La celebrazione di un Concistoro di cardinali a Roma il 29 e 30 agosto scorso ha scatenato una quantità di voci sul fatto se, in realtà, si stesse assistendo a una specie di prova generale, previa a un incontro nel quale – fra non molto – potrebbe essere eletto il successore di Francesco.
Perché la riforma della curia
Al di là di queste e di altre speculazioni, credo che tale convocazione sia stata – da parte di papa Francesco – una specie di “rendiconto” dinanzi all’istituzione che, scegliendolo per tale responsabilità nel marzo 2013, lo incaricò di una riforma profonda della curia vaticana.
I “bene informati” sostengono che i cardinali di allora gli avevano affidato tale incarico non solo per le lotte – interne e notorie – tra le diverse fazioni o per la consegna alla stampa di notizie e di informazioni sensibili, ma anche perché, durante i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, la curia aveva costituito un diaframma tra il papa e il resto dei cattolici.
E lo faceva all’ombra di una rilettura che – propiziata dai due successori di Pietro sopra ricordati – non solo dava adito, tra altri eccessi, ad un esercizio dell’autorità eccessivamente unipersonale, ma favoriva anche atteggiamenti e comportamenti “papolatrici”.
Nulla a che vedere con quanto approvato dal Vaticano II quando afferma che il «supremo potere sulla Chiesa universale» è detenuto dal collegio dei vescovi con il papa, riuniti in concilio o dispersi nel mondo (LG 22). Perciò, l’esercizio del potere non viene esercitato né dal papa da solo, né dai vescovi da soli (e, meno ancora, dalla curia), ma congiuntamente.
Ricompariva la sempre spinosa questione del potere nella Chiesa. I cardinali, più attenti ai sintomi che alla causa del problema, gli affidarono il compito di una profonda riforma della curia perché smettesse di fungere da diaframma nel rapporto – costitutivo – che esiste tra il papa, i vescovi e, per estensione, con tutti i cattolici.
Ritengo che questo sia ciò che ha fatto Francesco – dopo nove anni di lavoro – convocando e celebrando questo Concistoro: “missione compiuta”, ha detto loro.
Ma in questi anni, durante i quali la riforma è maturata, sono emerse diverse questioni relative all’esercizio del potere nella Chiesa. Ne considero due.
Dal basso verso l’alto
La prima, legata alla necessità – per usare l’espressione di papa Bergoglio – di una “conversione del papato” che portasse ad un esercizio dello stesso “dal basso verso l’alto”, cioè a prendere decisioni ascoltando i diretti interessati. È quanto ha espresso nel Sinodo dei vescovi del 2015, immaginando la Chiesa come una “piramide capovolta”.
Ma è una “conversione” che ha mostrato i suoi limiti, come si è visto dopo la fine del Sinodo sull’Amazzonia.
Si è poi potuto verificare che questa “conversione”, oltre a passare attraverso un vasto processo di ascolto, necessitava ancora di una riorganizzazione più policentrica dell’autorità pontificia. Personalmente, ritengo che ciò si possa fare prolungando l’esperienza – quasi bimillenaria, in alcuni casi – degli oltre trenta riti oggi esistenti e tenendo presente la massima di sant’Agostino: “unità in ciò che è fondamentale, libertà in ciò che è discutibile e in tutto carità”.
Quale sinodalità?
La seconda questione si riferisce alla partecipazione al governo e al magistero ecclesiale dei quasi 1.400 milioni di cattolici che – come proclama anche il Vaticano II – «sono infallibili quando credono». Tale partecipazione avviene se essi vengono consultati su questioni sostanziali e prima di prendere una decisione in merito.
Francesco, a differenza dei suoi predecessori, non solo ha reso tale ascolto obbligatorio e non puramente facoltativo, ma ha anche avviato un processo sinodale per affrontare la questione di come dovrebbe essere una Chiesa realmente sinodale. Si tratta, realisticamente, di immaginare e di mettere in atto meccanismi che rendano credibile questa immagine di Chiesa vista come una piramide capovolta.
Questo è il problema che è in gioco dallo scorso anno e che culminerà nell’ottobre 2023, quando si celebrerà a Roma il Sinodo mondiale dei vescovi, dopo un lungo processo di ascolto, di dialogo e di formulazione di proposte.
Allora si vedrà qual è la sinodalità che si intende realizzare: quella che si sta sviluppando nelle Chiese latino-americane (consultazione del popolo, dibattito e decisione dei vescovi, con l’aiuto dei teologi) o quella messa in atto negli Stati Uniti, nell’immediato postconcilio: disporre di documenti che, dopo essere stati inviati alla base per essere studiati o per la proposta di emendamenti, sono approvati (oppure no) dalla Conferenza episcopale.
Sapremo se è quest’ultima la sinodalità in gioco quando, terminata la riunione dei vescovi in ottobre del prossimo anno, verrà inviato a tutte le diocesi del mondo – come ha dichiarato il card. Mario Grech, segretario generale del Sinodo non molto tempo fa – ciò che è stato dibattuto e approvato in assemblea episcopale per un’ulteriore lettura e per ricevere eventuali emendamenti dalle diocesi di tutto il mondo, prima di presentare il testo definitivo a Francesco perché lo ratifichi, se lo riterrà opportuno.
Terminato il tempo della prima consultazione, non resta che aspettare senza dare peso alle indiscrezioni.
Ormai è chiaro.
Il Papa va eletto a suffragio universale di tutti i battezzati.
Ovviamente anche i protestanti e gli ortodossi devono poter votare.
I vescovi e i parroci vanno pure eletti ma, ovviamente, a livello locale.
Il problema saranno le quote rosa ma si risolve come a San Marino dove i capitani reggenti sono sempre sue.
Avremo un papa e una papessa, un vescovo e una vescovessa, un parroco e una parrochessa.
I candidati LGBT potranno optare per partecipare in quota maschile o femminile.
La carica dura cinque anni.
Tutti potranno candidarsi (come è noto ormai il sacerdozio ministeriale è una faccenda superata).