, collegialità e primato possono essere esercitati in sinergia, ciascuno secondo la propria funzione.

  • Gli abusi e gli scandali finanziari suggeriscono il trinomio (trasparenza, rendiconto, valutazione). Gli episcopati, come quello tedesco, potranno giovarsi di tutto ciò?

Perché solo l’episcopato tedesco dovrebbe giovarsi di tutto ciò? E perché solo gli episcopati? Tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa sono chiamati ad assumere questi criteri. Giova a tutti una Chiesa che viva alla luce del sole, e che adotti la trasparenza, la rendicontazione e la valutazione come criteri che regolano la sua vita, a tutti i livelli.

Rendere conto della propria amministrazione è principio evangelico. E tutti sono chiamati ad assumere responsabilmente questo modello di trasparenza.

Senza questi criteri, tutto il parlare sugli abusi, sugli scandali e sul clericalismo come male della Chiesa si ridurrebbe a un puro esercizio di retorica o a un discorso obbligato dagli eventi, che dice (secondo la formula “gattopardesca”) di voler cambiare tutto senza voler cambiare niente. Il rinnovamento e la riforma della Chiesa sono possibili unicamente a condizione della trasparenza: davanti a Dio e agli uomini.

Ecumenismo e teologia
  • La sinodalità renderà più “digeribile” l’esigenza di un primato condiviso nelle Chiese cristiane (n. 107)?

Se c’è una via per la quale è possibile pervenire a un esercizio del ministero petrino in chiave ecumenica, questa è la via sinodale. Il documento sul primato recentemente pubblicato dal Dicastero per l’unità dei Cristiani lo afferma esplicitamente.

D’altra parte, il processo sinodale in atto ha mostrato una modalità di esercizio del primato del tutto inusitata: è stato il papa, in effetti, a chiamare tutta la Chiesa all’azione sinodale, senza prevaricare i diritti dei singoli vescovi nelle loro Chiese. Lo ha fatto in quanto «visibile principio e fondamento di unità [non solo] dei Vescovi e della moltitudine dei fedeli» (come recitava il Vaticano I, e ha ribadito il Vaticano II: cf. LG 18), ma come principio di unità di tutte le Chiese.

È la conseguenza dell’affermazione conciliare sulla Chiesa come «corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica» (LG 23). Lo dice LG 13, spiegando la cattolicità del Popolo di Dio: la Chiesa è una comunione di Chiese, senza che questo comprometta «il primato della cattedra di Pietro, che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva» (LG 13).

Un esercizio del primato ripensato non sul versante della giurisdizione, ma del servizio alla communio – Fidelium, Ecclesiarum, Episcoporum – si potrebbe allargare, con un’accorta disciplina canonica, a tutte le tradizioni cristiane, unite dall’unico battesimo «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (IL 1).

D’altra parte, senza questo servizio all’unità, le Chiese sono consegnate a un principio di unanimità dell’episcopato, come nella tradizione ortodossa, o a complessi sistemi di rappresentanza del Popolo di Dio, come in alcune Chiese evangeliche. Piuttosto, l’esigenza di un principio visibile di unità è ormai riconosciuto da tutte le tradizioni cristiane. Partire dal battesimo come spazio di reciproco riconoscimento sarebbe già un avvio convincente dell’esercizio di un ministero petrino al servizio dell’unità delle Chiese.

  • Dopo la prima sessione, i teologi hanno espresso un certo malcontento. Il testo vi pone rimedio?

La questione dei teologi e della teologia nel processo sinodale è delicata. La loro funzione va precisandosi con il maturare dell’esperienza sinodale. È vero che al termine della prima sessione qualche teologo ha lamentato uno scarso ascolto della voce dei teologi nei lavori dell’Assemblea. Ma bisogna ricordare che quello dei teologi è un compito di supporto all’Assemblea.

Come coordinatore degli esperti teologi nella prima sessione, ho personalmente chiesto che il nostro fosse un lavoro di squadra. Attraverso un lavoro di équipe reso possibile dalla costituzione di gruppi linguistici, abbiamo potuto offrire un resoconto circostanziato dei temi più rilevanti che emergevano dall’Assemblea e che sono confluiti nella Relazione di sintesi.

Senza questo lavoro di lettura delle relazioni dei gruppi di studio e di ascolto degli interventi nelle congregazioni generali, non sarebbe stato possibile cogliere il consenso che stava maturando nell’aula. La Relazione di sintesi ha potuto indicare le convergenze, ma anche le questioni da approfondire sulla base del lavoro degli esperti.

Certo, si tratta di un lavoro umile, nascosto, che mette conoscenze e competenze a servizio dell’Assemblea: si tratta di un abito che a qualcuno può stare stretto. Ma la stessa Assemblea ha riconosciuto il valore di questo servizio, perché ha chiesto, alla fine della prima sessione, un maggior coinvolgimento dei teologi e un maggior peso della teologia nei lavori della seconda sessione.

L’IL è la cartina al tornasole di questo servizio fondato sulla competenza teologica. Un gruppo di esperti da tutto il mondo (i nomi sono stati pubblicati) ha lavorato sinodalmente, leggendo e confrontandosi sui contributi provenienti dalle Chiese particolari, dalle Conferenze Episcopali, dal Convegno dei parroci e dalle Commissioni teologiche costituite per approfondire alcuni temi. Il testo è il risultato di una mediazione nata anzitutto dall’ascolto di questo gruppo di esperti.

La sfida è quella di non separare esperienza sinodale e teologia della sinodalità, che invece si illuminano e si sostengono a vicenda. Dall’esperienza in corso, la teologia può maturare una visione condivisa della sinodalità, componendo le tante prospettive che non di rado risultano in tensione tra loro; dalla teologia la prassi sinodale potrà trarre le motivazioni a sostegno di un cammino di Chiesa, che ha bisogno di ragioni convincenti per tradursi in forma e stile di Chiesa.

Da questa circolarità di esperienza e di teologia i lavori della prossima sessione dell’Assemblea non potranno che trarre grande vantaggio.

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5 Commenti

  1. Giuseppe Risi 30 agosto 2024
  2. Marco 30 agosto 2024
  3. Giuseppe 29 agosto 2024
  4. Tracanna Anna Rita 29 agosto 2024
  5. Fabio Cittadini 29 agosto 2024

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