Con il prossimo Sinodo, indetto il 15 settembre 2018, e con la costituzione apostolica Episcopalis communio è stato individuato il tema della sinodalità come indicazione del vivere l’azione pastorale nella Chiesa. La sinodalità «manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla missione evangelizzatrice».
Nonostante i richiami forti ed evidenti contro ogni forma di clericalismo di papa Bergoglio, è rimasto intatto lo schema gerarchico nella vita della Chiesa. Sono stati già pubblicati i primi contributi di alcune conferenze episcopale europee (Francia e Spagna). L’attenzione è posta sull’ascolto, ma soprattutto sulla richiesta di partecipazione da parte di tutte le componenti della Chiesa.
L’attenzione va posta sulle basi dottrinali e canoniche che reggono la potestas gerarchica per realizzare un’autentica sinodalità.
La storia indica i passaggi che hanno caratterizzato la discussione sulla gestione della vita ecclesiale. Si sono intrecciati quattro grandi temi: il ministero dei vescovi nel territorio a loro assegnato, l’autorità del Sinodo dei vescovi in rapporto alla potestà primaziale del romano pontefice, la funzione dei presbiteri, il sacerdozio dei fedeli. Il concilio Vaticano II ha affrontato tutti e quattro i nodi, dando indicazioni dottrinali.
Lo schema è lineare anche se alcune indicazioni sono state, nel tempo, dirette a un’interpretazione “teologica e canonica” che ha lasciato nodi irrisolti a proposito di sinodalità. Non affronteremo in questa sede le relazioni tra il Sinodo dei vescovi e il primato del pontefice.
La potestas vescovile
La potestas vescovile è stata definita come «ordinaria, propria e immediata» (can. 381): «fatta eccezione per quelle cause che, dal diritto o da un decreto del Sommo Pontefice, sono riservate alla suprema oppure ad altra autorità ecclesiastica».
Il vescovo, con l’ordinazione episcopale e la missione canonica ha il potere di santificare, insegnare e governare la porzione di popolo a lui assegnato. Nel governo delle diocesi sono richieste alcune collaborazioni e alcune forme assembleari, nessuna delle quali, eccetto quelle dichiarate per il Collegio dei consultori per questioni economiche, esigono il consenso previo.
Alcune forme di partecipazione possono essere espresse dal Sinodo diocesano e dal Consiglio pastorale diocesano. Il Sinodo diocesano però non ha obblighi temporali, né di contenuti: è il vescovo che determina gli statuti, i temi da affrontare, l’indizione, i partecipanti e le conclusioni. Il Consiglio pastorale non è nemmeno obbligatorio!
Gli organismi della curia appaiono partecipativi più per il loro numero che per le loro funzione. Senza annoiare sul loro numero, appaiono come un insieme di Uffici, alcuni obbligatori, altri possibili per riempire le caselle dell’organico prestabilito, sempre su indicazione del vescovo.
Il limite evidente è che gli orientamenti personali del vescovo influiscono e determinano i risultati della gestione della pastorale. La scelta di partecipazione è indirizzata al cerchio che, necessariamente, si instaura intorno al nuovo presule.
In compenso i richiami al servizio, all’umiltà, alla santità strabordano per ogni funzione e missione: si invocano passi scritturistici, padri apostolici, Concili; i risultati purtroppo deludono e scoraggiano perché la fede problematica dei battezzati non è in grado di recepire prima che accettare schemi di gestione gerarchica così forti ed esclusivi. Nemmeno teologicamente sono sempre congrue le sintesi indicate.
È dunque lecita la domanda se la potestas gerarchica, possa diventare una forma di potere ad personam.
Evoluzione della dottrina e della canonistica
L’elaborazione della dottrina sull’autorità ecclesiastica ha lasciato tracce di una discussione lunga per secoli. I testi biblici e i padri apostolici della Chiesa antica parlano – come è noto –di anziani (presbiteri) chiamati alla guida delle comunità, indicando uno di loro, chiamato vescovo, a garantire, insieme ai presbiteri e ai diaconi, la guida e l’unità stessa della comunità, contro deviazioni e abusi. La specificità della loro autorità in termini sacramentali è ricondotta al presiedere l’eucaristia e al rimettere i peccati.
Il riferimento d’autorità è ricondotto agli Apostoli e ai loro successori perché l’annuncio del regno di Dio continui nel tempo.
Ben presto si accende la discussione se l’episcopato, conferito dapprima con l’infusione della benedizione e più tardi con l’unzione, sia un sacramento differente rispetto al presbiterato.
La corrente che fa capo a s. Girolamo sostiene la tesi che l’episcopato sia una funzione e non uno stato di grazia diverso dal presbiterato. Tale corrente raggiungerà il massimo dell’elaborazione con san Tommaso che conferma trattarsi di una funzione e non di una differenza “ontologica” tra presbiterato ed episcopato.
La corrente che insiste nella differenziazione fa riferimento ai riti liturgici i quali dimostrano che la consacrazione con l’olio santo conferisce all’episcopato “un grado diverso” dal presbiterato.
La discussione si accende in occasione del Concilio di Trento che non dirime la questione perché si limita a dichiarare che l’episcopato, il presbiterato e il diaconato sono di “istituzione divina”. Nemmeno il concilio Vaticano I si pronuncia sulla sacramentalità dell’episcopato.
È il concilio Vaticano II che si esprime con chiarezza dichiarando, nella costituzione Lumen gentium (n. 21): «Il santo Concilio insegna quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero. La consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e dall’uso della Chiesa sia d’Oriente che d’Occidente, consta chiaramente che dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il sacro carattere in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell’ordine nuovi eletti nel corpo episcopale».
Questa dichiarazione ha impresso una svolta nello schema gerarchico della Chiesa che sembra essere così diventato irreversibile.
I documenti postconciliari offrono la spiegazione di tale impostazione. Nell’esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988) Giovanni Polo II al n. 22 scrive: «I ministri ricevono il carisma dello Spirito Santo dal Cristo Risorto mediante il sacramento dell’Ordine: ricevono così l’autorità e il potere sacro di agire «in persona Christi Capitis» (nella persona di Cristo Capo) per servire la Chiesa e per radunarla nello Spirito Santo per mezzo del Vangelo e dei sacramenti». L’espressione Cristo Capo è tratta dal decreto Presbyterorum ordinis, ma non è presente nella costituzione Lumen gentium.
Nello sforzo di definire l’autorità proveniente dalla dottrina, sono stati tralasciati elementi che contribuivano alla consacrazione episcopale. Erano i fedeli cristiani che sceglievano tra i presbiteri chi dovesse presiedere la comunità; inoltre, condizione indispensabile dell’essere consacrato vescovo era che il presbitero fosse fedele (rispettoso della fede) buono (pieno di amore per Dio e i fratelli), maestro (capace di annunciare la parola di Dio).[1]
Con l’espandersi della religione cattolica dopo Costantino, le comunità cristiane furono affidate a presbiteri su indicazione del vescovo, con l’autorità di presiedere l’eucaristia e di rimettere i peccati, ministeri legati al sacramento dell’ordine e mai concessi ai diaconi. I corepiscopi (vescovi della campagna) sottoposti al vescovo diocesano scomparvero rapidamente.
La discussione a metà del XII secolo si accentrò sulla potestas gerarchica, il Decreto di Graziano (1140-1142), orienta la dottrina a distinguere il potere di ordine (santificare e insegnare) dal potere di governare con potestà legislativa, esecutiva e giudiziale. Il primo conferito dal sacramento dell’ordine, il secondo dalla missione canonica.
Con l’accentuarsi della centralità della curia romana, i vescovi iniziarono ad essere eletti dal romano pontefice, con l’assegnazione di porzioni di popolo di Dio (diocesi).
Di fatto, i presbiteri componenti del senato dei vescovi diventarono collaboratori del vescovo, la voce dei fedeli per l’elezione del proprio vescovo scomparve definitivamente.
L’accentramento della potestas gerarchica è stato compensato – come detto – da forma di collaborazioni che sono esclusivamente di consiglio e non di consenso.
Esprimere la sinodalità con i consigli e non con il consenso è qualcosa, ma lascia la potestà gerarchica del vescovo assoluta e sottoposta solo al vaglio del romano pontefice.
È stata posta la questione se il sacramento dell’ordine conferisca anche, in qualche modo la potestà di giurisdizione.
Il canone 129 del nuovo Codice di diritto canonico dichiara: «§1: Sono abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che sono insigniti dell’ordine sacro, a norma delle disposizioni del diritto; § 2 Nell’esercizio della medesima potestà, i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto».
È stata fatta notare da un illustre canonista[2] «l’assenza di una qualsiasi preoccupazione di dare ad una materia, così centrale per l’ecclesiologia e l’ordinamento canonico, un minimo di orientamento teologico con l’introduzione massiccia di una terminologia giuridica di sapore civilistico. Se lo scopo era quello di sottolineare, con più chiarezza rispetto al CIC del 1917 i diversi settori e i diversi criteri dell’esercizio del potere nella Chiesa, il risultato è stato in definitiva quello di far credere al lettore, e magari non solo a quello più sprovveduto dal profilo canonistico, come potrebbe essere un fedele qualsiasi, il quale però è il soggetto che ultimamente più conta nella Chiesa, che, invece di funzioni diverse della stessa “potestas sacra”, si tratti, come nello Stato, di veri e propri poteri separati. In nome di un’efficienza tecnica e giuridica, ispirata a un criterio di modernità, il Codice ha purtroppo marcato nel settore ecclesiologicamente così vitale della potestas una deplorevole regressione teologica».
Lo stesso schema gerarchico di ripete per il presbitero nominato parroco. Le funzioni di santificare, insegnare, governare rimangono, anche se non piene come quelle del vescovo. I Consigli economici parrocchiali e pastorali vogliono accompagnare l’azione del presbitero parroco, ma lo schema gerarchico risulta una copia più attenuata della potestas vescovile.
I ricorsi improbabili
Un aspetto che illustrala marginalità dei fedeli cristiani, compresi i presbiteri, nei confronti della potestas gerarchica è la debolezza di occasioni e di strumenti in eventuali contrasti con l’autorità costituita.
Il can. 221 §1 riconosce ai fedeli, il «diritto di rivendicare legittimamente e di difendere, nel foro ecclesiastico competente a norma del diritto, i diritti di cui godono nella Chiesa».
Il nuovo Codice ha disposto al can. 1733 §2 che la Conferenza episcopale costituisca un vero e proprio ufficio e consiglio «che abbia il compito, secondo norme da stabilirsi dalla Conferenza medesima, di ricercare e suggerire eque soluzioni; se la Conferenza poi non diede tale disposizione può costituirlo anche il vescovo». Il dettato del canone è ipotetico, perché nella bozza del nuovo Codice, prima della revisione finale era prevista una procedura amministrativa vera e propria (Libro VI de processibus – Pars V de procedura amministrativa), comprendente i canoni (provvisori) 1688-1715.
La Conferenza episcopale di ciascun paese avrebbe potuto stabilire uno o più tribunali amministrativi di prima e seconda istanza, con la possibilità di ricorrere alla Segnatura apostolica.
Era stata la prima Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi (7 ottobre 1967) a suggerire la costituzione di Tribunali amministrativi: «Occorre proclamare nel diritto canonico che il principio della tutela giuridica va applicato in modo uguale ai superiori e ai sudditi, così che scompaia totalmente qualunque sospetto di arbitrio nell’amministrazione ecclesiastica».[3]
Nella realtà non esiste una giustizia amministrativa terza per tutelare i diritti. È rimasto il ricorso gerarchico verso chi ha proposto l’atto amministrativo; in ultima istanza, il ricorso “giudiziario” alla Segnatura apostolica.
Considerazioni
1) Questa breve e sommaria riflessione sulla potestas gerarchica non è estranea al tema della sinodalità. L’essere sinodali significa partecipare, contribuire alla religiosità vissuta in comunione, nell’unica fede di Cristo. Al di là delle funzioni che nel popolo cristiano sono diverse, rimane il nodo espresso in Lumen gentium 10b che recita: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo».
2) La storia della Chiesa racconta di una struttura ecclesiastica molto attenta alla gerarchia con il rischio di rappresentare un’organizzazione umana molto simile a un regno, più che ad un’assemblea di fedeli cristiani legati dal vincolo della fede e della carità.
Senza voler mettere in dubbio nessuna verità sostanziale di fede, è necessario rivedere, con urgenza, non solo i modi e la narrazione delle strutture, ma riflettere su alcune questioni che contribuiscono a definire il volto della Chiesa.
3) La prima questione è l’approccio teologico, liturgico e canonico del sacramento dell’episcopato. Per secoli è stata sostenuta la tesi che il sacramento dell’ordine fosse unico; il concilio Vaticano II ha dichiarato che è un sacramento, recuperando l’unicità con i gradi dell’ordine, soluzione di scuola teologica. L’insistenza sulla figura di Cristo Capo come riferimento della natura dell’episcopato è impropria. San Paolo usa l’immagine di Cristo Capo nel parallelismo della Chiesa come corpo, di cui il Signore Gesù è riferimento. I vangeli non dichiarano Cristo Capo, ma lo descrivono umile, misericordioso, mite.
Al sacramento dell’ordine è stato applicato il principio dell’“ex opere operato”, sottovalutando l’“ex opere operantis” che pure la Lumen gentium ricorda al n. 8: «Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino». Le stesse insegne vescovili (anelli e mitrie) andrebbero abrogate perché sono simboli nati non prima del mille e di sapore ornamentale autoritario.
4) Questione più seria la collaborazione tra presbiteri e vescovo. Da Senato del vescovo, i sacerdoti sono diventati collaboratori. Eppure sono insigniti delle facoltà di presiedere l’eucaristia, di amministrare i sacramenti, di commentare la parola di Dio e di amministrare i beni.
Non hanno poteri pieni, eppure nella sede vescovile impedita o vacante è un sacerdote che amministra la diocesi, indicato dal collegio dei Consultori.
5) La sproporzione tra l’attenzione ai chierici rispetto ai fedeli cristiani è evidente in teologia e soprattutto nella canonistica. Se nella prima parte del Codice (cann. 208-223) si enunciano obblighi e diritti di tutti i fedeli, nella realtà i diritti non sono tali in assoluto, ma «spetta all’autorità ecclesiastica, in vista del bene comune, regolare l’esercizio dei diritti che sono propri dei fedeli» (can.223 §2): era sufficiente aggiungere “nel rispetto del diritto”, perché l’autorità prima fissa le regole, dopo di che monitorizza la loro osservanza.
6) Spesso il desiderio di partecipazione da parte dei laici è scambiato come richiesta di democraticità che nella Chiesa non è possibile. È richiesta, invece, una partecipazione maggiore: non soltanto di ascolto e di consiglio, ma di collaborazione autentica.
7) La gestione dei beni materiali da parte del clero, se preserva nel tempo la loro consistenza, non aiuta a interpretare la religione come dimensione spirituale. Gli scandali inerenti all’economia sono insopportabili, come non sono sopportabili gli scandali derivanti dalla sfera sessuale, soprattutto abominevoli come la pedofilia. Se ci fosse stato un riferimento indipendente e pubblico (un Tribunale, un Ufficio?) forse sarebbe stata offerta una voce indipendente e disponibile ad ascoltare le vittime e impedire gli scandali.
8) Da ultimo, le nuove forme di vita religiosa e i sacerdoti stranieri fidei donum pongono problemi di equilibrio. C’è un risveglio di movimenti, aggregazioni che non hanno una grande storia dalla loro nascita; inoltre, per la mancanza di vocazioni, gli orientamenti da diocesi a diocesi sono molto diversi e sostanzialmente orientati dalla volontà del vescovo di turno nel cercare e accogliere chierici stranieri. Una riflessione maggiore porterebbe sia all’accettazione che al rifiuto di vocazioni vaganti che, nel tempo si contraddicono, con la precarietà di orientamenti pastorali che non aiuta le fede del popolo cristiano.
9) È da recuperare il concetto di Chiesa come comunione: non solo di intenti e di desideri, ma di organizzazione e di strutture. Invocare ogni volta lo Spirito perché illumini e incoraggi è una forma spesso farisaica di decisioni umane attribuite al divino.
[1] E. Cattaneo, Il servizio ministeriale, La figura del vescovo in Ignazio di Antiochia, Il ritratto del vero presbitero-vescovo secondo sant’Ireneo di Lione, Àncora-Civiltà Cattolica, Milano 2019, pp. 9-41; 43-54.
[2] E. Corecco, Natura e struttura della «sacra potestas» nella dottrina e nel nuovo Codice di diritto canonico, in https://www.eugeniocorecco.ch/scritti/scritti-scientifici/ius-et-communio/ius-et-communio-27/
[3] G.P. Montin, Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli, http://www.monsmontini.it/pdf2018/115.
Devo dire che don Vinicio, come sempre, individua con acribia il nocciolo problematico della questione. Tuttavia l’esigenza di una trasformazione in senso sinodale della potestas gerarchica non è sentita da chi la esercita. D’altronde per i vescovi risulta più comodo continuare a fare “come sempre si è fatto”. Pertanto oggi risulta evidente, dato l’attuale contesto storico-ecclesiale, un paradosso: l’autorità nella Chiesa c’è, ma di fatto è come se non ci fosse (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/11/cattolicesimo-borghese-4.html).
Senza essere un tecnico penso che l’autorità nella chiesa è stata esercitata in modalità diverse in duemila di storia. Ora è arrivato il momento in cui l’autorità venga esercitata all’interno della comunione e non al di fuori di essa. L’autorità deve creare la comunione e esserne garante. Ciò implica una fatica immane per un papa, per un vescovo e per un prete. Quanta fatica fa un direttore di orchestra a tenere insieme gli orchestranti e permettere che tutti per la propria parte suonino una bella sinfonia. L’autorità deve garantire l’armonia e che le differenze siano riconciliate. La Chiesa è chiamata a mostrare al mondo il volto di Dio, che è Amore.