Da quando è iniziata la stagione sinodale nella Chiesa cattolica, il mantra dell’ascolto è ripetuto ossessivamente. È vero, soffriamo di un deficit di ascolto. Dovremmo imparare ad ascoltare. Con la testa e soprattutto con il cuore, con l’anima. L’ascolto libera dall’autoreferenzialità, richiede più empatia e sgonfia il nostro narcisismo senza freni.
È giusto che ci ripetiamo questo impegno e sarebbe ancora più giusto che cominciassimo a metterlo in pratica. I “cantieri” sinodali stanno contribuendo a generare una sempre più diffusa prassi di ascolto.
Mi domando però: non sarà, anche, che enfatizzando l’ascolto (ascoltare e ascoltare e ascoltare), nascondiamo pure a noi stessi il deficit di dibattito, di opinione pubblica nella Chiesa? Infatti si registra un’assenza di un vero e proprio dibattito intraecclesiale. Un’assenza che, a sua volta, deriva dalla mancanza di un’autentica opinione pubblica dei credenti cattolici.
Il confronto
Occorrono persone capaci di ascolto ma ancor più persone che osino dire di più. Va bene ascoltare, ma anche prendere posizione: valutare, controbattere, proporre, criticare, argomentare. Con i vescovi, con i fratelli presbiteri, con i laici, vicini e lontani, di dentro e di fuori.
È questo che valida i processi decisionali e aumenta le probabilità di fare scelte appropriate. Che è poi, oggi, il problema dei problemi: in un mondo sempre più difficile e complesso, le decisioni si “imbroccano” più facilmente se in molti, prima, discutono e condividono. Cioè mettono insieme competenze, idee, esperienze.
Si chiama confronto. E, al di là della retorica, è in ballo (dovrebbe essere in ballo) la vecchia e risaputa dialettica. La quale prova, prima, a valorizzare (non a reprimere) e, poi, a comporre (senza soffocare) le differenze: per giungere a sintesi più fondate, solide, ricche. Che rendano più efficaci e sostenibili le decisioni e le realizzazioni conseguenti.
Certo, perché questo avvenga, occorre che anche l’altro ci sia, si esponga. Prenda posizione. Affermi se stesso. Esprima opinioni, idee, valutazioni. Non si limiti ad annuire, confermare, tacere. Ma spieghi, argomenti, discuta.
Il problema è che, troppo spesso, l’altro non c’è. Se gode di potere formale, comanda. Mostra il grado, la divisa, il ruolo. Trasmette, non comunica. Fa retorica. Passa slogan. Si impone: lui non parla, fa parlare il titolo, lo status.
Insomma, forse dovremmo smettere di scambiare il film con il cinema: guardando la pellicola, anziché girarla. Con un po’ di fatica: se non altro avendo ed esprimendo le nostre posizioni. È il mestiere del vivere; e, soprattutto, del convivere. Meno spettatori, più attori.
Altrimenti il mantra ridondante dell’ascolto sembra essere l’ennesima fuga retorica: in mancanza dell’azione (troppo faticosa), ci consoliamo ripetendo parole rassicuranti, ammantate di etichette altisonanti: conversazione spirituale. Si potrebbe parlare di una lettura tra noi, una lettura di una “Chiesa per borghesi”[1].
Il limite della conversazione spirituale
I due documenti, Sintesi e Cantieri, insistono molto sul metodo della conversazione spirituale. Una modalità ritenuta funzionale agli incontri in quanto crea un clima “che evita logiche di contrapposizione o dibattiti superficiali”, inoltre “l’attenzione alle risonanze profonde con l’esclusione di forme di dibattito o discussione” permette di non sentirsi giudicati e spinge “a entrare in contatto con il piano delle emozioni e dei sentimenti” ritenuto “più profondo di quello della logica e dell’argomentazione razionale”.
Questo metodo – peraltro suggerito anche dal Vademecum per la consultazione del Sinodo dei vescovi e che sembra più appropriato, nella sua dinamica, ad incontri di scambio spirituale come suggerisce il suo stesso nome (conversazione spirituale) –, presenta qualche limite ed esprime un timore[2].
Il timore è che possano emergere conflitti e contrapposizioni all’interno di comunità che, di fatto, non sono abituate al libero confronto. Sul conflitto l’Evangelii gaudium (nn. 226-228) osserva che “non può essere ignorato o dissimulato” e che occorre “risolverlo e trasformarlo” in un processo di maturazione che rende possibile “sviluppare una comunione nelle differenze”.
Ecco allora il limite. Il voler escludere forme di dibattito, – per restare sul piano delle esperienze, delle emozioni e dei sentimenti –, pensando di evitare i conflitti, limita la possibilità di maturare insieme visioni di Chiesa che possano affrontare quanto la Sintesi presenta come le “annose questioni che affaticano il passo”.
Ritengo che, nella Chiesa, si deve urgentemente tornare alla cultura del dibattito che aveva alle origini, altrimenti in rischia di ridursi a museologia o a setting di counseling spirituale. E così si opacizza ogni cosa e si tacitano le domande che urgono dal profondo mediante una proposta di una levità epidermica. Il dibattito è espressione e fondamento della ragionevolezza critica e dell’anti-autoritarismo.
Sane controversie
Non bisogna aver paura delle discussioni, ce ne sono sempre state, ne parlano anche gli Atti degli Apostoli. Le controversie sono sempre un segno di intensa partecipazione. Coloro che, divisi socialmente, erano riuniti dalla Chiesa delle origini, erano invitati a dialogare, discutere, proporre, dibattere. Come dibattere oggi, come assumersi il rischio dei disaccordi e tentare, malgrado tutto, di vivere già la condizione data dal battesimo di fratelli e sorelle di Cristo, e di figlie e figli di uno stesso Padre?
I termini unità, fraternità, comunione, generativi per ciò che promettono, sono diventati troppo spesso, nella Chiesa, parole-scudo, usate per evitare ogni forma di discussione. Sono diventate delle parole-totem, parole-amuleto sulle labbra delle autorità ecclesiastiche, ma anche di praticanti di sensibilità devozionale o che vogliono spiritualizzare tutto, che impediscono di esprimere liberamente il proprio punto di vista e di esercitare il senso critico.
Dal momento che si enfatizza l’ascolto, oggi nella Chiesa tutte le voci devono poter essere ascoltate. Con la loro collera, la loro sofferenza, la loro impazienza, con le loro infatuazioni o i loro pregiudizi.
L’urto dell’opinione altrui
Sì, il dibattito comporta una sofferenza, quella di essere urtato, ferito da opinioni opposte. Comporta anche un senso di colpa, quello di urtare e di ferire con opinioni opposte. Sì, il dibattito scuote la tranquillità di un’identità ereditata, di un modo di rapportarsi, all’interno della Chiesa, che ancora troppo spesso fa dei battezzati – e anche dei presbiteri – utenti passivi, individui deferenti e docili, e non persone libere.
Non ci può essere unità, fraternità, comunione nella Chiesa senza passare attraverso il dibattito, senza che il dibattito sia voluto, promosso, istituito, organizzato, condotto in maniera fiduciosa, libera e democratica. Dibattere nella Chiesa oggi è comprendere che l’intuizione dei fedeli, il buon senso – il sensus fidei – non può essere confuso con l’immaturità, l’inesperienza, l’incoscienza, l’incoerenza o l’irresponsabilità.
La parola confiscata
Il Concilio ha messo in rilievo il senso della fede dei battezzati, una nozione un tempo utilizzata dai Padri della Chiesa ma per lungo tempo dimenticata. Questa espressione designa una sorta di intelligenza spirituale, di istinto cristiano, di senso della Chiesa (secondo il concilio di Trento) che si basano sulla vocazione battesimale e appartengono all’identità cristiana. Il senso della fede è un’idea profondamente tradizionale e non una richiesta democratica, vale a dire sospetta, sorta tardivamente dalla modernità. Il Concilio precisa che il senso della fede non si esercita mai isolatamente ma nella comunione della Chiesa, e grazie allo Spirito Santo.
Questa nozione – evocata a sei riprese dal Vaticano II – presenta necessariamente delle difficoltà di applicazione. Dal lato del popolo cristiano, esiste il rischio di rimanere a uno sguardo troppo locale e troppo parziale delle questioni. Dal lato del magistero episcopale, di ricondurre il ruolo dei fedeli a una pura sottomissione. Grande è la tentazione per l’autorità di vedere l’applicazione del senso della fede solo in un movimento discendente. Questo movimento a senso unico è oggi difficilmente sopportabile.
Una Chiesa in cui la parola è confiscata potrà ancora essere percepita come una Chiesa di Pentecoste per il mondo dei nostri giorni? Urge darsi le possibilità di acquisire quella cultura del dibattito perché la Chiesa viva, si reinventi, si rifondi, sia al servizio di tutti.
Il timore da incubo del dibattito nella Chiesa, in nome di una presunta unità da preservare a tutti i costi, è distruttore e suicida. La Chiesa è nata dai dibattiti. Rinascerà dai dibattiti. Urge liberare la parola. È necessario tornare a credere nella forza pneumatologica della parola[3], senza eccedenze metodologiche che rischiano di mortificare i contenuti. È risaputo che l’assenza di dibattito uccide la creatività.
Infine, anche se al momento soffocate, alcune questioni non tarderanno a rinascere di nuovo.
Inoltre, c’è anche un problema di conformismo dell’informazione. Si preferisce riferire senza commentare, oppure si commenta in modo superficiale, oppure ancora si tende quasi automaticamente a riverire e ossequiare. Il risultato è evidente. La mancanza di un’opinione pubblica si traduce in un grave deficit per la vita ecclesiale.
Tutti gli stimoli che potrebbero venire, in particolare, dai fedeli laici sono soffocati all’origine e, quando qualcuno si comporta da cristiano adulto e osa pensare con la propria testa, ecco scattare la reprimenda da parte di altri laici che si ergono a giudici e a difensori d’ufficio della tradizione e dell’autorità, mentre in molti casi sono soltanto difensori dell’abitudine e del potere.
La libertà di esprimere le proprie idee senza paura è la precondizione dell’esistenza di un’opinione pubblica, ma se di fronte ai commenti più liberi scattano subito le accuse, gli insulti e l’emarginazione, come si può immaginare di avere un’opinione pubblica? Avremo piuttosto, molto più facilmente, schiere di adulatori.
La persuasione
Spesso nei nostri contesti ecclesiali “manca il respiro”, come affermavano qualche anno fa nel loro bel libro Saverio Xeres e Giorgio Campanini[4]. La comunicazione, all’interno della Chiesa, è spesso soltanto unidirezionale: scende dall’alto verso il basso. Dal basso non sale nulla. O, quando sale qualcosa, il messaggio incontra tanti di quegli ostacoli e di quei disturbi da vanificare ogni tentativo.
Mancano luoghi di confronto paritario e quelli che potrebbero svolgere questo compito sono diventati megafoni del magistero, contribuendo così non alla formazione di un’opinione pubblica ma, al contrario, a un sempre più marcato processo di clericalizzazione.
La coscienza contemporanea considera generalmente che una convinzione è degna di stima solo se è liberamente ratificata e non deriva dalla tutela di un maestro. Considera, inoltre, che questa convinzione è credibile solo se è capace di sostenere un dialogo leale con un interlocutore che sia, allo stesso tempo, in disaccordo e di buona volontà.
Tuttavia, ciò che sorprende di più non è l’indifferenza della Chiesa nei confronti delle interpellanze esterne, ma il modo in cui si immunizza nei confronti del dibattito interno. Paradossalmente, nel mentre si fa il verso alla Chiesa ad extra (in uscita), si rimane indifferenti al bisogno di dibattito ad intra.
Il pensiero indipendente non sembra aver diritto di cittadinanza all’interno del cattolicesimo. Più precisamente, sembra essere impensabile oggi cercare di risolvere i disagi legati al discorso del magistero con discussioni pubbliche, pacifiche e costruttive. In nome dell’unità, l’esplicitazione del dissenso è demonizzata e si vede sempre preferire l’obbedienza cieca.
È ora di sognare una Chiesa intellettualmente adulta, cioè capace di mettere in dibattito le sue scelte invece di censurare la dissidenza e di compiacersi nell’autocelebrazione. Il rischio della stagione sinodale che stiamo vivendo è quello di generare un’ecclesio–selfie. È poi proprio del selfie il carattere di autoscatto, esattamente come quell’attività di autoriflessione della Chiesa, una sorta di compulsività nella tendenza ad autovalutarsi.
Non si tratta di definire le sue convinzioni a partire dalla sola discussione: poiché le convinzioni si concepiscono come una risposta ad una parola che viene da più lontano degli uomini. Ma per purificarle e per investirsi anche lei nella ricerca comune del vero.
Pluralità
Così come ci sono quattro vangeli dalle teologie distinte e in ricerca di sé stesse, così come gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo mettono in scena incessanti controversie interne, la cultura del dibattito pubblico e dello spirito critico sarebbe un’opportunità per il mondo ecclesiale.
Si deve poter parlare e discutere criticamente, con libertà, fraternamente, senza paura. È urgente l’affermarsi nella Chiesa cattolica di un’opinione pubblica, con serenità, nel rispetto reciproco, senza anatemi. Purtroppo, nelle nostre diocesi spesso mancano gli spazi sistematici di dibattito pubblico.
Rari sono i momenti per ricercare insieme e liberamente su questioni reali, avvertite dal presbiterio e dal popolo di Dio. Eppure molti laici e presbiteri sinceri vorrebbero incontrarsi per discutere apertamente sul futuro della Chiesa, senza sottoporre a processi di liofilizzazione o edulcorazione spiritualizzante la parola umana.
«La pratica della sinodalità richiede di superare una visione idealizzata del dialogo: sono sempre presenti incomprensioni e fraintendimenti tra i partecipanti; sono possibili distorsioni da parte di chi pensa la verità come un potere sugli altri o da chi pretende di fare della propria autorità un sostituto della verità e richiede perciò obbedienza indiscussa e acritica, censurando le voci dei dissenzienti, praticando e giustificando una cultura del segreto»[5].
[1] Cf. http://www.settimananews.it/sinodo/una-chiesa-per-borghesi/ (accesso del 4 marzo 2023).
[2] Cf. https://ilborgodiparma.net/il-sinodo-fragile-della-chiesa-italiana-di-franco-ferrari (accesso del 28 febbraio 2023).
[3] Cf. F. Ebner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998.
[4] Cf. S. Xeres – G. Campanini, Manca il respiro. Un prete e un laico riflettono sulla Chiesa italiana, Àncora, 2011.
[5] S. Noceti, In comunicazione generativa. Conversazione, consensus, conspiratio, in R. Luciani – S. Noceti – C. Schickendantz (edd.), Sinodalità e riforma. Una sfida ecclesiale, Queriniana = BTC 211, Brescia 2022, p. 272.
L’articolista vagheggia un dibattito etereo e disincarnato in cui i suoi “cristiani adulti” siano esenti da ogni obiezione. Beh il dibattito “creativo” degli apostoli o dei concili, anch’esso qui evocato, non fu per niente etereo ma piuttosto costellato di feroci scontri e barbe strappate. Da parte mia spero che i cristiani “adulti” (categoria prodiana) trovino sempre sulla loro strada dei cristiani “maturi” (categoria paolina) con cui dibattere sotto lo sguardo attento dello Spirito Santo. Quanto ai pastori non ci facciamo illusioni: sono loro che hanno il munus o carisma di governo ma purtroppo in molti lo hanno infangato e tradito. Chi per brama di potere, chi per la superbia della vita, chi per la concupiscenza vestita in vario modo. Beh, tutto questo male ricade in primis sulle vittime poi sulla Chiesa e sul gregge che inevitabilmente si disperde quando i pastori sono “percossi”.
Penso che occorra anche incominciare a confrontarsi, senza far passare altro tempo, sul modo in cui si prendono decisioni nella Chiesa. Senza paure e senza preconcetti. Stare immobili è il male peggiore.
Penso che nella Chiesa ci sia una diversità di posizioni e di orientamenti e lo si vede dal pullulare di siti web cattolici non istituzionali e dai dibattiti che questi alimentano. Il web è diventato il luogo virtuale per esprimere le proprie posizioni, perchè a livello istituzionale di base non ci sono luoghi per esprimerle. Nella mia diocesi non c’è stato un libero dibattito per il cammino sinodale ed è rimasto per gli addetti ai lavori. Serve molto a poco se l’ascolto rimane per pochi o se dopo l’ascolto si continua ad agire sempre allo stesso modo.
Veramente d’accordo E CI VORREBBE UN QUADRO DI DOVE E QUANTO LE COSE STANNO COSì!
Mi permetto di segnalare due miei interventi che allargano il campo della questione sollevata nell’articolo. https://www.vinonuovo.it/teologia/pensare-la-fede/chi-decide-nella-chiesa/
https://www.vinonuovo.it/teologia/pensare-la-fede/chi-decide-nella-chiesa-2/
“Infatti si registra un’assenza di un vero e proprio dibattito intraecclesiale. Un’assenza che a sua volta deriva dalla mancanza di un’autentica opinione pubblica dei credenti cattolici.”
Più che altro nessuno ascolta, ma tutti scrivono e nessuno si prende mai la briga di rispondere” non è un dibattito ma uno sfogatoio continuo. Tutti si lamentano dello stato di cose ma non si avanzano soluzioni veramente praticabili e non c’è mai sintesi.