Sinodalità e sovranità

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bogner 21

Cosa sarebbe una poesia senza la sua struttura formale? Lo schema delle rime, il metro, il ritmo e la scelta delle parole danno voce a ciò che vuole dire. Senza forma non c’è contenuto. Entrambi emergono l’uno dall’altro e a nessuno verrebbe in mente di affermare che chi si occupa della forma linguistica della poesia lo fa a scapito del suo messaggio.

Il cattolicesimo contemporaneo interpreta questa costellazione in modo bizzarro. Qui si tratta della pretesa di eternità di una forma ecclesiastico-istituzionale in cui si ritiene garantita e mantenuta la stabilità del messaggio proclamato. Chi vuole discutere della costituzione della Chiesa perde di vista il messaggio – è il mantra degli oppositori della riforma, sia tra il  clero che tra il popolo della Chiesa. Con il programma di “sinodalità” proposto da qualche tempo da papa Francesco, questa posizione acquista la sua risonanza. Essa si contrappone a una costituzione della Chiesa basata sullo spirito della democrazia ed viene considerata come la forma autenticamente cattolica di governo della comunità religiosa.

Il concetto ha origine nella tarda antichità e nel primo cristianesimo. I vescovi agiscono “sinodalmente”, in consultazione tra loro, pur essendo sovrani reggenti della propria Chiesa locale. Di fronte alle sfide della leadership ecclesiale di oggi, il vocabolario crea una nebbia concettuale. Infatti, cosa rimane se si sottrae il gesto di partenza con cui il papa vuole generare dinamismo pastorale?

Che per prendere buone decisioni è necessario ascoltare davvero gli altri. Che tutti sono in qualche modo coinvolti in modo consultivo, anche se, alla fine, sono solo i gerarchi consacrati a decidere. Il papa parla di sinodalità “costitutiva”, non di sinodalità costituzionale, in cui la consultazione sotto forma di decisione comune sarebbe vincolante. Questo dimostra che la sinodalità romana è soprattutto una cosa: atteggiamento e attitudine.

Coraggiosi con il freno a mano

Il Cammino sinodale in Germania è forse il tentativo più coerente a livello mondiale di raccogliere l’impulso di Roma. Si è voluto prendere sul serio l’incoraggiamento del papa alle Chiese particolari a procedere quando la forma della Chiesa impedisce al messaggio evangelico di realizzarsi. Quando i tedeschi si mettono a fare qualcosa, lo fanno andando alle radici del problema, anche nella Chiesa. Le critiche a procedure regolate sono risibili, perché alla fine tutti sono grati quando i dibattiti sono ben strutturati, le decisioni vengono documentate e le singole posizioni sono comunicate in modo sostenibile.

Ma quello che si è vissuto dopo la conclusione di questo progetto assomiglia a una tragedia già annunciata, anche se il nucleo di tutto il rinnovamento, ossia la relativizzazione della costituzione monarchica della Chiesa, era stato alla fin fine rinviato. Con il riconoscimento della diversità di genere, della predicazione dei laici e della benedizione degli omosessuali e dei divorziati risposati, sono state effettivamente prese posizioni che andavano oltre lo status quo.

Per quanto riguarda il diaconato delle donne e il requisito del celibato, si chiede a Roma di “esaminare” se tutto debba rimanere invariato. È il risultato di un coraggio con il freno a mano tirato, dimostrato da vescovi che stentano a credere ai loro occhi per il punto fino a cui si sono spinti. Ma inviare a Roma richieste di revisione di cose come il diaconato femminile, già deciso dal Sinodo di Würzburg negli anni ’70 e rimasto senza risposta da Roma, non sarà percepito come un passo avanti al di fuori del nocciolo interno del mondo cattolico.

E anche in questo caso, i vescovi continuano a ricevere schiaffi dalle autorità che stanno sopra di loro. A ritmo mensile, le autorità romane di curia emettono le loro bocciature – ultimamente anche di richieste di riforma a bassa soglia come la predicazione e l’amministrazione del battesimo da parte di laici. E se il presidente della Conferenza episcopale Bätzing, la cui imperturbabilità incute rispetto, crede ancora nel successo, allora dopo tre anni di lavoro siamo probabilmente arrivati dove la minoranza degli oppositori tedeschi alla riforma, con la collaborazione dei loro contatti vaticani, ha sempre voluto arrivare: al punto di partenza. Roma locuta causa finita.

La struttura giuridica della Chiesa

Ciò che spesso non si vede bene dall’esterno è che, nella concezione cattolica, la costituzione giuridica della Chiesa non è un semplice accessorio organizzativo, ma un necessario marcatore di identità. Secondo la tradizione, la Chiesa è una communio gerarchica fin dalla sua fondazione, strutturata internamente dalla contrapposizione di clero e laici, una Chiesa che insegna e una Chiesa che ascolta. Alcuni sono chiamati per ordinazione a rappresentare Cristo, altri a servire il mondo, a portare la verità ricevuta nella società e nella politica.

Il Concilio Vaticano II ha enfatizzato il battesimo comune e ha quindi formulato una definizione vaga di “sacerdozio comune” di tutti i battezzati. Tuttavia, la natura gerarchica fondamentale della Chiesa è stata sottolineata nei testi centrali del Concilio; e il nuovo Codice di diritto canonico del 1983 è stato teologicamente plasmato in questo senso. Ancora oggi, gli ambienti della riforma ecclesiastica non vogliono rendersi conto di questo e glorificano l’ultimo Concilio in un modo che a volte sembra romantico.

Esso ha rinnovato alcune cose, ma non la comprensione di base del corpo ecclesiale come comunità gerarchica con un modello monarchico di leadership e l’idea che, proprio in essa, si esprime l’autentica volontà fondatrice di Gesù Cristo. Cambiare questa struttura, quindi, per alcuni equivale ancora a un sacrilegio.

L’ipoteca di tali concezioni dottrinali spiega la costruzione paradossale del Cammino sinodale. Per poter creare un luogo di parola per l’insieme sinodale di clero e laici, era necessario porsi al di fuori dell’attuale sistema canonico. L’assemblea sinodale, in quanto creazione di un proprio diritto, ha avuto una valenza politico-ecclesiale, ma, allo stesso tempo, è stato anche un bersaglio della critica romana, che trovava facile negare la legittimità della nuova costruzione giuridica.

E, anche senza una legittimità stabile del proprio luogo di affermazione, il Cammino sinodale si è messo a discutere una proposta di costituzione ecclesiale rinnovata. Una situazione che assomiglia a quella di Münchhausen, ed è ulteriormente aggravata dal fatto che sono in gioco categorie come “diritto divino” e “tradizione dottrinale ininterrotta” – così che i canonisti possono proclamare all’unisono che un’altra Chiesa è semplicemente impossibile. Ci si potrebbe chiedere cosa avrebbero pensato i giuristi dell’Ancien Régime alla vigilia della Rivoluzione francese della possibilità di un ordine costituzionale repubblicano.

La rinuncia alla sovranità come atto sovrano?

Quando rivoluzione e riforma sono ugualmente non praticabili, le cose si fanno difficili. L’unica opzione è quella di fare un passo indietro. Lasciare tutto com’è e installare una nuova prassi all’interno della validità formale di ciò che è. D’ora in poi, la separazione dei poteri e il controllo dell’ufficio episcopale dovranno essere realizzati attraverso un “impegno volontario” dei monarchi.

Essi dovranno impegnarsi a esercitare la loro leadership all’interno di consigli e comitati sinodali, composti anche da laici. In questo modo, si intende rimanere all’interno dell’attuale diritto ecclesiastico, ma anche realizzare ciò per cui il Cammino sinodale è stato istituito, ossia fornire risposte allo scandalo della violenza sessualizzata da parte di persone consacrate.

Tuttavia, un vero controllo del potere non è possibile per definizione rispetto alla figura giuridica di un “vincolo volontario”. La struttura portante dell’intero progetto finisce così col crollare. Si è anche trascurato di identificare il modello proposto come una soluzione transitoria, come una via provvisoria per svincolarsi dal dogmatismo giuridico. Alla fine, per ottenere qualcosa, i riformatori hanno persino promosso l’idea che tale “vincolo volontario” avrebbe consolidato la sovranità dell’ufficio episcopale, perché sarebbero stati i vescovi a vincolarsi volontariamente. Concessione di sovranità come atto sovrano per eccellenza, per così dire.

Un simile accanimento non rende giustizia a nessuno, perché priva entrambe le posizioni opposte riguardo all’ufficio e alla costituzione della Chiesa del loro apice interno. La vera sovranità del ministro ordinato comprenderebbe di recedere, in caso di dubbio, dalla propria volontà di un agire vincolato, e la possibilità di decidere diversamente sulla base della propria autorità.

Ma di questo non si trova traccia nella narrazione del “vincolo volontario”. Volontaria è probabilmente solo la decisione iniziale di entrare nel nuovo regime, all’interno del quale si suppone che il titolare della carica, una volta entrato, non dovrebbe avere più alcuna scelta. Al contrario, contraddice il vero controllo del potere e una reale partecipazione il fatto che i gerarchi si sottopongano volontariamente alle consultazioni comuni. Infatti, chi può garantire che il “vincolo volontario” sia permanente e venga ripreso anche dal successore?

Il controllo del potere e le garanzie di partecipazione, per essere efficaci, non devono essere nuovamente soggetti ai calcoli del sovrano episcopale. Ma questo sarà il caso se il vincolo è volontario e tutta la partecipazione è in definitiva concessa solo come atto di sovranità e quindi da rimettere in discussione non appena la coscienza sovrana si fa sentire.

Il nuovo ultramontanismo

L’esito del Cammino sinodale mostra una miseria à la catholique. Poiché un vero rinnovamento è praticamente impossibile nel linguaggio del sistema adottato, si cerca una soluzione di ripiego. Speranza, molta buona volontà e una fiducia quasi illimitata, ma difficilmente giustificata, nella capacità di cambiamento dello status quo formano un amalgama opaco. Gli attori credono a ciò che essi stessi stanno costruendo?

Non possono permettersi di non crederci, perché le prospettive di tagliare il nodo gordiano sono piuttosto scarse. Su di loro pesano le forze persistenti di una Chiesa giuridica rivestita di un’aura sacrale e, dopo il Vaticano II, anche teologizzata. Tutti gli attori sono figli dell’unico regime, sia i vescovi conservatori che continuano a insistere sul valore nominale della figura monarchica della rappresentazione di Cristo nell’ufficio e nella struttura, sia le forze riformatrici che non osano prendere il toro per le corna. Invece, inviano a Roma “richieste di verifica” in forma di petizione, chiedono “indulti” e sono fautori della sovranità episcopale, proprio quando questa dovrebbe essere limitata.

Forse, a posteriori, ci si renderà conto che sarebbe stato saggio non cercare tanto un adattamento allo status quo, ma andare oltre e interpretare in modo più radicale l’obbligo di collegarsi alla tradizione e alla dottrina esistente. Allora non si tratterebbe più di salvare una legittimità canonica teologicamente discutibile; quanto piuttosto come rinnovare il carattere della Chiesa cattolica in quanto comunità religiosa apostolicamente costituita.

La struttura della Chiesa, che risale alla missione degli apostoli, poggia sull’ufficio del vescovo. Questo ufficio struttura il corpo sociale ecclesiale, unisce i momenti rappresentativo-formativo, testimoniale-espressivo e governativo di guida. È funzionale, ma soprattutto è sacramentale. Ciò significa: è segno e simbolo che la Chiesa come entità sociale vive di un’anticipazione audace di qualcosa che è quasi impossibile da concettualizzare.

In parole povere: la Chiesa cattolica dovrebbe mantenere questo ufficio, perché fa parte della sua essenza. Tuttavia, il fatto che debba essere interpretato secondo schemi di governo tardo-antichi e medievali, poi anche assolutistici, non è scritto da nessuna parte, ma è il frutto di una inculturazione riuscita estremamente bene del cattolicesimo nei secoli passati. Solo con la democrazia e lo Stato di diritto questa Chiesa non ha più voluto osare un incontro.

Il ministero rinnovato? Apostolico sì, monarchico no

Invece di una Chiesa che livella l’ufficio in direzione di una comunità di fede composta formalmente da eguali, e invece di difendere la forma tradizionale dell’ufficio al prezzo di una Chiesa di diseguali, si dovrebbe percorrere una terza via. Si tratterebbe della ricerca di un profilo per l’ufficio apostolico, che sarebbe conservato nella sua forma sacramentale, ma al quale avrebbero accesso non solo gli uomini ma anche le donne. Si tratterebbe di un ministero interpretato apostolicamente, ma non monarchicamente.

Non perderebbe la sua autorità se fosse sottoposto a meccanismi di controllo vincolanti che coinvolgono i poteri. La rappresentanza di Cristo non significa che ministri terreni e fallibili debbano incarnare tale rappresentanza in maniera incontrollata, quasi monolitica. Piuttosto, la rappresentanza, anche nella e per la Chiesa, dovrebbe tenere conto dell’insormontabile distanza tra il rappresentato e i rappresentati. Rappresentazione sì, ma con modestia rispetto alla competenza di essere fedeli al rappresentato. Rappresentazione come testimonianza, non come fotocopia.

Non si tratta più, come proponeva Carl Schmitt, di “cattolicesimo romano come forma politica”. Sembra necessario il contrario. La forma romana deve assumere in sé ciò che si è dimostrato buono nella storia dell’esperienza umana, spesso ispirata da impulsi biblici.

Una tale Chiesa non sarebbe una seconda Chiesa protestante, come teme papa Francesco. Al contrario, conserverebbe la propria natura storicamente sviluppata, incorporando però nella propria autocomprensione quelle conquiste che dovrebbe sostenere a partire dal proprio messaggio – la pari dignità di uomini e donne, la partecipazione di tutti alla missione comune, la limitazione del potere terreno.

Alla fine, la domanda è: qual è il modello per il cambiamento e la trasformazione nella Chiesa cattolica? Poiché la tradizione è considerata una fonte di rivelazione accanto alle Scritture e all’interpretazione del magistero, ogni cambiamento deve sempre essere mostrato nella modalità di connessione. Ogni innovazione attira rapidamente l’odio del tradimento, di essere un filo strappato.

Dal modo in cui Roma reagisce ai timidi tentativi di riforma provenienti dalla Germania, sembra che rimanga solo una via: che i vescovi interessati al rinnovamento si autorizzino a una violazione misurata dei limiti esistenti. Questo, però, non per rompere e basta, ma per raccogliere il bandolo di matasse che sono rimaste sottovalutate e lasciate perdere, non più viste dal centro romano.

In un sistema come quello delle risposte vaticane alle preoccupazioni della riforma tedesca, che sono nel frattempo degenerate in un secco “Niet“, e in cui il papa recita la favola dottrinale del principio “petrino” e “mariano”, il discorso sistemico fatto di richieste di essere ascoltati non sembra più essere l’opzione preferibile. Sovrano è colui che decide quando l’eccezione è necessaria.

  • Daniel Bogner è ordinario di teologia morale ed etica presso l’università di Friburgo/Svizzera. Articolo pubblicato in lingua tedesca su Herder Korrespondenz (6/2013 20-22). Pubblicazione esclusiva in italiano.
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4 Commenti

  1. Pier Giuseppe Levoni 17 luglio 2023
  2. Emiliano 14 luglio 2023
  3. Salfi 14 luglio 2023
  4. Adrian Boboruta 14 luglio 2023

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